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La pelle del serpente all'ombra del pilone
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La pelle del serpente all'ombra del pilone
Ebook294 pages4 hours

La pelle del serpente all'ombra del pilone

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About this ebook

La vicenda si svolge prevalentemente a Messina e provincia.

Totò Spataro, il protagonista, è un singolare tipo di investigatore.

La sua vita sembrerebbe svolgersi all’insegna di un individualismo esasperato; a suo parere, infatti, “ciascuno dovrebbe farsi i fatti propri”. Totò è inoltre un vero campionario di fobie e manifestazioni psicosomatiche di varia natura. A ciò si aggiunge che è misogino e tendenzialmente asociale. Spataro, tirato a forza dentro l’indagine, aiuterà a risolvere un delitto particolarmente cruento. L’intreccio un po’ noir è anche occasione per riflessioni sulla vita e sull’amore. Il titolo si riferisce in modo esplicito alle circostanze che spingeranno il protagonista, contro la sua volontà, ad abbandonare consolidate e rassicuranti abitudini.

Piero Alessi vive e lavora a Civitavecchia e questo è il suo primo romanzo
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 25, 2014
ISBN9788891164285
La pelle del serpente all'ombra del pilone

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    La pelle del serpente all'ombra del pilone - Piero Alessi

    twitter.com/youcanprintit

    Primo

    Ore 11,30 circa. Piazza Cairoli a Messina. Primi giorni del mese di Luglio. Un caldo afoso aiutato da un vento di scirocco che soffoca il respiro. Gli abiti incollati alla pelle da quel sudore inarrestabile che scivola per tutto il corpo anche a stare fermi. L’aria rovente ti avvolge agendo con vigore sul sistema nervoso. Lo scirocco è un vento che rende pazzi. Lo sanno bene i siciliani che ad esso attribuiscono molto del loro carattere alle volte turbolento e passionale.

    - Tu dovresti scrivere un romanzo. Scrivi qualcosa.

    - Non ho le qualità che sono richieste ad uno scrittore.

    - Cioè?

    - La pazienza, per esempio, di sedermi alla scrivania per ore a ordire le trame di una storia; la maestria nel comporre ordinatamente le parole e le frasi, ma soprattutto la presunzione e l’arroganza per ritenere che altri possano provare interesse, addirittura emozione a leggere le quattro fesserie che potrei mettere assieme

    Si era seduti all’aperto. Io, Salvatore (detto Totò) Spataro e Lilluzzo Impalà. Il tavolino piccolo e rotondo favoriva la conversazione. La granita di caffè e panna, con l’immancabile brioche rendeva l’atmosfera piacevole e stancamente siciliana. La brezza sciroccata portava con sé quei profumi marini che condivano sapientemente la nostra colazione e la nostra compagnia. Due vecchi amici che parlavano di sé. Nessun impegno. Nessuna formalità. Tutto molto sereno e piacevolmente lento.

    - La verità è che, tu Totò, non hai valìa di fare na beata minchia.

    - Non usare il dialetto. Il patto è che tra noi si parla italiano. Con l’italiano mi sento turista. Mi sento estraneo alla realtà. Come in vacanza. È una sensazione di straordinaria leggerezza. Di evanescenza. Di precarietà. Oggi sono con te in questa piazza. Domani chissà. In un altro luogo. Lontano, magari in un paese esotico. Chi può dirlo. Se parli dialetto mi sento immerso totalmente nel reale. Non c’è sogno. Nessuna fantasia. Il mondo reale mi si schianta addosso senza alcuna possibilità di fuga.

    - Vedi che pensieri profondi. Dovresti scriverli. Poi, diciamola tutta. Ma che fai durante il giorno? Te lo dico in italiano… un beato cazzo!

    - Dici così solo perché non ho un lavoro normale.

    - Guarda che tu non hai mai lavorato. Né normale, né speciale. Niente.

    - Non è colpa mia se vivo di rendita.

    - Vabbè… rendita. Hai la proprietà di un appartamento dal quale ricavi un modesto affitto.

    - Non tanto modesto. 1100 euro. Non si può dire modesto. Abito in una piccola casa sempre di mia proprietà. Non mi manca nulla. Qui la vita non è cara. Non mi manca veramente nulla.

    - Ti manca solo di vivere.

    - Ma che dici. Lavorare è vivere?

    - Anche. Non hai relazioni sociali.

    - Tu non sei parte del sociale?

