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Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo
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Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo
Ebook153 pages2 hours

Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo

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In un futuro prossimo, l'umanità attende l'impatto con il più grande asteroide che abbia mai colpito la Terra. I fatalisti si preparano con rassegnazione alla fine del mondo, gli ottimisti cercano di organizzarsi per sopportare l'impatto e sopravvivere. Su tutti incombe il conto alla rovescia che viene riproposto con agghiacciante precisione dai media.
Ma il problema più impellente del diciottenne Giorgio sono un padre violento ed una madre succube che gli avvelenano la vita. Vuole trovare un lavoro, terminare gli studi e andarsene da casa. Tutto sembra procedere per il meglio: viene assunto come dog sitter nella casa dell'ospitale e stravagante famiglia Baldi e coinvolto in un girotondo di vicende insolite e surreali. Purtroppo i tabelloni disseminati per tutta la città col conto alla rovescia ricordano l'inesorabile avvicinarsi dell'asteroide e di un destino che cambierà l'esistenza a tutti. Sarà realmente un tragico epilogo? Oppure si tratterà di un radicale nuovo inizio?
LanguageItaliano
Release dateAug 27, 2012
ISBN9788867551033
Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo

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    Silenziosamente al mattino spicca il tuo volo - Enrica M. Corradini

    Corradini

    Capitolo 1

    Quella che segue è la ricostruzione imprecisa e rigorosamente parziale, degli ultimi mesi di attesa del più grande asteroide che mai abbia colpito la Terra dal tempo dei dinosauri.

    Un giorno qualunque e senza alcuna enfasi, fonti ufficiali annunciarono la collisione tra un meteorite ed il pianeta. Come ogni volta quando venivano diffuse notizie del genere, la maggior parte della gente le affrontava nel modo più logico, ignorandole.

    L'annuncio concretizzava pensieri liberi nell'aria che, di tanto in tanto, sedimentano nei posti più impensati, come un vecchio film di fantascienza impolverato o un pallido Urania finito insieme alla collezione dei romanzi rosa o, ancora, un pensiero quella notte d'estate, quando rincorrevi una stella che sfrecciava nell'universo e fantasticavi sull'uso di una vincita al Superenalotto stratosferica, appunto, come il meteorite; finché anche quel pensiero, come una stella filante, insieme a una sottile ansia d'accompagnamento, è ricaduto nella pattumiera dei pensieri indicibili e lì è rimasto.

    Comunque sia, in uno o in mille altri modi ancora, non puoi non averci mai pensato.

    L'immaginario dei più non si scostava dall'idea di una palla di fuoco che, puntata da secoli sulla Terra a velocità inimmaginabili, un certo giorno preciso, colpendola, le avrebbe impresso un movimento circolare e il pianeta, roteando su se stesso, avrebbe espulso umani, o quel che di loro restava, a colonizzare altri universi o a vagare per l'eternità nel freddo siderale.

    Quando, dopo qualche settimana dall'annuncio, si decisero a riferire anche la data ufficiale dell'impatto, i quasi trecento orologi atomici dislocati in quel periodo in punti strategicamente significativi della crosta terrestre, sincronicamente, cominciarono a segnare il tempo in mesi, giorni, ore, minuti e secondi mancanti all'impatto.

    La gente, dopo le prime settimane di inevitabile confusione, cucinò la notizia con una sorta di euforica speranza, come se finalmente, davvero, qualcosa di nuovo stesse per accadere, qualcosa che avrebbe divelto legami apparentemente inscindibili, che avrebbe regolato conti in sospeso, che avrebbe vendicato offese subite, insomma, quel genere di situazioni che solo un meteorite avrebbe potuto sistemare. La maggior parte degli umani ormai sapeva che, se l'asteroide avesse colpito il pianeta, della Terra sarebbe rimasto veramente molto poco: un dente di cinghiale forse? Sì, un dente di cinghiale o un suo equivalente, sarebbe potuto essere il reperto di maggiori dimensioni che della vecchia Terra sarebbe rimasto.

    Mai come in quel periodo gli Inseguitori di Stelle fecero tanti affari d'oro; per contratto, dopo aver ceduto gratuitamente informazioni ai militari della Multipotenza Mondiale, allertati come lemuri contro ubiquitari nemici, vendevano a prezzi proibitivi i tracciati luminosi della movimentazione nella Via Lattea. Indovini, uomini di spettacolo, esperti della comunicazione e nuovi profeti li traducevano in proclami-evento contribuendo, ciascuno nel suo campo, a liberare ogni sorta di paure aumentando esponenzialmente il livello di tensione emotiva. Neanche a farlo apposta, in quegli anni di meteoriti ne erano cadute tantissime e, se è vero che l'abitudine, per alcuni, le rendeva meno pericolose, da altri il fatto era interpretato come un segnale premonitore; gli indovini, definendole «le damigelle della morte», facevano parte della seconda categoria. Infine, al di là dei soliti affaristi, la notizia che il meteorite avrebbe fermato il corso dell'esistenza all'umanità intera, cominciava ad alimentare pensieri spirituali inaspettati. Molti ancora si incaponivano a pensare che, se il meteorite fosse caduto parecchi chilometri lontano dalle loro case, non sarebbe stato un loro problema e fu difficile, da parte dei Venditori di Futuro, spiegare che le cose non sarebbero andate proprio a quel modo. Eppure, una certa parte non indifferente di umanità continuò, comunque, a vivere come sempre aveva fatto, tirando a campare e sperando che, all'ultimo momento, qualcosa avrebbe fatto ribaltare la situazione.

