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Il piacere di vivere
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Il piacere di vivere

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I saggi più belli di Montaigne tradotti in uno stile semplice e scorrevole al fine di rendere la lettura agevole a ogni tipo di lettore.
Io non insegno, dice M., racconto. Il termine “essai” ha il significato di esperienza. Quelle che racconta sono le esperienze della storia antica, della Francia del suo tempo e, soprattutto, di se stesso. Man mano che il lavoro procede, la sua attenzione si viene concentrando sempre più sulla sua persona. “Io non ho composto il mio libro più di quanto esso non abbia composto me. È un libro consustanziale al suo autore”. In esso confluiscono dubbi e perplessità, sfoghi e amarezze, secondo l’umore del momento. “Io mi spio da vicino e tengo gli occhi costantemente fissi su di me, come colui che non ha molto da fare altrove”. Senza preoccuparsi dell’immagine che di lui si possa ricavare: “ritornerei volentieri dall’altro mondo per smentire colui che mi presentasse diverso da quel che sono stato, fosse anche per onorarmi”. E manca un disegno e un piano sistematico: “Io non mi trovo dove mi cerco, e trovo me stesso più per caso che per indagine della mia mente…"
Per M. ogni uomo riassume in sé la condizione umana. Per la conoscenza di sé passa allora la conoscenza degli altri. Questa lungo dialogo con se stesso lo conduce a un’importante conclusione: non esistono regole che conducano alla saggezza. Si tratta di una via individuale, alla quale ognuno può pervenire seguendo una soluzione “sua”, una soluzione cioè che sia in armonia con la propria natura: “Ci sono mille diversi modi di vivere: buono è solo quello che si adatta a noi”. Bisogna liberarsi quindi dai modelli degli altri e nello stesso tempo lasciare gli altri liberi di seguire il loro. “La natura è una dolce guida”, e a essa bisogna affidarsi per ritrovare l’equilibrio interiore. In ogni ragionamento M. mostra una grande fiducia nell’ordine che in natura tutte le cose trovano. Il primo passo dell’ingiustizia e dell’errore appare ai suoi occhi come il discostarsi da quelle regole che essa ci ha dato.
M. è un filosofo atipico. Non solo non si rivolge a una platea di intellettuali o di addetti ai lavori, ma si direbbe che la sua prima preoccupazione sia la chiarezza dell’esposizione. “Voglio adottare la lingua che si parla al mercato”. La sua lettura non presuppone alcuna dimestichezza col linguaggio della filosofia, né familiarità coi suoi rappresentanti. E il pensiero astratto non si separa mai dal caso concreto. Spesso lo stile procede per associazione. Basta un tenue appiglio per spostarsi in tutt’altro discorso, e da questo in altro ancora. I Saggi sono quello che si usa definire un libro accessibile a tutti.
“Ho incontrato cento contadini più saggi e felici di rettori d’Università, e ai quali preferirei somigliare”. In questo passaggio è racchiuso il senso che egli da alla filosofia.
LanguageItaliano
Release dateJun 13, 2013
ISBN9788890826931
Il piacere di vivere
Author

Michel de Montaigne

Michel de Montaigne (1533-1592) was born on his family estate in Aquitaine, not far from Bordeaux. Raised speaking Greek and Latin, he studied law before embarking on a career of public service, first as a counselor of court in Périgueux and Bordeaux, then as a courtier to Charles IX. Following the death of his father, Montaigne retired from public life to the Tower of his château to read and write. He published the first two volumes of his landmark Essays in 1580, with a third following in 1588; the complete Essays appeared posthumously in 1595.

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    Il piacere di vivere - Michel de Montaigne

    Locandiera

    Introduzione: Un antieroe del ‘500

    Tra le tante massime che M. usava incidere sulle colonne della sua biblioteca, ne figurava una di Plinio il Vecchio: La sola certezza è che non vi è niente di certo, e che non vi è niente di più misero e orgoglioso dell’uomo. Sono parole che ben riassumono i capisaldi del suo pensiero. L’orgoglio e la curiosità, scrive in uno dei suoi saggi, sono le due piaghe dell’animo umano: questa ci spinge a ficcare il naso dappertutto, quello ci impedisce di lasciare irrisolto alcunché.