    - Non sono sufficiente. Non hai amici. Non hai nemmeno una donna. E dai... Alla tua età. Come si fa a non avere una donna? Non capisco. Almeno fossi gay, come si dice. Nemmeno quello.

    - Mi preferiresti omosessuale?

    - Non esageriamo, ma certo saresti più umano. Tu niente. Mi fai incazzare! Niente amici. Niente donne. Ma che vita è?

    - È la mia. Ho trovato un faticoso equilibrio. Un amico sbagliato, una donna sbagliata e puffete il mio equilibrio va a carte quarantotto. Preferisco la tranquillità. Mare tempestoso o lago noioso e piatto? Ho scelto il secondo. Grazie.

    - Fai un po’ come ti pare. Certo, un lavoro o un impegno riempirebbero le tue giornate.

    - Chi ti ha detto che sono vuote?

    - Immagino.

    - Immagini male.

    Forse Lilluzzo aveva ragione. Forse la mia vita non era esemplare. Spesso ero assalito dalla noia e dalla malinconia. Guardare il mare per ore a volte può essere piacevole. Io lo facevo tutti i giorni e non nascondo che, in alcuni momenti, qualche soprassalto di solitudine l’avevo. Quando accadeva mi facevo aiutare dalla fantasia. I mondi non sono solo quelli che ci indica la geografia, l’economia o la politica: sono infiniti. Ve ne sono di tutte le forme, abitati dalle più strane creature. Soprattutto puoi essere chiunque. Ricco. Nobile. Intellettuale. Povero. Romantico. Innamorato. Puoi avere forma umana. Ma anche un po’ animale. Corpo di uomo e testa di leone. Puoi essere un tritone che abita in un pianeta tutto sommerso e essere innamorato di una splendida sirena. Puoi essere come un centauro e accoppiarti, in una selvaggia prateria, con una giumenta niente male. Oppure vivere in un pianeta del tutto aereo. Niente terra. Completa assenza di gravità. Tutto volteggia leggero. Anche il nostro tavolino e l’intero bar. Persino la nostra granita e la brioche danzano di fronte a noi. È molto divertente catturare con il cucchiaino particelle di ghiaccio e di panna confusa alle nuvole che ci avvolgono. La questione è che dopo un po’ si deve riprendere contatto con il mondo circostante. Si deve andare a fare spesa. Poi pensare a cosa preparare di cena. Quindi indirizzarsi verso casa. Sai che nessuno ti attende. Ciò nonostante è come se dovessi rispettare un qualche appuntamento. Le ore scandiscono le tue giornate con estrema precisione. Non rispettare gli orari sarebbe di pregiudizio grave al quel delicato equilibrio di cui si parlava con Lilluzzo. No. Mai. L’orario deve essere rispettato. Alle 8 circa sveglia. Colazione. Latte e biscotti. Barba e doccia. Il tutto fatto con estrema calma e lentezza. Nessuna fretta. Alle 9 una abbondante tazza di caffè molto dolce. Ci si veste con calma. Molta calma. Si è pronti per uscire. All’edicola si comprano i giornali. Repubblica e l’Unità. Sono di idee progressiste e di sinistra. Seduto, quando la giornata lo permette, su di una panchina in lungomare. Verso le 11, nella buona stagione, che qui è quasi sempre, si va verso Piazza Cairoli. Restano da leggere le pagine culturali. Quelle si debbono leggere accanto ad una buona granita di caffè con panna. Qualche volta incontro Lilluzzo e converso con lui, altrimenti assaporo in estasi i sapori che sono conservati in quel bicchiere di vetro grossolano. Il tempo perde di spessore. Questo è un momento magico della mia giornata. Molto lontano dal pensare che la mia non è vita. Non saprei in quegli attimi di puro e assoluto godimento concepire altro che dia senso alla vita. Siamo alla metà. A questo punto si va a pranzo. In genere alle 12,30 circa mangio spaghetti variamente conditi. Il più delle volte con quei pomodori rossi, maturi e profumati e alcune foglie di basilico per niente inferiori al più famoso basilico ligure. Frutta di stagione, un vinello bianco e allegro che acquisto nelle campagne, da contadini di fiducia. Spillato dalla botte per me. Finito di mangiare un buon caffè, sempre abbondantemente zuccherato. È l’ora di passare ad un altro piacere. Il riposo pomeridiano. Si tratta di trascorrere almeno un paio d’ore consolato dai buoni sapori e dai profumi che si ostinano ad albergare nella cucina e che mi trascinano verso lidi lontani e accoglienti. Al mio risveglio non posso rinunciare al mio terzo e ultimo caffè della giornata. Sono circa le tre del pomeriggio. D’estate il caldo è soffocante. In casa è tollerabile. In genere è piacevolmente fresco. Mi predispongo alle mie letture. Classici per lo più. I nuovi scrittori non mi appassionano. Mi piace il