    *********

    Quel mattino, uno dei tanti che inesorabili scandivano l'avvicinarsi della data finale, il meteorite, come previsto, viaggiava a strepitosa velocità contro il suo pianeta bersaglio. Una pioggia caparbia picchiettava con zampe di passero sui vetri della finestra di Giorgio, che, nel dormiveglia, dopo aver fantasticato su uno strano animale fosforescente che negli ultimi mesi saturava i suoi sogni, si lasciò andare accarezzando col pensiero le fattezze armoniche come colline della sua compagna di banco. Il meteorite li avrebbe espulsi roteandoli incollati uno all'altra, un fuso umano oltre i confini magnetici della via Lattea; l'immagine di sé stesso che riposava sotto le coltri mentre la Terra su cui poggiava vagava oltre le colonne d'Ercole dell'Universo non gli dispiacque affatto. Si rigirò apprestandosi a riprendere il suo viaggio quando fu interrotto da un fastidioso grugnito.

    «Alzati, hai capito che è tardi? Muoviti, vai a letto prima la sera, hai capito? Muoviti, è tardi!» la voce racchiudeva l'impeto d'ansia di chi ha una casa che brucia, un vomito nell'aria che colpiva i padiglioni auricolari e arrivava al suo cervello confermandolo nella decisione, questa volta definitiva, che in giornata avrebbe risposto a quell'annuncio che da mesi sembrava aspettasse solo lui.

    Dopo l'ennesima notte insonne divisa tra visioni catastrofico purgative del mondo e malinconie selvagge di annegamenti nel corpo di Dora, darsi al mattino la spinta definitiva per espellersi dal letto e affrontare un'altra giornata, era un profondo atto di fede nella vita, salvo rarissime eccezioni. Sapeva che le grida di suo padre avrebbero raggiunto la soglia del dolore quando, entrando nella sua stanza, avrebbe sbattuto la porta contro lo spigolo della mensola facendo cadere quel pupazzo di peluche che aveva sempre odiato. Sua madre si ostinava ad alloggiarlo in quel punto, suo padre l'avrebbe pestato scivolando appena, e, dopo aver bestemmiato il suo dio, gli avrebbe detto, come faceva ogni mattina da quasi diciott'anni, di mettere in ordine i suoi giochi la sera, prima di andare a dormire. Evidentemente per lui il tempo si era mortalmente fermato, altro che orologi atomici. Giorgio aveva da poco compiuto diciotto anni, e, dopo diciotto anni di allenamento, sapeva che ogni azione di suo padre comportava delle conseguenze meccaniche, automatiche e talmente ripetitive da poter essere cronometrate, ovvie come poteva esserlo il fatto che volare prevedesse delle ali.

    Per tutti quegli anni sua madre non smise mai di rimettere il peluche in bilico sulla mensola vicino alla porta, suo padre non smise mai di entrare sbattendola e il peluche non smise mai di cadere; quando, anche quella mattina, entrò sbattendo la porta, il peluche cadde, lui ci appoggiò sopra il piede che slittò, le sue urla si incunearono nel suo timpano sinistro, e, come sempre, Giorgio emise un lagnoso «Sì, adesso».

    «Adesso un corno, sei ancora lì, non hai sentito tuo padre?» ecco la voce rimbombante di sua madre, dalla profondità di una maestosa gabbia toracica riempiva col suo volume l'intero spazio lasciato libero dalla porta spalancata, a modo suo rincalzava il marito, come se questi ne avesse bisogno.

    «Sì, ma basta» ecco la leggera variante del lamento precedente, non si piacque, il viaggio interplanetario era definitivamente interrotto.

    Si mise seduto sul letto e provò a spingere con le mani il cuscino contro le orecchie, suo padre alzò ulteriormente il tono e quando, molle come un fico maturo, finalmente si alzò dondolando, gli arrivò uno strattone che lo fece sbandare mandandolo a sbattere con la testa direttamente contro lo spigolo del muro: il peluche non fece una piega, sullo specchio di fronte un rivolo rosso scuro scorreva dal sopracciglio sinistro, non sentiva alcun dolore; quello, alla vista del sangue, si mise a urlare ancora di più. Addio astri silenti motori dell'universo infinito.

