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Quando gli dei torneranno
Quando gli dei torneranno
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Quando gli dei torneranno

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About this ebook

Quando gli dei torneranno si ispira agli scritti di Sitchin e alle sue teorie sull’origine della civiltà sumera e la storia si dipana su un doppio piano temporale: trentamila anni fa ed oggi.
Trentamila anni fa, il mitico popolo degli Anunnaki, abitante del pianeta Nibiru, arriva sulla Terra alla ricerca di oro, indispensabile per stabilizzare l’atmosfera del loro pianeta. Uno di loro, Enki, rivela in un diario le motivazioni che li hanno spinti a stimolare l’evoluzione di scimmie terrestri, e ad agire quasi come “Dei”, creando l’Homo Erectus prima e l’Homo Sapiens poi.
A causa dell’indole violenta dell’uomo, gli Anunnaki decidono però di eliminare la razza che hanno creato, inondando il bacino naturale in cui vive, corrispondente all’odierno Mar Nero.
Enki, convinto che nell’uomo ci sia comunque del buono, salva l’umanità dall’inondazione spiegando a Noè che cosa deve fare.
Il suo obiettivo è aiutare l’umanità perché riesca a vivere pacificamente e in armonia con il pianeta fino al prossimo passaggio di Nibiru all’interno del sistema solare.
Quando gli Dei torneranno, secondo Enki, troveranno una società umana giusta e armonica.
Nel presente, un finanziere italiano appassionato di archeologia, Luca Terenzi, è entrato in possesso di un antico manoscritto, proprio il diario di Enki.
Terenzi è convinto che, quando gli Anunnaki torneranno nei pressi della Terra, tra circa duecento anni, completeranno la distruzione dell’uomo. Decide così di dare una “speranza” all’umanità costringendola a un nuovo inizio e, con la collaborazione di una setta religiosa, i “Servi di Cristo”, progetta la distruzione della quasi totalità degli esseri umani.
A contrastarlo, soltanto un giovane giornalista freelance, con l’aiuto dell’amica e compagna Elisabetta. Poche forze, di fronte alla determinazione (e ai fiumi di denaro) di cui dispone la setta.
Ma l’umanità merita davvero di essere salvata?
Che cosa accadrà se gli “Dei” Anunnaki torneranno davvero?
LanguageItaliano
Release dateMar 21, 2014
ISBN9788866901860
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    Quando gli dei torneranno - Massimo Licari

    figliolo

    Capitolo 1

    Il sole trasforma la sabbia in oro e mi scalda la pelle. Disteso a pancia in giù su un lettino da spiaggia, ho l’unica preoccupazione di godere del massaggio che mi sta facendo una splendida vichinga in topless.

    Sul tavolino accanto a me, un bicchiere con ghiaccio e un liquido rosso che sembra molto invitante riposa all’ombra di un ombrellino per cocktail.

    La ragazza bionda si dedica con impegno alla mia schiena, e sembra incurante di qualsiasi cosa non sia io. Le sue mani sono fantastiche, ancora di più le sue tette che ogni tanto si appoggiano sulla schiena mentre massaggia. Non so che posto sia questo e come ci sia arrivato, ma non me ne curo più di tanto. Altre persone dividono con me questo angolo di paradiso. A debita distanza alcuni prendono il sole, altri chiacchierano tra loro. Non potrei desiderare di meglio in questo momento.

    Il trillo della suoneria di un telefono si intrufola improvviso tra il suono della risacca, il caldo del sole e i riflessi d’oro della spiaggia. Sembra lontano anche se lo sento distintamente. Decido che non devo essere io a preoccuparmene. Chiudo gli occhi e cerco di eliminare quel trillo insistente dalla mente.

    La ragazza prosegue col massaggio e lo struscio, aumentando la mia eccitazione e provocando un risultato davvero apprezzabile. Mi sistemo meglio sul lettino, in modo da non comprimere eccessivamente l’oggetto del piacere e per godere ancora di più delle sensazioni che la vichinga mi sta regalando.