    Lo scetticismo di M. non è però uno scetticismo radicale e definitivo. La sua critica e la sua ironia prendono di mira ogni metafisica che vuole propinare come verità edifici privi di fondamenta, un po’ come quelle donne che si costruiscono una bellezza fittizia facendosi cosce di feltro e seni di cotone. Così, ai suoi occhi, coloro che suppliscono alla mancanza di conoscenze con teorie indimostrabili più che per l’ignoranza sono da rimproverare per l’imprudenza. Ne deriva un totale rifiuto di ogni principio di autorità. Non c’è intelletto umano, per quanto robusto possa essere, che di tanto in tanto non sonnecchi. Prendete Platone. A cosa pensava quando definì l’uomo un animale a due piedi senza piume, fornendo buona occasione a coloro che volevano divertirsi alle sue spalle: ché spennato un cappone vivo, questi chiamarono l’uomo di Platone. A ogni forma di dogmatismo, invece, M. oppone il motto che so?, fatto incidere su una medaglia sul cui retro era raffigurata una bilancia. Esso serve a mettere continuamente in discussione sé stesso e le sue conoscenze. E pagina dopo pagina, M. si scopre nuova figura di filosofo: non premeditata e fortuita. Di che tipo fosse la mia vita, dice ancora, a conferma del suo rifiuto di ogni schema precostituito, l’ho appreso solo vivendola.

    Nemmeno la visione pessimistica dell’uomo ha carattere definitivo. Se da un lato, infatti, M. esprime giudizi inequivocabili sull’irrazionalità del comportamento umano, dall’altro forte e incondizionata risalta la fiducia nella ragione. Non vi sono colpe non emendabili, se si esclude forse la stupidità. In Sull’esperienza afferma che la ragione occupa in lui il seggio più elevato. È un’immagine significativa. Con i suoi scritti e con la sua condotta, infatti, sembra che M. abbia voluto elevare quella stessa ragione sopra il suo tempo. Il suo discorso mira a demistificare tutti quegli atteggiamenti che spesso, e in un contesto di torbidi soprattutto, usurpano il nome di virtù. Crudeltà e vendetta non hanno forza propria sufficiente? Ebbene, alimentiamole e infiammiamole col glorioso titolo di giustizia e devozione. È una saggezza che si esprime col dubbio quella di M.: dubitare è il modo migliore per salvaguardare la nostra libertà.

    Nato nel 1533, un anno dopo la pubblicazione di Pantagruele e un anno prima della pubblicazione di Gargantua, M. è nutrito di cultura classica fin dall’infanzia. Il padre, amante dell’Italia, che ha avuto modo di conoscere come soldato dell’esercito di Francesco I, assume un precettore che ha il compito di parlare sempre in latino con il piccolo. M. l’apprende quindi come una lingua viva. Questo spiega la gran quantità di citazioni che troviamo nel libro, nonché l’assenza d’ogni atteggiamento d’erudito.

    Nella seconda parte del Cinquecento l’ideale umanistico di cieca fiducia nell’uomo e in un progresso costante e inarrestabile va lentamente dissolvendosi nei rigori della Controriforma, mentre in Francia divampano le guerre di religione. Una serie di scontri che lacerano e insanguinano il paese. Non si fa in tempo a firmare i trattati di pace di un conflitto che scoppia il successivo.

    A 38 anni M. vende la carica di consigliere e si ritira nel suo castello. Viaggia per circa due anni in Europa, e mentre si trova in Italia apprende che i suoi concittadini l’hanno nominato sindaco di Bordeaux. Dopo ripetute insistenze, accetta l’ufficio che esercita con equilibrio dalla fine del 1581 a metà del 1585. Avevo già abbastanza chiaramente confessato la mia totale inadeguatezza agli affari pubblici, ricorderà nel saggio Sulla vanità. Ma c’è dell’altro. E cioè che non me ne dispiaccio molto, e non cerco nemmeno di guarirla. Riguardo all’incarico affidatomi, non posso dirmi soddisfatto del lavoro che ho svolto. Mi sono limitato a mantenere ciò che avevo promesso, superando però di molto quanto avevo promesso agli altri: dal momento che prometto sempre meno di quanto posso mantenere. Per il resto, ritengo di non essermi lasciato dietro né offese, né odio. Quanto a lasciare rimpianto di me, non ci ho provato nemmeno. L’ufficio pubblico rimane ben disgiunto dalla sua persona: Il sindaco e M. sono sempre state due persone diverse.

