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Doppia Caccia
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Doppia Caccia

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Verità e parola, stelle polari di una carriera giornalistica, riescono ancora ad esercitare il loro fascino sul pensionato Perigeo, alle prese con il notiziario dell'amena casa di riposo maremmana Villa Agape. La parola, mai casuale, sostiene l'impalcatura dei ricordi e delle memorie letterarie, cuce la tela delle relazioni quasi metafisiche con i personaggi della comunità geriatrica ed arma le battaglie condotte in ossequio alla verità, nel momento in cui oscuri fatti di sangue irrompono nella pace maremmana.
Nel doppio riflesso del giornalista pensionato che scrive storie di un giornalista pensionato, a sua volta prigioniero della propria volontà di scrivere, si legge forse l'interesse per la ricerca dell'essenza che sopravvive alla carne; tema ripreso anche nel successivo racconto dal titolo "Sindrome di Munchhausen".



Giorgio Perini ha dedicato quarant'anni della sua vita al giornalismo, quasi sempre al servizio dei telegiornali della RAI, dove è stato responsabile della cronaca e della redazione economico-sindacale del TG2 dalle sue origini fino al 1987, e poi inviato speciale e caporedattore nel TG3, fino alle dimissioni nel 1996. Incapace di staccarsi dalla macchina da scrivere, tenta di riempire il meritato ozio con quelli che lui definisce "componimenti". Nel 2000 ha pubblicato il libro di racconti Cattività e altre segregazioni (Stango Editore). Nel 2001 pubblica con lo stesso editore il soliloquio Il Catafalco. Nel 2014 vedono la pubblicazione, nel solo formato ebook, due romanzi gialli, ambientati nella amata Maremma, e fino ad ora tenuti nel cassetto: La Doppia Caccia ed il suo sequel Sindrome di Munchhausen.
LanguageItaliano
Release dateFeb 23, 2014
ISBN9788868857141
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    Doppia Caccia - Giorgio Perini

    33

    Capitolo 1

    Una riflessione e poche altre parole preliminari.

    Alla Perfezione, quella con la P maiuscola, di solito ci credono soltanto quelli

    costituzionalmente portati agli atti di fede. Personalmente, miscredente come sono, al solo sentirlo nominare, questo sostantivo mi suona antipatico e mi fa venire un prurito allergico che neppure la parietaria riesce a tanto. Già nel sentirlo pronunciare, infatti, non sopporto quel dittongo io sul quale, il più delle volte, si scarica un birignao che mi fa vibrare i nervi per la spocchia semantica che sottende. Ma più che altro, a non convincermi è il principio stesso di Perfezione. Il quale poco combina con l’immagine che il mondo ha di sé. Un mondo che, per molti aspetti, sembra essere stato congegnato non da colui che qualcuno chiamava il Grande Orologiaio ma da un dilettante- Un dilettante di talento, se vogliamo, che però, nel creare i complessi e sofisticati meccanismi di questo nostro orbe, per stanchezza o per distrazione deve essersi dimenticato di lubrificare gli ingranaggi. Col bel risultato che il meccanismo spesso s’inceppa e anche ciò che per definizione dovrebbe essere Perfetto, alla fine fa acqua da tutte le parti.

    Se non c’è riuscito uno come il leibniziano Grande Orologiaio, titolare indiscusso della Perfezione, a confezionare un mondo a regola d’arte, figuriamoci se noi, patetiche marionette perennemente sballottate dai venti della confusione, siamo capaci di fare qualcosa di meglio. Quand’anche un ambizioso proposito del genere si limitasse a un banale Delitto Perfetto.

    Non è un convincimento campato in aria il mio, dato che a supportarlo sono i fatti. Quelli, perlomeno, di cui sono stato involontario intruso e scrupoloso testimone.. Attivo e passivo. Fatti che, mettendoli nero su bianco, tenterò qui di descrivere a passo a passo senza rinunciare alle licenze della fantasia che, con l’intuizione, sono preziose variabili indipendenti della logica e della ragione.

    Per i monaci che nei secoli scorsi hanno abitato la Colombaia, operoso avamposto agricolo sovanese dei padri vallombrosiani dell’abbazia del Calvello, il tempo era scandito dalle scampanellate liturgiche di mattutino, laudi e vespro, per finire con quella di compieta, quando, stremati dalle fatiche liturgiche e lavorative, i devoti religiosi si rinchiudevano nelle celle ad arrovellarsi dietro a più umane e tormentose problematiche.

    Oggi, che la Colombaia non è più la colombaia del convento ma è diventata Villa Agape, il tempo, fra le ex pie mura, è più che altro una serie di parentesi tra prima colazione, pranzo, merendina e cena che gli ospiti della sontuosa casa di riposo per anziani benestanti vivono nella senile spensieratezza di un ozio pieno di amabili distrazioni. E neppure il fisiologico sfoltimento delle loro fila, (di tanto in tanto, al mattino, qualcuno risulta assente all’appello) riesce a turbare lo scorrere del giorni.