    Il trillo continua. Mi guardo intorno un po’ infastidito. Possibile che nessuno si decida a rispondere a quel cellulare?

    Il suono però è familiare e soprattutto non sembra arrivare da così lontano.

    Apro gli occhi e vedo appoggiato accanto al mio lettino un piccolo marsupio nero. Il fastidioso suono arriva da lì dentro. Non ricordo di avere un marsupio. Magari l’ha dimenticato qualcuno.

    La tentazione di fregarmene è forte, ma quel suono non riesce a farmi rilassare.

    Allungo la mano e afferro il marsupio, cercando di spostarmi il meno possibile per non interrompere il massaggio celestiale.

    Apro la zip e tiro fuori l’oggetto fastidioso. Lo guardo un po’ incredulo: è il mio cellulare! È diventato caldo per lo sforzo di farsi sentire.

    Divento rosso per l’imbarazzo e mi guardo intorno. Per fortuna nessuno sembra far caso a me e al mio fastidioso cellulare.

    Premo il tasto verde e lo accosto all’orecchio. Chiunque sia, non avrà più di dieci secondi del mio tempo. Ho cose ben più importanti da fare in questo momento.

    Dico un pronto piuttosto scocciato e, invece di ricevere una risposta, un trillo prepotente mi esplode nell’orecchio.

    Avevo schiacciato il tasto verde! Forse ho sbagliato. Schiaccio ancora guardando il cellulare, ma quello continua a suonare.

    Non funziona più, accidenti! Lo premo ancora, sempre più rabbiosamente, ma il trillo non cessa. Forse dovrei gettarlo in acqua.

    Lo penso e decido di farlo. Sono costretto a chiedere alla fata massaggiante di fermarsi un attimo per potermi alzare e fare il mio lancio. Dalla sdraio all’acqua saranno almeno trenta metri, ma non penso di far cilecca. Le chiedo una pausa alzando una mano, e mi scosto per alzarmi, cercando di non mettere troppo in mostra il ben di Dio che in questo momento è presente e sveglio sotto il mio costume. Lui sembra felice di uscire dalla compressione che ha sofferto fino ad ora, io un po’ meno: mi vergogno. Che faccio?

    Il cellulare continua a suonare.

    Mi giro leggermente su un lato, cercando di nascondere il mio tesoro, e stendo il braccio per lanciare via quel brutto affare rumoroso.

    Invece di prendere il volo verso l’acqua, quello rimane attaccato al palmo della mano senza smettere di squillare.

    Mi sento il protagonista di una comica: tento di staccarlo ma non ci riesco. Comincio a sbatacchiare la mano come un ossesso. Nulla. Temo che presto mi coglierà una crisi isterica.

    Comincio a sbatterlo sull’intelaiatura di legno del lettino, furente per quell’aggeggio che non ne vuol sapere di staccarsi dalla mano.

    Lui suona, suona.

    Il paesaggio da sogno nel quale sono stato immerso fino ad ora comincia a sbiadire. La sdraio, il sole caldo, la sabbia, la vichinga!

    Qualche istante di confusione e le ultime immagini del mio sogno svaniscono lasciando posto alla mia stanza in penombra e al mio cellulare che sul comodino continua a squillare.

    Guardo l’ora: le due del mattino.

    Era un sogno, solo un sogno!

    Fanculo! urlo in direzione del cellulare che squilla.

    Mi pento di non averlo spento o di non aver attivato la segreteria telefonica: almeno dopo qualche squillo si sarebbe zittito.

    Chi si permette di disturbare a quest’ora e con così tanta insistenza?

    Guardo il display del telefonino, ma c’è solo un numero che non riconosco.

    Pronto! bofonchio con la bocca impastata dal sonno.

    Signor Tancredi? chiede la voce di uomo.

    Sì, chi parla? chiedo seccamente.

    È il Tancredi giornalista? insiste quello.

    Si, sono io. Lei chi è?

    Preferirei sorvolare su questo punto adesso. Ho bisogno di incontrarla. C’è una storia che voglio raccontarle.