    E tuttavia anche lui fa diretta esperienza del clima di intolleranza che divide il paese, fino a essere rinchiuso alla Bastiglia per un breve periodo qualche anno prima della morte. A partire dagli anni ‘50 il conflitto tra ugonotti e cattolici è andato facendosi più acuto, e in tale contesto, in cui gli uomini presi a modello trascorrono la vita tra congiure e campi di battaglia, e l’onore viaggia in misura proporzionale ai nemici uccisi, la figura di M. è sicuramente quella di un antieroe. Le sue parole non possono non generare sospetti in entrambi gli schieramenti: La lunga sofferenza genera l’abitudine, e l’abitudine genera il consenso e l’imitazione. Ne avevamo abbastanza di anime mal nate, senza dover guastare anche le migliori.

    Prima che insieme all’ennesima guerra scoppi pure un’epidemia di peste, M. si adopera ancora come negoziatore tra Enrico III e Enrico di Navarra. Ma dopo l’ascesa al trono di quest’ultimo, nel 1589, rifiuta di far parte del nuovo governo, ritirandosi definitivamente nel suo castello. Trascorre la maggior parte del tempo nella biblioteca lavorando a una nuova edizione dei saggi. Si spegne il 13 settembre del 1592, dopo aver preso congedo da famigliari, amici e servitori.

    Lo stesso sforzo di pacificatore M. sembra volerlo esercitare sulla sfera morale. La sua ragione non è quella degli Stoici, che cerca in se stessa regole immutabili e universali. E’, piuttosto, metodo. Il discorso di M. cerca di conciliare le alte ragioni della morale con quelle dell’umano egoismo. Ne viene fuori un’etica terrena, che muove dal singolo soggetto e non se ne stacca mai. Punto d’arrivo della cultura rinascimentale. Non vi è più cieca esaltazione dell’uomo centro dell’universo, ma ragionevole fiducia nelle sue capacità di capire e misurarsi con un’epoca di grandi trasformazioni culturali, politiche e antropologiche. M. non ha risposte da offrire, e il messaggio del suo discorso ritorna uguale per ogni argomento: Noi siamo ricchi di dottrina… Guardate in voi stessi, e troverete tutte le risposte. Gli antichi prima di essere modelli di virtù, sono esempi di ragionamento.

    Un’etica minima, dunque, quella di M., e forse, anche per questo, di difficile attuazione. Spogliando, infatti, la virtù di quell’abito di perfezione con il quale usiamo rappresentarla e avvicinandola a noi, M. ci toglie l’alibi. Non c’è bisogno di seppellirsi sotto montagne di libri o ritirarsi in un chiostro a tormentare il corpo e a disprezzare il mondo. Queste, che con punta di ironia chiama virtù estreme, sembrano produrre al suo orecchio un suono disarmonico. Gli pare, piuttosto, che ci sia per ogni uomo una soluzione equilibrata di essere nel mondo. Una soluzione che dia prima di tutto soddisfazione e piacere. M. insiste molto su questa parola. E vi insiste in modo aperto e provocatorio. E per tutti coloro che pongono mete irraggiungibili, ha parole lapidarie: Non c’è alcuna meta per le nostre ricerche: la nostra meta è all’altro mondo.

    Io non insegno, dice M., racconto. Il termine essai ha il significato di esperienza. Quelle che racconta sono le esperienze della storia antica, della Francia del suo tempo e, soprattutto, di se stesso. Man mano che il lavoro procede, la sua attenzione si viene concentrando sempre più sulla sua persona. Io non ho composto il mio libro più di quanto esso non abbia composto me. È un libro consustanziale al suo autore. In esso confluiscono dubbi e perplessità, sfoghi e amarezze, secondo l’umore del momento. Io mi spio da vicino e tengo gli occhi costantemente fissi su di me, come colui che non ha molto da fare altrove. Senza preoccuparsi dell’immagine che di lui si possa ricavare: ritornerei volentieri dall’altro mondo per smentire colui che mi presentasse diverso da quel che sono stato, fosse anche per onorarmi. E manca un disegno e un piano sistematico: Io non mi trovo dove mi cerco, e trovo me stesso più per caso che per indagine della mia mente… Man mano che le mie fantasticherie si presentano, vado ammassandole. Un libro, com’è stato definito, in movimento, dunque, che segue l’autore nel suo divenire.

    Per M. ogni uomo riassume in sé la condizione umana. Per la conoscenza di sé passa allora la conoscenza degli altri. Questa lungo dialogo con sé stesso lo conduce a un’importante conclusione: non esistono regole che conducano alla saggezza. Si tratta di una via individuale, alla quale ognuno può pervenire seguendo una soluzione sua, una soluzione cioè che sia in armonia con la propria natura: Ci sono mille diversi modi di vivere: buono è solo quello che si adatta a noi. Bisogna liberarsi quindi dai modelli degli altri e nello stesso tempo lasciare gli

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