linguaggio un po’ antico, lo riconosco, che riempie con la sua rotondità la mente e costringe persino la lingua ad avvolgersi attorno alle vocali, alle consonanti e alle infinite subordinate. La costruzione delle frasi è studiata e ti costringe a concentrarti sugli avvenimenti. In poco tempo sei dentro le storie. Non passivo lettore, ma uno dei protagonisti. A volte sei tu il solo protagonista. Storie che non hanno fretta di volgere al termine. Descrizioni che si soffermano sui dettagli. Il particolare diviene essenziale ingrediente della tua immersione, in vicende che non avresti mai neppure immaginato. È l’ora della passeggiata. Attorno alle 18 l’aria è ancora calda, ma si può, senza affrettarsi, andare lungo Viale San Martino e guardare con un’aria apparentemente interessata, in realtà del tutto indifferente, lo struscio. Si arriva senza sforzo alle 19. E’ l’ora di rincasare. La sera braciolette alla messinese oppure involtini di pesce spada e una insalata gigante con abbondante cipolla e origano. Il solito vinello bianco e fresco. Sul balcone di casa una sedia mi attende. La sera, se lo scirocco si è ritirato, si può godere di una brezzolina fresca che aiuta, meglio del bicarbonato, la digestione, in particolare delle cipolle. Guardo la televisione. La osservo dal balcone. Spero in un buon film. Preferibilmente una vecchia pellicola in bianco e nero. La serata è particolarmente calda. In questo caso si esce. Una passeggiata verso il centro. Un cono gelato. Limone, fragola e pistacchio. Si può tornare. Lungo la strada del ritorno costruisco le mie fantastiche visioni. Quelle che dovranno tenermi compagnia durante la notte. Schiacciare la solitudine con la forza della immaginazione. Non conosco altro rimedio. L’altro potrebbe essere quello di avere compagnia. Ma che ne sarebbe del mio equilibrio? Troppo rischioso! Si va a dormire attorno le 23. La mattina seguente si ricomincia. Possibilmente con poche varianti. Salvo il sabato sera. Ci si vede con Lilluzzo, il dottor Marco e Pascaleddu che ha un banco al mercato. A casa del dottore si gioca rigorosamente a scopa, briscola e tresette. Bandito il gioco del momento: il burraco. Non se ne vuole nemmeno parlare. In primis è un gioco troppo frequentato dalle donne. Questo romperebbe il meccanismo di oliata complicità maschile. In secundis non ha lo stesso fascino dei nostri giochi strapaesani. Anche le carte non hanno lo stesso fascino. Vuoi mettere le nostre carte con i loro personaggi: il re, la regina, il cavaliere e il fante. Si è dentro una vera e autentica battaglia. Dentro una vicenda che si può raccontare. Con protagonisti i valori con i quali ci confrontiamo tutti i giorni: denari, bastoni, spade e coppe. Sono giochi che richiamano, sul nostro tavolo, la vita con i suoi dolori e i suoi piaceri. Vuoi mettere i quadri, i fiori, le picche, i cuori. Certo a sottilizzare vi sono significati nascosti. Ma, troppo nascosti. Nessuno di noi ha voglia di cercarli. Vuoi mettere il senso di gelo che provi quando hai per le mani le carte francesi e il calore che emanano le nostre carte tradizionali. Il confronto non regge nemmeno alla lontana. Il poker è diverso. È un gioco d’azzardo. Un gioco cattivo. Si deve averne un tornaconto e si deve fare del male all’avversario. Non sarebbero adatte le nostre carte. Troppo familiari. Troppo amichevoli. Ci vogliono carte dure, che sanno essere spietate, false, bugiarde. Il sabato è l’appuntamento serale che in tutte le stagioni mi distoglie dalla routine quotidiana. Faccio coppia con Pascaleddu. Siamo giocatori di eguale livello. Si vince e si perde. La posta è di 10 euro a giocatore. Si fanno tre partite a scopa all’11. Tre a briscola. Tre al tresette. Chi totalizza il maggior numero di partite vinte incassa il monte premi. Verso la metà del confronto cartico arriva Irene, la moglie del dottore. Una bella donna bruna, con grandi occhi neri e un sorriso molto simpatico che ci porta un vassoio d’argento con quattro tazzine di porcellana e un caffè molto aromatico. L’accompagnamento di dolci alle mandorle non manca mai. Irene non è solo bella ma discreta. Comprende quella sciocca e infantile esigenza maschile di intimità. Così, dopo aver salutato con educazione, lascia il vassoio su un tavolo e esce senza intrattenersi in conversazioni che, sapeva, sarebbero state formali, banali e prive di contenuto. Ero immerso in questo riassumere i contorni essenziali della mia vita, quando Lilluzzo mi richiamò al presente.