    Sono le due del mattino e io stavo dormendo. Stavo facendo un sogno di quelli che ti capitano una o due volte all’anno. Cosa c’è di così importante che non può aspettare domattina? E poi, chi le ha dato il mio numero di telefono?

    Mi spiace averla disturbata a quest’ora. Il suo numero me lo ha dato Padre Romeo. Mi ha detto che lei avrebbe potuto aiutarmi.

    Padre Romeo?

    Sì, esatto. Ho bisogno di vederla prima possibile.

    Padre Romeo. Non è uno che mi farebbe chiamare senza un motivo più che valido.

    Sospiro.

    Di cosa si tratta? chiedo al tipo dall’altra parte della linea.

    Non ne voglio parlare al telefono. Preferisco incontrarla di persona.

    Facciamo domani mattina allora, così posso cercare di riprendere il sogno che stavo facendo nel punto in cui l’ho lasciato.

    Preferirei vederci subito.

    Adesso? chiedo scandalizzato.

    Sì. Ho urgenza di vederla perché non so se domani sarò ancora in città. Non so nemmeno se sarò in Italia o se sarò vivo. Ho bisogno di vederla adesso.

    Adesso…

    Padre Romeo mi ha detto che lei è una persona disponibile.

    Dovrò ricordare a Padre Romeo che la parola disponibilità funziona dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

    La prego, non so a chi altri potrei rivolgermi.

    Potrei sbattere giù il telefono mandandolo a quel paese, ma ho una sensazione indefinita che mi spinge a non farlo. Sono arrabbiato per essere stato svegliato a quest’ora della notte, ma c’è anche della curiosità.

    E va bene! Ho bisogno di mezz’ora per prepararmi. Dove ci vediamo?

    La richiamerò tra mezz’ora e le spiegherò come raggiungermi.

    D’accordo. Ci sentiamo dopo.

    Chi mi ha chiamato chiude immediatamente la comunicazione.

    Rimango con il cellulare in mano a fissare il vuoto, tentando di afferrare i pochi residui del sogno che stavo facendo. Avrei voluto che la bionda massaggiatrice fosse rimasta, perché avevo in mente qualche tocco da artista da sperimentare, ma così va la vita.

    Meglio farmi una doccia. In mezz’ora posso farcela. Anni e anni di risvegli all’ultimo minuto mi hanno reso piuttosto veloce.

    Faccio il giornalista da vent’anni e negli ultimi quindici mi sono occupato di reportage. La vita di redazione non fa per me. Preferisco prendere lo zaino e partire per qualche improbabile destinazione, vivendo situazioni al limite, che amo raccontare con dovizia di particolari ai miei lettori.

    Il tizio mi ha detto di essere stato indirizzato a me da Romeo. Padre Romeo. È un prete di una zona a sud di Milano, piena di casermoni popolari e di tanta gente che sbarca il lunario come meglio può.

    L’ho conosciuto due anni fa, quando stavo facendo un reportage sul disagio nelle periferie delle grandi città. Emarginazione, criminalità, droga, prostituzione: ingredienti micidiali presenti anche a Milano in abbondanza, come in tutte le grandi metropoli che si rispettino.

    Sono arrivato a lui grazie a tanti giovani che mi avevano fatto il suo nome. Romeo, come lo chiamano tutti nella sua zona, potrà raccontarti le storie dei ragazzi che ha salvato mi dicevano. E così andai a trovare Romeo.

    Mi parlò della tratta delle bianche e dello sfruttamento di ragazze che spesso non hanno nemmeno diciassette anni. Mi raccontò anche di come sia difficile correggere la visione distorta di tanti ragazzi, i cui eroi da imitare sono criminali che vanno in giro con macchine di lusso.

    Parlai con alcune ragazze, che mi raccontarono la loro storia terribile. Ed ebbi alcuni incontri non proprio piacevoli con piccoli malavitosi locali.

    Padre Romeo, o semplicemente Romeo per me, è prima di tutto un brav’uomo, appassionato e leale. In breve siamo diventati amici, e spesso passiamo del tempo assieme solo per il gusto della nostra reciproca compagnia.

