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Carnia la mia terra, sedici menu e altre storie
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Carnia la mia terra, sedici menu e altre storie
Ebook344 pages3 hours

Carnia la mia terra, sedici menu e altre storie

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About this ebook

Fulvio De Santa originario di Forni di Sopra provincia di Udine classe ’54 ci fa dono della sua arte culinaria attraverso dei menu tratti dal vasto repertorio della cucina Carnica, friulana.

16 ricette friulane impreziosite dalle storie che lo chef Fulvio De Santa ha voluto raccontare per ciascuno dei 16 menu qui proposti: aneddoti, tradizioni, occasioni speciali.

Nuovi ingredienti che si vanno a aggiungere a quelli più consueti, solleticando allo stesso tempo l’appetito e la curiosità del lettore.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 18, 2014
ISBN9788891145567
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    Carnia la mia terra, sedici menu e altre storie - Fulvio De Santa

    Fulvio De santa


    CARNIA LA MIA TERRA

    Sedici menu e altre ricette

    a cura di

    Luisa Bellina

    Titolo | Carnia la mia terra, sedici menu e altre storie

    Autore | Fulvio De Santa

    ISBN | 9788891145567

    Prima edizione digitale: 2014

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Indice

    Il ricettario che non c'è - Folco Portinari


    I miei menu - Fulvio De Santa


    La sua anima - Luisa Bellina


    Carnia, la mia terra


    La caccia


    Le mie passioni


    La festa al maiale


    Dalla campagna e dal cortile


    Venezia e la laguna


    La via delle spezie


    Il pranzo di Natale


    Colori


    Leggerezza


    Corteggiamento


    Seduzione


    Al cjant il gjal


    Un giorno di pioggia


    Seduto con i tuoi ospiti


    Ho servito il Re d'Inghilterra


    Ricette


    Il ricettario che non c'è

    Folco Portinari


    Non tutti i libri di cucina sono uguali, specie oggi che siamo invasi da un mare di pubblicazioni, frutto per lo più della Xerox, la fotocopiatrice. Ma non fu sempre così, anzi. È sempre molto difficile scrivere un libro di ricette territorialmente definite, soprattutto in un tempo come questo, in cui i confini sono resi labili dai sistemi di comunicazione, rapidissimi, tanto da far scemare la nozione preziosa di esotico.

    Una volta era esotico il Friuli a Torino, oggi non è esotica l'Africa in Friuli, in una grande poltiglia contaminativa che coinvolge i continenti. Basta entrare in un supermarket (ma pure in un mercato rionale cittadino) per vedere montagne di würstel o di ananas o di kiwi.

    Ecco, l'Italia è forse la prima produttrice di kiwi al mondo. I kiwi, quindi, appartengono al territorio del Roero, gastronomicamente parlando? Attenzione, perché c'è la trappola del pomodoro dietro l'angolo, o del mais.

    M'accorgo che sto ragionando ad alta voce. Torno subito ai ricettari e ripeto che è difficile scrivere un ricettario, specie se poi lo sottintende, o sovrintende, una storia di memoria descrittiva di un territorio, quello. C'è intanto da considerare la qualità intrinseca allo scriver ricette. M'accorgo che per secoli e secoli non si sono scritte. Che senso, allora, ha e ha avuto scriverle? Come vanno lette? Il tutto si esaurisce in una informazione tecnica? lo credo che il senso di un ricettario stia innanzi tutto nel consegnarci una documentazione, una testimonianza economica e antropologica, un indizio e un elemento culturale che si aggiunge alla conoscenza storica: in quei luoghi, e in quel tempo, si mangiava / si mangia così, con questi prodotti, manipolati in questa maniera. Ma si tratta contemporaneamente del documento di un gusto egemone o prevalente, affidato a certe classi sociali (quelle alte, per il passato, è ovvio, dedicato a chi sapeva leggere, ed erano pochi). O è documento delle mode gastronomiche, che pure hanno connotato le epoche, carne o cereali, pelo o piuma, spezie o erbe, zucchero ecc...

    Se le cose stanno così, vuoi dire che dalle ricette si può risalire con qualche certezza all'individuazione e alla catalogazione delle risorse alimentari di un paese, risorse territoriali e in più stravaganze esotiche, come le droghe o i frutti, per esempio. Ciò è naturale. Maggior consistenza, invece, dà la possibilità di risalire addirittura al paesaggio, inteso come coltivazione, specchio di una realtà culturale agricola, e non certo come un bel panorama. Ne consegue che un paesaggio che varia nel tempo è segno di una cucina variata nel tempo. Uno degli elementi più sicuri nella storia delle variazioni del paesaggio è dato dalle variazioni culinarie, così come le apprendiamo dai ricettari. Il che vuoi dire, capovolgendo l'ordine dei fattori, che a un cambiamento di stile alimentare corrisponde fatalmente un cambiamento di paesaggio. Proprio in questa mobilità sta il fascino e il succo del fenomeno.