    Sospesa su un poggio nei pressi di Monte Elmo fra le docili colline sommerse da verzura aspra e imperitura e boschi di querce, lecci e altre rigogliose varietà arboree, Villa Agape appare, anche all’osservatore più smaliziato al bello, come un maliardo vezzo maremmano. La sua seduzione, nonostante le umili origini rurali, secondo attendibili estimatori sarebbe dovuta al tocco di Mattia de Rossi, architetto emerito della scuola di Gian Lorenzo Bernini, che ne avrebbe suggerito la trasformazione in villa sormontando l’austero manufatto agro-monacale con un’ampia torretta-soffitta altrettanto sobria ma sufficiente a tirarne fuori un pregevole esempio di residenza toscana di campagna. Volendo nobilitare il cambiamento di destinazione d’uso, si è pensato di accessoriare la bella dimora con un giardino all’italiana i cui eccessi barocchi sono temperati da solenni masse arboree raggruppate un po’ ovunque. Il tutto è racchiuso dentro una perimetrale siepe di bosso che fa da scrigno all’intero complesso. Fiore all’occhiello della residenza è, più di ogni altra ricercatezza, il piccolo teatro all’aperto con avanscena in muratura e quinte semicircolari d’alloro, nel quale alcuni ospiti, appassionati filodrammatici, approfittando della buona stagione, di tanto in tanto si dilettano a recitare, a beneficio dell’attempata comunità, brani scelti di opere classiche, commediole di vario tipo e altre similari delizie tutelate dalle muse Melpomene e Talia.

    Dalla villa, ovunque si guardi, c’è sempre del bello da vedere. Se invece si ama il silenzio, non c’è che d’ascoltarlo. Si può star certi che ha sempre qualcosa da rivelare. Ogni pietra ha storie remote da raccontare. E ogni rumore evaso dalla profondità dei boschi e delle macchie, a saper tendere l’orecchio, sembra echeggiare sonorità un tempo familiari da queste parti quasi che, dopo secoli, ancora non si siano spenti i frastuoni delle cacciate aldobrandesche.

    A Villa Agape, salute permettendo, si può anche decidere di campare, senza rimorsi e senza far dispetto a nessuno, il più a lungo possibile. Dimenticando i ricordi sgradevoli della vita. O accarezzando, con lo sguardo della memoria, quelli più piacevoli. Ma anche praticando il culto del cosiddetto anti-aging e life-extension, religioni queste che promettono ai vegliardi il traguardo del secolo purché si anteponga il benessere del corpo a qualsiasi principio di trascendenza.

    A Villa Agape, il mondo esterno sembra non interessare nessuno, e quando ci si fa caso è come se lo si osservasse dal buco della serratura. Insomma, alla gente di qua dentro, non gliene importa nulla di ciò che succede là fuori e tutti, chi più chi meno, si occupano al massimo di ciò che orbita intorno al proprio ombelico.

    A settantatre anni suonati e tutti meritati ( i più malevoli sono convinti che me ne competano di più) non avrei potuto trovare migliore sistemazione per le mie ossa artrosiche. E non solo per l’ambiente sopradescritto o per la superlativa aria della collina maremmana che allieta i polmoni, ma soprattutto per l’ineguagliabile alloggiamento che mi trovo a occupare. Nella villa dispongo, infatti, di una suite ricavata nella torretta. Si articola su due ampie stanze nelle quali mi muovo a mio agio e che mi stanno a pennello come se me le avesse cucite addosso un sarto. In passato, come s’è detto, la sopraelevazione era residenza ufficiale di piccioni ma anche domicilio di topi, pipistrelli e altri mammiferi occasionali. Oggi sono un quartierino ben arredato con pregiati mobili d’epoca. Originali, tanto per fare un esempio, sono i comodini in pietra di Alberese e deliziosa è l’ottocentesca stufa di ceramica che però è fuori uso. Secondo il pensionante cav. Gilberto, che ai tempi suoi fu apprezzato antiquario in quel di San Miniato, il mio comò sarebbe uscito nientemeno che da un disegno del senese Agostino Fantastici che, per chi non lo sapesse, è stato, due secoli addietro, un raffinato disegnatore di mobilia di qualità per l’aristocrazia locale. Oltre alla stanza da letto che comunica con un bagno stile rococò, felicemente propedeutico a ogni tipo di intima abluzione, godo anche di un soggiorno adattato a studio dove ho potuto sistemare il meglio della musica, tutta in CD e anche su vinile, e dei libri che mi hanno assistito nelle peripezie del vivere. A parziale smentita di quanto affermato poc’anzi, io, il contatto con il mondo esterno lo mantengo regolarmente e assiduamente, seppure in modo virtuale, grazie a un personal computer che si comporta come se fosse una protesi del mio corpo. Dopo una iniziale diffidenza, è diventato una sorta di naturale estensione della mia vista, dell’udito e anche dell’intelletto e senza di lui ora non saprei neppure allacciarmi le scarpe. In ogni caso lo considero un presidio contro gli agguati dell’Alzheimer.