    E adesso questa telefonata.

    Se Romeo ha dato a quel tizio il mio numero, significa che qualcosa potrebbe interessare il mio lavoro.

    Devo solo aspettare che richiami per dirmi dove ci vedremo.

    Con tutti questi pensieri in testa, nel frattempo ho fatto una doccia, mi sono vestito e sono pronto per uscire.

    Guardo l’ora: quasi le tre del mattino. Convinto di farmi un piacere, evidentemente, mi ha concesso del tempo in più.

    Non finisco il pensiero che arriva una telefonata. Guardo il display e il numero che appare è sicuramente diverso da quello di prima.

    Ho imparato a prestare attenzione ai particolari, ed è stato molto utile in più di una occasione. Il numero di prima cominciava per 338 mentre questo comincia per 340. Chi potrebbe essere? Non mi resta che rispondere.

    Pronto? chiedo.

    Tra venti minuti in Piazzale Baracca, a Milano. C’è un chiosco che fa panini ed è aperto tutta la notte. Ordinerò un panino wurstel e crauti con una Coca Cola dice velocemente la voce dall’altra parte. Si tratta sicuramente della stessa persona di prima, l’ho riconosciuto. Ha usato un altro telefono. Se prende tutte queste precauzioni, la questione è davvero seria.

    Tra venti minuti sarò lì rispondo.

    La comunicazione viene chiusa senza aggiungere altro.

    Prendo le chiavi della macchina ed esco dalla porta di casa.

    Da qui ci vorranno quindici minuti. A quest’ora forse meno. Posso prendermela con comodo.

    Raggiungo l’automobile e mi avvio senza correre.

    Alle tre del mattino ci sono poche macchine in giro per Milano e spesso viaggiano come se fossero gli unici esseri viventi a girare in auto. Ho imparato che di notte è meglio dare una controllata a destra e a sinistra prima di attraversare un incrocio, anche se il semaforo è verde.

    A quest’ora la città è silenziosa, quasi piacevole.

    Arrivo in piazzale Baracca con qualche minuto di anticipo. Non so che faccia abbia il mio interlocutore, ma non credo sia un problema: lui sicuramente conosce la mia. Parcheggio, scendo e mi avvio verso il chiosco di panini.

    Ci saranno cinque o sei persone che stazionano lì vicino. Qualcuno mangia, altri bevono una birra.

    Il chiosco è rivolto verso la strada e alle spalle ha il giardino della piazza, con qualche panchina e alcuni alberi un po’ spelacchiati.

    Passeggio un po’ con noncuranza, guardandomi intorno. Non vedo nessuno venirmi incontro. O il tizio è in ritardo, oppure è già qui da qualche parte che mi osserva.

    A questo punto credo che mangiare qualcosa non sia una cattiva idea. Mi avvicino al chiosco e aspetto che si volti verso di me il tizio al bancone.

    Un hamburger e una Ceres gli chiedo.

    Mentre aspetto il mio panino, si avvicina un ragazzo sui trentacinque anni, che forse era seduto su una panchina del giardino, perché non ho sentito nessun’auto fermarsi. Potrebbe essere lui quello che sono venuto a incontrare, anche se mi sembra un po’ troppo dimesso. Una parte mi dice che non è lui, ma decido comunque di osservarlo attentamente.

    Indossa dei jeans scoloriti, un maglione blu a coste piccole e un giubbotto di cotone, sempre blu. Il viso è piuttosto abbronzato. A fine maggio una abbronzatura così ce l’hai se lavori all’aperto o se ti puoi permettere un paio di settimane ai tropici. Da come si muove e dal suo aspetto, penso che non sia uno da vacanza al mare.

    I capelli sono tagliati a spazzola, castani, come gli occhi che, a dispetto di quell’aria quasi noncurante, osservano attentamente ogni cosa intorno a lui. Faccio caso alle spalle leggermente incurvate e al suo modo di muoversi, silenzioso, sfuggente. Tutto in lui sembra inviare un messaggio preciso: non sono io quello che cerchi, non perdere tempo con me.