    Non vorrei si pensasse che al ricettario attribuisco solo il valore, per importante che sia, di documento d'archivio. Dio mi guardi, perché è assieme qualcos'altro, qualcosa che però attiene a un diverso punto di vista. Non mi riferisco alle implicite informazioni dietetiche, le quali ci sono e sono di grande interesse, se è vero che dai tempi più antichi arte culinaria e regole dietetiche han camminato appaiate, in una specie di complementarità. Voglio dire piuttosto che un ricettario nasconde, assieme e dietro la testimonianza storica, anche un desiderio e una strategia di conservazione. In altre parole, si scrive una ricetta perché si ritiene che quella sia la sua specificità, o originalità, e perché si pretende che tale rimanga, inconsciamente almeno. Da testimonianza che era diventata monumento, innescando persino tensioni filologiche. Penso ai codici fioriti in questi anni, la codificazione dell'ortodossia, dalla pasta alla pizza e via discorrendo, con tanto di scomuniche. La vera jota è questa e chi ne viola il codice compie una cosa simile al crimen lesae majestatis, un sacrilegio ereticale. Dispute del genere sono all'ordine del giorno, nello scontro tra puristi e modernisti, tra fedeltà e rivisitazioni: la pizza è questa e non quella, l'amatriciana idem, la cotoletta (o costoletta?) alla milanese come sopra ... In questo caso il rigore filologico sembra voler bloccare per sempre un fenomeno che è, al contrario , evoluzionistico, mentre dovrebbe limitarsi a raccontare la storia di quella evoluzione, spiegarne le ragioni. La ricetta finisce col perpetuare il codice e, a livello familiar-culinario, perpetuare assieme un altro significato: la memoria.

    La memoria, da sempre, è un elemento a rischio perché agisce al di fuori di regole fisse, stabilite, eguali per ognuno. Non basta. Fin dove può arrivare la memoria del gusto? Se è per sentito dire non è più memoria, o meglio è la replica di un'altra memoria. Ma se è sperimentata non andrà oltre quella della propria esistenza. Nella fattispecie la memoria si identifica, per forza di cose, co n la mamma, cioè con colei che ci ha educato e allenato il gusto.

    Quello della mamma è quindi un parametro al quale ci riferiamo necessariamente, non potendone fare a meno. Col passare degli anni quell'esperienza si traduce non solo in parametro ma in memoria. Di che? Di quei sapori. Però sappiamo che alla memoria dei sapori (come dei suoni, del resto, delle musiche) si associa la memoria degli eventi. Diventa uno stimolo affettivo che, in circolarità, rende appetibile e appetito quel cibo, in un processo di affettività che coinvolge infine l'artefice, la mamma. E con la mamma il tempo perduto, la giovinezza, che tentiamo di recuperare con ogni mezzo, anche gastronomico. Va da sé che questo procedimento alimenta il più insidioso dei fenomeni mnemonici, la nostalgia. La ricetta diventa una sistemazione della memoria nostalgica. Può diventarlo, quanto meno. In compagnia della malinconia. Dico che c'è un modo di lettura di un ricettario malinconico, mica solo documentario o tecnico. Un modo lirico, o liricante.

    Chi affronta un libro di ricette, sia che lo scriva sia che lo legga, si trova nella condizione di dover far fronte a tutte codeste questioni, o a tutte queste offerte, dovendone dar conto. È quel che accade, e non potrebbe essere altrimenti, anche a Fulvio De Santa, autore di un libro che è sì un ricettario ma pure un ripiegamento autobiografico (un'autobiografia intellettuale, una rincorsa sulla memoria, più che una cronologia di accadimenti). Un libro singolare e originale, come s'accorgeranno subito i lettori, fuori schema per fortuna. È però ovvio che trattandosi di uno chef, che ha lavorato in quella grande università culinaria che è la cucina dei Troisgros a Roanne, la materia prevalente, almeno in quanto tale, si trova nel ricettario, nel quale si riconosceranno quegli elementi dei quali abbiano sin qui discorso.