    - Totò, sei con me o ti sei perso dietro una delle tue fantasticherie?

    Lilluzzo sapeva, glielo avevo confidato, che mi piaceva arrampicarmi, come amavo dire, con delle funi sospese per aria sulle nubi dell’incantato.

    - Ero a riflettere su come si svolgevano le mie giornate.

    - Non c’è niente mi pare su cui riflettere. In realtà non c’è proprio niente. Le tue giornate sono talmente vuote.

    - Guarda là chi arriva. Nunziatina.

    Nunziatina era la ragazza o meglio, considerata l’età non più giovanissima, la donna di Lilluzzo. Nunziatina per me era il vero mistero dell’umanità. Non riuscivo a comprendere come potesse fare a lavorare come ingegnere informatico in una multinazionale piuttosto conosciuta, suonare il violino come una virtuosa, al punto che faceva ogni tanto delle esibizioni. La chiamavano nella banda comunale quando, in particolari circostanze, doveva esibirsi nel parco pubblico. Frequentare con regolarità una palestra e esercitarsi nella scherma, dove ovviamente si distingueva a livello regionale. Tutto qui? Certo che no! Era la vice presidente di una associazione che si occupava di adozioni a distanza, di volontariato; rivolta in particolare all’accoglienza dei molti disgraziati immigrati fuggiti dal loro paese di origine e approdati sulla nostra isola in cerca non di fortuna, come si usa dire, ma di pane e poco più. C’era dalla nostre parti un centro di accoglienza. In realtà una specie di lager. Al fine di verificare le condizioni di vita di quella povera gente e cercare, per quanto possibile, di migliorarle, era stata costituita l’associazione, senza scopo di lucro, dove operava come volontaria Nunziatina. Avevano anche aperto un centro di accoglienza privato, ma autorizzato. I migranti venivano trasportati verso i Centri di Accoglienza dalla Sicilia Occidentale, zona privilegiata di sbarco. Per tornare a Nunziatina, dicevo, era un mistero. Un vero mistero. Il tempo di cui disponeva era lo stesso che avevo io. A me il tempo non bastava per quelle occupazioni che riguardavano, in fondo, esclusivamente la cura della mia persona. I rari momenti tra un impegno domestico e un altro non potevo non dedicarli a riflettere sul mondo in cui vivevo. Non avrei potuto farne a meno. Dove trovava il tempo e la forza, Nunziatina per fare tutte le cose che faceva? Si badi, tutte cose che richiedevano anche un notevole impegno intellettuale, capacità non comuni e una grande disponibilità verso gli altri. Attività che svolgeva raccogliendo consensi e discreti successi. Brava Nunziatina! Il mondo ha bisogno di persone come te. Sei necessaria anche a me. Tu mi consoli. La tua presenza rende il mio eventuale operare del tutto superfluo. Se tu non ci fossi e non ci fossero, nel mondo, persone come te, potrei essere assalito da rimorsi e vivere in un costante stato depressivo rimuginando sulla mia sostanziale inutilità. In questo modo sono certo di essere utile. Se non altro a rendere vario e multiforme un universo umano che altrimenti sarebbe troppo appiattito sul fare. Un imbarazzante continuo agitarsi dell’umanità. Mi affatico solo a pensarci. Alle volte mi vedo simile all’Oblomov di Goncarov. La sua proverbiale indolenza. Ma no. Cosa c’entro io con Oblomov. Lui era russo io siciliano.

    Secondo

    Nunziatina si avvicinò al nostro tavolo facendo mostra di un sorriso aperto, solare. In piena sintonia con la stagione e la giornata. Trascinava con sé, e stava per riversare sul nostro tavolo, ottimismo e voglia di vivere.

    - Dunque ragazzi come va? Non vi sembra ora di darvi da fare. Cosa fate, seduti al bar, con una giornata come questa?