    Se non mi fossi imposto di osservarlo attentamente, avrei già spostato altrove la mia attenzione. La mia curiosità innata mi permette di notare un particolare impercettibile: per un istante, solo un batter di ciglia, ho avuto la netta sensazione che mi fissasse con interesse. È stato un movimento del sopracciglio, o forse un leggero bagliore negli occhi. Non saprei dire, ma c’è stato.

    Si avvicina al bancone e fa la sua ordinazione:

    Vorrei un panino wurstel e crauti e una Coca Cola.

    È lui. È bravo, accidenti. Si mimetizza in modo sorprendente. Non ha bisogno di nascondersi: riesce a passare inosservato stando in mezzo alla gente. Se non fossi stato attento, mi avrebbe sorpreso con la sua ordinazione. Mi sarei chiesto se si trattava di una coincidenza.

    Lo guardo e gli sorrido. Ricambia con un occhiolino impercettibile, che mi conferma quanto sia bravo. Solitamente si tratta di un modo di fare tipico della persona sicura di sé. Lui appare in tutto e per tutto uno di serie B. Uno di quelli che sembrano avere una mozzarella al posto della mano quando gliela stringi, che non hanno una propria idea su nulla e si lasciano trasportare dalla corrente della vita, incapaci di governare la loro imbarcazione.

    Ecco l’hamburger mi dice il tipo del chiosco. Con la Ceres fanno cinque euro.

    Pago, raccolgo il panino dal piatto di plastica dove l’ha appoggiato, afferro la birra e mi sposto verso una panchina del giardino, qualche metro dietro il chiosco.

    Mi siedo e comincio a mangiare lentamente, mentre tento di vedere cosa fa il mio uomo.

    Dopo qualche minuto anche il suo panino viene appoggiato sul piatto di plastica del bancone. Paga, prende panino e Coca e si avvicina a me.

    Con noncuranza si siede nella stessa mia panchina guardando da un’altra parte.

    Ciao Paolo mi dice mentre si guarda intorno. Il tono della voce è caldo e il ritmo lento, denotando ancora una volta grande sicurezza di sé. Il mio nome è Giuseppe. Scusami se ti do del tu, ma è molto più semplice.

    Ha parlato sottovoce, riuscendo a muovere impercettibilmente le labbra. Se qualcuno, distante anche solo dieci metri, lo avesse osservato senza dedicargli particolare attenzione, non si sarebbe accorto che è stato lui a parlare.

    E per come si è seduto, sembra non abbia nulla a che fare con me.

    Bene, Giuseppe, eccomi qua come mi hai chiesto. Spero che tu mi abbia fatto alzare a quest’ora per un buon motivo. Diamoci pure del tu.

    Che ne sai della Chiesa del Ritorno? mi chiede a bruciapelo.

    Il nome non mi è nuovo. Tento di scavare nei ricordi. Sono sicuro di aver letto qualcosa. Poi, ecco il ricordo che affiora.

    La Chiesa del Ritorno. Non sono quel gruppo di svitati che ha comprato un appezzamento di terreno di più di quattrocento ettari dalle parti di Lodi? chiedo.

    Sì. Per l’esattezza è a nord di Lodi, vicino a Spino D’Adda conferma lui. Gli svitati, come dici tu, sono i Servi di Cristo.

    Devo aver letto qualcosa non molto tempo fa proseguo. Hanno creato una sorta di comune con lo scopo di servire il loro Dio. Adesso mi ricordo.

    Circa venticinque anni fa comincia lui hanno preso un grande appezzamento di terreno in località Fracchia, tra Boffalora D’Adda e Spino D’Adda. Lì c’era una grande cascina e una casa a due piani, abitata dai proprietari, i Cattaneo. Da quanto si racconta, non volevano vendere. Quella terra era della loro famiglia da cinque generazioni. Finché è arrivato Sebastiano Lanzi, il fondatore della congregazione. Lui ha raccontato di aver avuto una visione nella quale Dio gli aveva indicato che in quel posto sarebbe sorta la comunità. Improvvisamente, il vecchio Cattaneo, da un giorno all’altro, ha venduto il terreno a Lanzi, il quale ha fondato Lagash, la città di Dio.