    C'è, in primis, il documento. Di una cucina, nella fattispecie friulana. Documento rigoroso e libero, in quanto apre più che chiudere. La fedeltà alla tradizione non vuoi dire che si blocchi l'evoluzione. Neppure si pensi d'esser davanti a un esaustivo ricettario friulano. E si vedrà perché. Il documento, comunque, non fa solo riferimento alle manipolazioni gastronomiche, ma altresì alle risorse del territorio, come vogliono gli attuali canoni della buona cucina. Cuisine du terroir la chiamano i francesi, stancati dalla pur meritoria nouvelle. La conservazione poi non è affidata a un cieco filologismo ma si intreccia con la ricerca di una identità, e quindi specificità, nazionale, della nazione del Friuli (a questo proposito voglio ricordare che, sebbene d 'altro Paese, proprio all'estremo opposto, conosco le analogie se non le medesime condizioni culturali, quelle dei popoli di confine e di montagna, isolati e al tempo stesso tirati dentro dai vicini, incontaminati e contaminati assieme, tra provvisorietà e definizione, linguisticamente bastardi e eterodossi).

    Pure il dottor Freud abbia la sua parte e la parte del dottor Freud in questo caso è affidata alla memoria e ai suoi inconsci movimenti (cosa porta a galla, senza ragione), con l'esito naturale della nostalgia. Che è nostalgia, benché non lo si dica esplicitamente, per la giovinezza perduta. È quel che risulta e che vien fuori, spontaneamente, dalle pagine narrative che legano le ricette tra loro, pagine per lo più evocative. Al punto che mi vien da pensare che il libro vada assegnato a quella categoria, a quel genere, narrativo, e che le ricette altro non siano se non un materiale d' uso, come tela colore carta legno sacchi per un pittore. È una novità rispetto ai ricettari di tanti colleghi, freddi, compassati, straniati, quasi il cibo non fosse un piacere e i piaceri non comportassero partecipazione, allegra partecipazione. Quella che qui c'è, appassionata, un mettersi in gioco lasciando da parte i pudori e le algidezze professionali o le stucchevolezze filologiche.

    Il merito di un tale risultato va però equamente diviso tra la porzione delle ricette, opera del De Santa, e la porzione diciamo così narrativa, che nasce dalle interviste allo chef da parte di Luisa Bellina, trascritte in modo egregio (dato il genere di cui si tratta mi verrebbe da dire: manipolate). Un lavoro a quattro mani che ha il De Santa presente in qualità di cuoco e in qualità di personaggio del racconto, dalla Bellina sviluppato formalmente in prima persona.

    Torno alla memoria: nel lavoro del De Santa c'è infatti, s'è detto, un'organizzazione del materiale che si rifà e pretende la memoria. Fin dalle prime pagine, dall'intonazione: lo ho ricordi netti, precisi, di un'infanzia dominata da codici matriarcali, quando si andava con altri bambini " a raccogliere jerbuzzis per le nostre madri. E più scopertamente: Per il pranzo di Natale, così come per le altre occasioni festive invernali, la mamma preparava il capriolo. Non senza transfert, come si addice in queste situazioni. La moglie di Pierre Troisgros, friulana come me, lo coinvolge nella grande nostalgia della madre e nella struggente malinconia per la 'piccola patria lontana', una nostalgia che sopravvive con il desiderio dei sapori che assieme alla madre lingua definiscono l'identità di friulani. Come volevasi dimostrare. Che diventa poi mamma-storia, collettiva, per un popolo e una cultura di appartenenza rivendicata, sorretta e garantita appunto dagli interventi intercalati degli scrittori, Rigoni Stern, Bartolini, Morandini, Zanier, Bernardi, Giacomini, Guidorizzi, Dorigo, Maniacco, Coltto, i due in gara di scrittura con loro, non uscendone secondi. La stessa partizione delle ricette, non divise per generi ma distribuite per menu, lì riconduce, con una accentuazione visibile di gusti (memorie) molto personali, quasi privati: Carnia la mia terra, Le mie passioni, Ho servito il re d'lnghilterra... Insomma, accade che quando si chiude l'ultima pagina ci si accorge che l'ago della bussola si è spostato rispetto a quel che ci si aspettava. Abbiamo camminato in altra direzione, perché De Santa e Bellina hanno giocato con noi (ci hanno giocati), nascondendo abilmente la strada. Noi credevamo di leggere un ricettario, un testo gastronomico, mentre l'autore ci stava dimostrando che le risorse del territorio non si esauriscono, non si possono esaurire con i cibi, perché il loro godimento sta altrove, non in bocca ma più su, all'interno del perimetro della scatola cranica. Non si tratta di degustazione palatale mai, bensì di variazioni intellettuali o sentimentali a più gradi. È quanto qui si legge.    Indice

    I mei menu

    Fulvio De Santa


    Dopo tanti anni di attività come cuoco, ho sentito l'esigenza di rovistare nel mio baule per mettervi un po' d'ordine. O forse per dargli un po' d'aria. In questo mio baule immaginario ci sono innanzitutto le ricette della mia terra, i giacimenti etnici che fanno parte di me come la mia lingua, il friulano.