    Rapido, tra me e me, andavo analizzando le sue parole. Una ad una. Ragazzi? Ma quando mai. Avevamo superato, con pazienza e senza fretta, i quaranta. Come va? Ma le cose non possono essere come sono? Non possono essere ferme? Devono muoversi? Andare da qualche parte? Non vanno, semplicemente! Nel senso che non si muovono. Sono ferme. Lasciamole ferme per favore. Darci da fare? In che senso? Noi stavamo parlando, ragionando, riflettendo. Quale attività umana può essere considerata più elevata? I filosofi greci. Quelli sì, vivevano con pienezza la loro vita. La trascorrevano a passeggiare avanti e indietro, ad interrogarsi su quanto li circondava e sul senso della stessa esistenza. Si può onestamente dire che fossero inutili o che non si dessero da fare? Come se stare seduti al bar non costituisse una attività essenziale. Per me lo era. Era l’unica forma di socialità che mi concedevo. Non potevo rinunciare anche a quella! In quanto alla giornata. Difficile comprendere perché una giornata torrida e estiva dovesse favorire più di altre una qualsivoglia attività. Si sudava anche a non produrre alcun movimento. Figuriamoci a fare qualcosa. Ma, poi cosa avremmo dovuto fare. Per Nunziatina, qualunque cosa. Anche solo agitarsi per andare al mare era fare qualcosa. Al mare ovviamente poi guai a stare, come piaceva a me, comodamente sdraiato all’ombra di un capace e ospitale ombrellone, con accanto una orzata fresca a leggere un libro o, ancora meglio, a respirare semplicemente l’aria marina e viaggiare verso paradisi tropicali. Per lei si doveva nuotare o giocare a racchettoni o a qualsiasi gioco da spiaggia. Anche sul nuotare avevamo concezioni del tutto diverse. Per me si trattava di percorrere, con un certo fastidio, i pochi metri che mi separavano dal bagnasciuga e immergermi con studiata lentezza. Avevo timore che mi prendesse una congestione. Dopo, ovviamente, aver calcolato che fossero trascorse le tre ore canoniche dall’ultimo pasto. Non si sa mai. L’acqua del mare era fredda. Quando i miei piedi non toccavano più il fondo era ora di tornare verso la riva, con una velocità e un piacere maggiore a quello che avevo provato nel bagnarmi. Ecco, in realtà per me non si trattava di nuotare, ma di bagnarmi. Di rinfrescarmi. Mi pare corretto. È la ragione per cui d’estate vado al mare. Nunziatina no. Lei arrivava di corsa sulla spiaggia. Si spogliava in tutta fretta. Indossava una cuffia e degli occhialetti. Così, mascherata, si gettava in acqua tuffandosi dalla riva e con lente bracciate si allontanava. Sarebbe tornata dopo circa un’ora. La cosa che mi pareva buffa è che, una volta tornata, emersa dal mare, si apprestava verso di noi correndo. Gettava gli occhialetti e la cuffia sull’asciugamano, prendeva il pallone coinvolgendo Lilluzzo in un interminabile scambio di passaggi. Con me ormai nemmeno si azzardava a provarci. Nunziatina era così. Io no. Tutti questi pensieri mi sembrò di svelarglieli per tramite di un sorriso appena accennato e un poco traverso. Non so se comprese. La sua reazione mi parve adeguata.

    - Vabbè. Ho capito. Che fai Lilluzzo vieni con me? Devo passare in Associazione. Ieri sono arrivate alcune centinaia di migranti. Un sacco di bambini. C’è da fare un mucchio di cose. Poi volevo fare un salto al mare. Stasera c’è la pizza con i miei colleghi di lavoro. Sai che ci tengono che vieni anche tu. Dai tesò. Che fai?

    E giù uno di quei sorrisi che promettono, non è ben chiaro in quale spazio rubato alle varie attività, piaceri proibiti.

    Lilluzzo capitolò in un attimo. Non resisteva al richiamo di quello che chiamava il suo amore. Penso che non sapesse resistere al richiamo della femmina. Era la promessa di un piacere più forte a distoglierlo dalla gradevole indolenza e dalla mia compagnia.

    Lilluzzo si alzò, con un cenno di complicità rivolto a me. Come se dovessi giocoforza capire.

    - Senti io vado. Se hai voglia ci puoi raggiungere, magari al mare.

    - Tranquillo. Divertiti. Ci penso. Nel caso vi raggiungo. Ciao Nunzia.