    È un tipo convincente questo Lanzi dico con un po’ di sarcasmo.

    Sembra di sì. Si dice che con il ricavato della vendita del terreno il vecchio Cattaneo abbia assicurato una rendita ai figli, nipoti e pronipoti.

    Ma tu che ne sai di questa storia? chiedo.

    Io sono stato un membro numerario della Chiesa fino alla settimana scorsa.

    E poi?

    Sono uscito e ora mi stanno cercando per uccidermi mi dice placidamente.

    Rabbrividisco e non posso fare a meno di guardarmi intorno, come se dopo questa rivelazione si materializzassero i sicari dei Servi di Cristo.

    Superato il primo momento di stupore per la rivelazione, prende il sopravvento il giornalista che c’è in me, e si manifestano come d’incanto decine di domande, alle quali vorrei immediatamente una risposta.

    Cerco di metterle in fila per evitare di sommergerlo.

    Che cos’è un membro numerario? chiedo. Penso sia importante capire subito con chi ho a che fare. È un pivello o un pezzo grosso? Se lo cercano per ucciderlo, come ha affermato, non dovrebbe essere l’ultimo arrivato.

    Il significato è molto simile a quello usato in altre organizzazioni mi risponde. Si tratta di persone che hanno dedicato la loro vita alla causa. Io sono un Servo di Cristo da dodici anni.

    Non sei l’ultimo arrivato! esclamo.

    Direi di no mi risponde. Immagino tu voglia anche sapere che posto ho occupato nella chiesa.

    Il tipo è decisamente sveglio, confermando ancora una volta il vecchio adagio che il vestito non fa il monaco.

    Ammetto di essere uno cui piace sapere fin dall’inizio con chi ha a che fare gli rispondo.

    Il progresso spirituale nella Chiesa viene misurato in livelli. Ci sono dieci livelli, che corrispondono ai dieci livelli dello Ziggurat, il tempio. Io sono, o meglio, ero, al nono livello.

    Un pezzo da novanta penso.

    Ed ecco che magicamente la mia mente compie un altro di quei miracoli che mi hanno permesso in tutti questi anni di fare questo mestiere. Mi torna in mente un articolo che un collega ha pubblicato qualche anno fa su un giornale della provincia di Lodi.

    Due persone che facevano parte della comunità dei Servi di Cristo erano state ricoverate all’ospedale di Melegnano. Una era morta lo stesso giorno del ricovero, l’altra due giorni dopo. C’erano state delle ispezioni fatte dall’Azienda Sanitaria e dai NAS e l’accusa che era stata mossa era di abuso della professione medica. In sostanza, i NAS sostenevano che all’interno della comunità operavano dei guaritori senza alcuna competenza medica. C’erano state delle denunce e delle polemiche. Poi, dopo un breve periodo di decantazione, tutto era finito nel dimenticatoio.

    Adesso mi ricordo gli dico. C’era stata quella storia dei due membri della vostra comunità morti a causa di alcune cure che gli erano state somministrate.

    Quella è una storia vecchia mi dice lui. Io c’ero e ti posso assicurare che le cose non sono andate come è stato raccontato dai giornalisti. Ma non ti ho tirato giù dal letto per questo. Quella storia è ridicola se paragonata a quella che voglio raccontarti. Ti ho chiesto di venire qui perché sta succedendo qualcosa di grosso che potrebbe mettere seriamente in pericolo la vita di tante, tantissime persone. Ho bisogno di parlartene con calma e non qui.

    Beh, direi che se volevi impressionarmi, ci sei riuscito. A questo punto dimmi dove possiamo andare a parlare e ti seguo.

    Andiamo da Padre Romeo. In questo momento è l’unica persona della quale mi posso fidare. Lì c’è anche Isabella, mia moglie. Parleremo con calma.