    A questa friulanità di base seguono le mie esplorazioni in territori limitrofi: Venezia, la laguna, la campagna padana (e quella padovana in particolare e ora quella veronese, dai sapori più forti e corposi, dialettali) che ho a lungo annusato per captare le sensazioni, rissotterrare le radici del sostrato popolare della cucina, del Dna dei sapori. lo sono sempre stato sostenitore dell'etnia, della tribù, anche se mi sono formato all'estero e ho sempre lavorato nell'alta cucina. Ognuno da quello che può per non cancellare memoria. A me è toccato - ho scelto - di farlo come cuoco.

    Il libro non è rivolto ai cosiddetti operatori del settore, ma a chi ama sperimentare in casa per la gioia dei familiari e degli amici la propria abilità e abbia la voglia di reinventarsi nel creare - annusando, toccando, manipolando, accostando - qualcosa che ha a che fare con il bisogno sano di agio, di cura, di ricchezza - argine alle puzze, al degrado, alla frantumazione come scrive Clara Sereni in Casalinghitudine - condivisibile con altri. Altri da accudire, coccolare, corteggiare, sedurre, consolare, festeggiare. La convivialità è anche una forma di mitezza, una virtù sociale su cui costruire una convivenza civile più degna.

    Ho pensato di proporre una sessantina di ricette organizzate in sedici menu a tema, organizzando ognuno come un capitoletto a sé, in cui le ricette sono raccontate e commentate, mescolate in alcuni casi a ricordi della mia storia privata e della mia terra, e alle voci di alcuni intellettuali friulani e veneti - Elio Bartolini, Mario Bernardi, Dino Coltro, Ermes Dorigo, Amedeo Giacomini, Mario Guidorizzi, Tito Maniacco, Luciano Morandini, Mario Rigoni Stern, Leonardo Zanier - che hanno accettato con grande disponibilità la mia proposta di raccontare piccole storie, aneddoti, ricordi, poesie, in vario modo legati alle ricette e agli ingredienti, rievocanti i riti, le stagioni, le seduzioni, le svolte che il cibo segna nella vita di tutti, accentuando l'attenzione sulla cultura materiale del territorio. A loro va il mio ringraziamento vivissimo.

    Fa seguito quindi una sezione più tecnica e di facile consultazione, nella quale le ricette precedentemente raccontate vengono descritte con precisione quanto a ingredienti, tempi, dosi, fasi di lavorazione e segreti del mestiere.     Indice

    La sua anima

    Luisa Bellina


    Conoscevo Fulvio da pochissimo tempo - ci davamo ancora del Lei - quando mi propose di aiutarlo a dare voce - anzi, penna - a un suo vecchio progetto: pubblicare alcune sue ricette, raggruppate per menu tematici. Accettai incuriosita. Ero già una fan della sua cucina e l'idea di entrare nel cuore delle sue ricette mi affascinava. Ci accordammo per alcuni incontri intervista. La porta d'accesso più semplice e naturale mi immetteva nei suoi legami fortissimi con il Friuli, anzi la Carnia, e i suoi sapori. Lo ascoltavo raccontare volentieri la sua friulanità, gastronomica e non solo che risvegliava anche miei personali ricordi infantili di lunghe vacanze friulane nel paese di mio padre. A poco a poco si lasciò andare, sollecitato a rievocare esperienze diverse, stagioni fortunate, ma riaprendo anche ferite ancora un po' sanguinanti. Ci accorgemmo così che, procedendo a zigzag e a flash, esplorando l'anima della sua cucina, stavamo sgomitolando un po' alla volta pezzi della sua vita. Per cui li presentiamo così, i temi dei menu, annodati alla sua storia, o alle sue storie, da cui le ricette entrano ed escono come in un teatrino. 

    Spero di esser stata sua ascoltatrice attenta e penna fedele.     Indice

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