    La verità è che non mi dispiaceva di rimanere solo. Stavo già assaporando le mie riflessioni. Dovevo solo scegliere l’argomento che mi avrebbe tenuto impegnato per le prossime ore.

    Terzo

    Ordinare un caffè caldo dopo la granita mi pare il modo migliore per tirare avanti la mattinata. Già il caffè. Quando l’ho chiesto al cameriere, non nascondo, ero un tantino disorientato. Si poteva chiedere un semplice e banale caffè. Io non andavo mai fuori dal consueto. Ma, in una frazione di secondo ho passato in rassegna i molti modi di preparare un caffè. Si poteva ordinare lungo, ristretto, corretto, macchiato caldo o freddo. Ma, ancora vi sono mille varianti, anche piuttosto sofisticate: americano, marocchino, irish coffee, caffè messicano, parigino, russo, viennese e giamaicano. E ancora altre che magari non conosco. Quanti svariati modi di preparare un semplice caffè. Ciascuno risponde alla propria cultura e persino alla storia di interi popoli. È aderente al clima quanto alla economia. Un clima più caldo o uno più freddo. Una economia ricca o una povera. Forse si potrebbe persino scrivere un parzialissimo punto di vista sulla storia del mondo a partire dal caffè. Almeno da quando se ne è diffuso l’uso. Pensavo a quante gioie ha procurato, Ma si possono ignorare le sofferenze legate al semplice consumo di questa bevanda? Il caffè è anche sporco di sangue. Certamente lo è di sofferenza e sudore. Per molti anni ha sostenuto, almeno in parte, una economia schiavista. Le tratte negriere si lasciavano dietro una scia di lacrime ma anche l’aroma profumato del caffè. Sembra che non vi sia gioia o piacere che, in qualche modo, non si accompagni anche al dolore. Andavo così riflettendo sul caffè, quando il mio sguardo fu catturato da alcune formiche che sembravano gradire, non meno di me, il sapore delle brioches. Piccole briciole di colore giallognolo sul piancito erano disputate da formiche che diligentemente e non senza sforzo stipavano sulle spalle carichi sino a tre volte il loro peso. Come se al supermercato trascinassi con me un circa 200-250 kg di merce. Pensavo al mondo delle formiche. Quanto ordine. Si tratta di insetti che hanno un alto grado di socialità e di organizzazione. Formiche operaie e soldati. Chi si occupa di procurare risorse e chi di difenderle da predatori. La natura sembra che abbia pensato alle necessarie compensazioni. Sono individualmente così fragili da svilupparsi in colonie. L’alto numero di membri di una colonia diviene così una buona garanzia per la sopravvivenza della specie che altrimenti sarebbe minacciata, se affidata solo ai singoli individui. Dovremmo imparare da loro alcune cose. Rispettare ciascuno per il ruolo che riveste nella comunità. A questo proposito mi veniva di pensare: ma che posto occupo nella società? Non procuro risorse, non svolgo certo un ruolo di difesa, non sono un soggetto alfa. Di me, diciamolo si potrebbe tranquillamente fare a meno. Andiamoci piano. Queste sono considerazioni affrettate. Io non potrei fare a meno di me stesso.

    Uno sguardo rapido al display del cellulare. Sono le 12,15. Sono soddisfatto di come è andata la prima parte della giornata. Ho incontrato Lilluzzo, ho conversato con lui, ho consumato una granita di caffè con panna e brioche, ho preso un ottimo caffè e ho riflettuto con attenzione sul caffè medesimo e le formiche.

    Non sono stato inattivo. Persino Nunzia sarebbe orgogliosa di me. A questo punto posso incamminarmi verso casa. Non abitavo lontano da Piazza Cairoli. Altrimenti, non vi è dubbio, avrei scelto un’altra piazza per le mie colazioni. Dovevo percorrere cento metri, al più. Un appartamento al secondo piano di un palazzo che potremmo definire d’epoca, realizzato subito dopo il grande terremoto del 1908, composto da una camera da letto, una stanza per cucina e soggiorno, un ampio bagno. Per un single niente male. Non potevo lamentarmi. Ah, dimenticavo il balcone. Non si tratta di cosa da poco. Quel balcone era il mio rifugio preferito per gran parte dell’anno. Con la spalliera della sedia poggiata al muro, lo sguardo rivolto allo spicchio di mare che, tra un palazzo e un altro, si lasciava intravedere; un libro tra le mani e potevo fermare, a mio arbitrio, piacevolmente lo scorrere del

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