    Gli unici momenti in cui suo padre stava zitto erano quando lo guardava giocare a pallacanestro. Giorgio lo sbirciava con la coda dell'occhio, sorpreso e imbambolato, a bocca semiaperta, intrappolato in qualcosa, un quasi sorriso fisso, muto; aspettava che il figlio uscisse dallo spogliatoio e tornavano insieme a casa immersi in un silenzio tombale. A tavola, dopo i primi bocconi di pasta trangugiati con rabbia, cominciava la moviola della partita.

    «Perché quello là non ti passa mai la palla, devi farti valere porca miseria, poi dovevi andare sotto canestro, cos'hai, paura? Ma diglielo di piantarla di farti degli assist così, quegli assist per me se li può mettere nel culo e tu, tu devi allenarti tutti i giorni, tut-ti-gior-ni ai tiri liberi, hai capitooo?»

    E così di seguito per tutta la cena, mentre Giorgio, zitto, cercava di masticare ogni boccone di quella pastasciutta insipida che si fermava appiccicata alla radice della lingua. Giorgio sapeva tollerare il dolore, era una scorza pietrificata occultata da toni apparentemente comprensivi e accondiscendenti.

    «Sì ho capito, però adesso basta, mangiamo, non ne posso più».

    Chissà perché gli usciva sempre quel tono molliccio che detestava ed ogni volta, quella voce conciliante era il segnale convenuto: in una frazione di secondo, come da copione, il sado-didattico istruttore dei marines scattava e, stimolato da quell'invito alla conciliazione, ogni volta, a tre centimetri dalla faccia gli gridava: «Tu pezzo di merda non permetterti mai più di parlarmi in questo modo, tu mi devi rispetto perché io ti mantengo, io mi sto facendo un mazzo così per mandarti a scuola a fare il signorino, hai capito? Non sai fare un cazzo tutto il giorno, sei un imbranato, io ti sto insegnando come si sta al mondo, tu sei un fallito che non farà mai niente nella vita! Capito?» questo, per esempio, era uno di quei momenti in cui Giorgio invocava l'asteroide.

    L'ultima volta da quella bocca era partito uno schizzo di sputo al pesto che era atterrato sulla sua palpebra sinistra, lo aveva staccato con noncuranza. Gli veniva sempre da ridere nelle circostanze a catena che si verificavano quando suo padre si arrabbiava liberando odio; quando quello urlava la madre taceva e quando quello taceva lei urlava, sicché, scambiandosi le parti, ciascuno aveva tempo di riprendere forze tra una pausa e l'altra; se poi era sua madre ad essere arrabbiata con lui, suo padre la seguiva a ruota, sembrava non vedesse l'ora di farlo, ogni scusa era buona, al che sua madre gli diceva: «Basta adesso!» con un tono fermo, giusto, lievemente implorante, sufficiente per fermarlo accreditandogli potere.

    Quando il padre era a corto di parole, e cioè quasi sempre, cercava di picchiarlo e mentre il ragazzo scappava per la casa gridando «Basta, basta» quello, ancora più eccitato, non solo non si fermava, ma urlava ancora di più mentre i loro passi concitati rimbombavano in tutto il condominio.

    Questi, più o meno, erano i giochi di casa Paganella da quando erano nati i bambini; le urla ed il risuonare cupo dei loro passi sembravano non creare alcuno scompenso a quella massa di umanità compressa che si rintanava negli appartamenti confinanti. Generalmente incattivita, se dal piano di sopra cadevano gocce d'acqua nei giorni di sole per un'annaffiatura generosa, o se una foglia di ortensia, dopo aver vagato nell'aria, era rinvenuta accartocciata su se stessa, priva di sensi tra i ciclamini del piano di sotto, alle assemblee di condominio affermava con enfasi insospettata il suo diritto a non tollerare l'incuria altrui, ma mai si era azzardata ad avvisare la Sicurezza per questo disturbo della quiete. A onor del vero, se l'avesse fatto, una volta appurata la veridicità della segnalazione, i Paganella sarebbero stati deportati in un Campo di Addestramento per Genitori Aggressivi dal quale, di solito, non si faceva ritorno. Ma non era certo questo il motivo che li aveva trattenuti dal segnalarli. Per prima cosa temevano che tanta aggressività si sarebbe diretta contro di loro, per seconda cosa, era opinione comune che se quei due non si erano ancora ammazzati, probabilmente non l'avrebbero mai fatto. Semmai il vero problema erano i giornalisti di nera che, calpestando le rose bianche ubriache di fertilizzante del condominio «La Serenità», avrebbero implorato una lacrima o un particolare inedito. Loro a sputacchiare in un microfono che

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