    E perché non ci siamo andati subito? Se avevi voglia di un panino, Romeo ti avrebbe accontentato senza problemi.

    Padre Romeo ha garantito per te. Ha detto che posso fidarmi. Però avevo bisogno di vederti con i miei occhi prima di portarti da mia moglie. Non volevo rischiare. Da quando siamo usciti da Lagash, la nostra vita è in pericolo e non voglio che a mia moglie accada nulla di male. Sto prendendo molte precauzioni per evitare problemi. Sono arrivato qui un’ora fa per controllare che non ci fosse niente di strano e per poterti osservare senza essere visto.

    Un altro brivido parte dal collo e raggiunge velocemente l’osso sacro. La faccenda sembra davvero seria. Lui e sua moglie rischiano la vita. Cosa rischio io andando con lui?

    Poi penso che rischiare fa parte del mio mestiere.

    Quando ho deciso di diventare giornalista, non aspiravo ad avere una scrivania tutta per me, con un bel computer da tavolo. Pensavo invece ai servizi nei luoghi di guerra, nati tra pallottole, rivolte popolari, gente che manifesta, e dettati in redazione con mezzi di fortuna. Ho scelto la cronaca, non il gossip.

    Ci andiamo subito? gli chiedo.

    Appena finiamo di mangiare mi risponde, addentando un altro pezzo di pane, wurstel e crauti.

    Cinque minuti dopo abbiamo finito. Possiamo andare.

    Io vado con la mia auto e tu con la tua mi dice. Ci vediamo direttamente da Padre Romeo. Farò un giro più lungo per controllare che non mi seguano. Aspetta che parta io, poi parti anche tu.

    Detto questo si avvia verso il lato opposto della piazza.

    Resisto alla tentazione di guardare nella sua direzione e resto indifferente. Se qualcuno ci spiava, penserà che abbiamo scambiato quattro chiacchiere tra nottambuli.

    La piazza è silenziosa a quest’ora. Lontana anni luce dalla confusione del giorno.

    Tra un po’ sentirò la sua auto accendere il motore. Aspetterò che vada via, poi mi avvierò.

    Un lampo improvviso accende la piazza alle mie spalle. Il palazzo di fronte a me si illumina a giorno per un istante. Senza nemmeno avere il tempo di rendermi conto di cosa stia succedendo, sento un muro d’aria colpirmi la schiena con forza, e insieme un boato tremendo che fa vibrare il suolo come un violento terremoto.

    Mi manca il respiro mentre prendo consapevolezza di essere sdraiato a terra. Non capisco cosa sia successo. Le orecchie fischiano e sento diverse sirene di antifurto che stanno suonando.

    Un’esplosione. Dev’essere stata un’esplosione. Ho avuto un’esperienza simile a Beirut nel 2008, quando è esplosa un’auto nel quartiere cristiano.

    Mi alzo con le orecchie che ronzano e guardo nella direzione in cui avevo visto Giuseppe andar via. C’è un groviglio contorto che sta bruciando. Se quella era una macchina, c’è rimasto ben poco. Poi, stordito dal botto e dallo spostamento d’aria, mi rendo conto che potrebbe essere la sua macchina.

    Porca miseria! Evidentemente le minacce di cui aveva parlato erano reali. Altroché.

    Ci sono anche altre macchine che bruciano, accanto a quel terribile groviglio di lamiere. Sono stato in zona di guerra, ma non me la sento di ripetere l’esperienza di un incontro ravvicinato con una morte per esplosione. Non voglio andare a vedere cos’è rimasto di lui. Mi guardo intorno. Le persone che erano al chiosco hanno reazioni diverse: chi scappa, chi rimane paralizzato a guardare lo spettacolo e chi va verso le fiamme per vedere se può essere d’aiuto.

    Si accendono tante luci nei palazzi che circondano la piazza e si sente già il suono di una sirena in lontananza.

    Non vedo alcun movimento vicino il groviglio di lamiere oltre le fiamme e il fumo nero che sale verso il cielo indaco. Mi stupirei se non fosse così.

    Credo sia meglio andar via, prima di essere collegato con il tipo saltato in aria con la sua auto.

    Salgo in macchina e mi avvio per andare da Romeo.

    La cosa peggiore, temo, sarà dire alla moglie di Giuseppe quello che è successo.

    Le orecchie ronzano ancora e il cervello sembra galleggiare in una bolla dentro il cranio. Per fortuna riesco a concentrarmi quel tanto che basta per guidare. Mi avvio in questo stato confusionale senza lasciarmi andare alle emozioni.

    Capitolo 2

    Romeo abita in un appartamento a Rozzano, vicino Milano.

    Comincio a dirigermi verso casa sua come un automa, preciso nei movimenti ma privo di pensieri ed emozioni. Sono frastornato. Le orecchie cominciano solo ora a smettere di fischiare mentre la testa sembra ancora ondeggiare sul corpo come un palloncino pieno di elio nelle mani di un bimbo al parco.

    So che tra poco arriverà la botta, ma cerco di mettere ancora un po’ di distanza tra me e la piazza dell’attentato.

    Per evitare problemi, lungo corso Vercelli accosto a destra e spengo il motore.

    Dopo qualche istante di calma apparente, le gambe cominciano a vibrare. Mi succede quando sale la febbre, in quella terra di mezzo che sta tra trentasette e trentotto gradi. Non tanta da mettersi a letto e nemmeno poca da ignorare.

    Le gambe tremano ma non è febbre: è la paura che comincia a prendere il sopravvento.

    La testa comincia a girare e il fiato diventa corto.

    Le gambe cominciano a formicolare per la pelle d’oca, e questa sensazione comincia a estendersi a tutto il corpo. Vorrei potermi appallottolare come un gatto su me stesso, ma tutto ciò che riesco a fare è buttarmi sul sedile accanto al mio.

    Dalla gola sale un gorgoglio che prende corpo velocemente e si trasforma in un urlo rauco. La testa sembra piena di spilli conficcati nella cute.

    Mi aggrappo al volante per qualche minuto, disperatamente, cercando di riprendere il controllo. Qualche lacrima solca le guance, che bruciano come se fossi davanti a un falò.

    Un brivido sale velocemente e mi avviluppa, come un involucro fatto di paura, che vorrei sfilare e lasciare a terra.

    Ad occhi chiusi, respiro profondamente per tre o quattro volte, cercando di riempire ogni cellula del corpo di energia positiva.

    Sono salvo per miracolo. Se Giuseppe non avesse avuto l’idea di andar via prima di me, forse in questo momento starei guardando la realtà da una prospettiva diversa, molto più eterea.

    Mi spiace per lui, ma per fortuna a me è andata bene.

    La paura crea una voragine al centro del petto, dove c’è la bocca dello stomaco.

    Non mi coglie subito, e questo, devo ammettere, è un gran pregio. Mi ha permesso di salvare la pelle più di una volta.

    Molti restano paralizzati, incapaci di qualsiasi movimento o gesto razionale che potrebbe tirarli fuori dall’impiccio nel quale si trovano, e, inevitabilmente, precipitano miseramente in guai ancora più grossi.

    Io, invece, riesco a mantenere il controllo per un po’, giusto il tempo di prendere il largo.

    Ancora qualche minuto e sono pronto a riprendere il cammino. Mi asciugo con il dorso della mano le tracce bagnate che le lacrime hanno lasciato sulle guance.

    Sto meglio, e riesco ad avere di nuovo pensieri razionali.

    Devo raggiungere Romeo, per parlare con lui e capire come muovermi in questa situazione del cavolo.

    Lui è il classico prete di periferia: pochi soldi, poche formalità, tanta disponibilità e voglia di fare. La sua chiesa, la parrocchia di San Biagio, è sempre piena di ragazzi, attratti da questo sacerdote di quasi quarant’anni un po’ anticonformista. Gentile nei modi, diretto nei commenti, e anche carismatico, riesce ad avvicinare giovani e anziani, facendoli sentire a proprio agio.

    Le sue prediche sono

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