    Chi più chi meno, gli ospiti di Villa Agape – tenuto contro che l’età media si aggira sui settantacinque anni – sono persone gradevoli e di piacevole compagnia, purché si trascuri di dare importanza alle fisime e alle stravaganze di certuni. Il signor Saturnino, per citarne uno, anche lui cavaliere della Repubblica al pari dell’antiquario cav. Gilberto, se posso lo scanso. E ciò, non solo per via del nome che evoca il pianeta con gli anelli, quello che nel cosmo sembra ballare l’hula hop, ma soprattutto perché quando ti rivolge la parola facendo ballare una dentiera incredibilmente cariata, crede sempre di avere a che fare con dei subalterni. Dà ordini a tutti e ritiene tutti alle sue dipendenze. Ma con la faccia erboristica che si ritrova, da cavolo a fine ciclo vegetativo, la sua autorità è poco credibile e nessuno se lo fila.

    Di analoga sindrome è affetto anche il generale di brigata a riposo Fulgenzio Attenni. Ma lui, perlomeno, è caricato a salve e i suoi ordini li spara sull’attenti e con cortesia, come se chiedesse un favore. Inoltre, quando lo si incrocia, saluta sempre per primo, seppur militarmente, e alle signore non nega mai i baciamano.

    Da tenere alla larga anche la signora Palmira, fanatica della televisione, con particolare riguardo alle soap opera. Nulla di male, per l’amordiddio, se non fosse che in tutti gli amici e parenti stretti ravvisa una qualche somiglianza con i personaggi del piccolo schermo. L’unico a non avere un posto nella galleria è il marito Vincenzino, un ometto striminzito e vizzo con una testa grossa e pelata che lo fa sembrare un feto. Lei lo tratta sempre male ma lui le sta appiccicato come una cozza allo scoglio. In gioventù, cioè agli albori della televisione sostiene di aver partecipato a una selezione per signorine buonasera. Annunciatrice, che si sappia, non lo è mai diventata, ma per via del lessico sempre sgarbato riservato al marito, un sulfureo ospite di Villa Agape, la ha ribattezzata l’annuncia…truce. E tale è diventata per tutti. La signora Palmira è anche titolare di un cagnetto in miniatura, un chihuahua, il cui canile abituale è la borsetta della padrona. Con spietata malignità il bello spirito di cui sopra la chiama anche lavelona-a-bbestia.

    Del tutto infrequentabile è, a sua volta, donna Floriana, una matrona baffuta e brevilinea che, a suo dire, vanta quarti di nobiltà per via materna. Avendo una concezione fondamentalista delle sue ascendenze, tratta tutti dal basso in altro (per via, ovviamente, della statura). Sua spina nel fianco e vittima predestinata è di solito il signor Aristide, un ex commerciante di ferramenta che, considerato sotto il profilo fisionomico, non si può dire che sia un bell’esempio di evoluzione darwiniana. Se non fosse così pletorico com’è, gli si potrebbe perdonare perfino la belluina e rumorosa voracità con cui svuota i piatti propri e gli avanzi dei commensali. A rendere più tragica la sua poca grazia, collabora un brutto labbro leporino dovuto a una palatoschisi congenita che lo fa sfiatare come una balena e quando parla, le parole, nebulizzate nella saliva, non sanno mai se prendere la strada del naso o della bocca. Insomma, di questa eterogenea e composita umanità, vien da dire che il mondo è bello perché è…avariato. Come diceva mio padre buonanima.

    Un cenno a parte merita Aurelio, un anziano coltivatore di nocciole del viterbese, che trasforma in rima tutto ciò che appartiene al mondo della prosa. Si esprime in versi anche quando si tratta di ordinare un piatto di spaghetti che, come minimo, devono essere due etti, e di cottura perfetti. Di solito usa il verso sciolto ma non disdegna la rima baciata e talvolta ama improvvisare ricorrendo al settenario giambico del quali si ritiene specialista. La sua ossessione è l’età. La canta in vernacolo con i seguenti versi: Fior de paja/ lo possino ammazzà per quanto è boia/ la peggio malattia è la vecchiaia/ dovesse morì prima che io muoia!. Di ben altra stazza è il professor Vilelmo, un ottuagenario ex docente della Normale di Pisa esperto nella fisica dei quanta. Il vegliardo è un tipo schivo e solitario dalla parola sferzante, il quale deve essere passato direttamente dal latte materno al sigaro toscano che fa corpo unico con la sua bocca. E’ lui quello dell’annuncia-truce e della velona-a-bbestia. Sostiene di sentirsi a Villa Agape come un turista che avesse deciso di passare le vacanze a Pompei nell’agosto del settantanove dopo Cristo. Detto per inciso, è anche il più accanito giocatore di scacchi di tutta la comunità. E’ doveroso riconoscere che gioca piuttosto bene, specialmente quando non confonde, per via della cataratta, il re con la regina e i pedoni con gli alfieri.

    Oltre ai succitati, ci sono poi ospiti – non troppi per fortuna – praticamente fuori di testa e in disarmo fisico avanzato il cui problema esistenziale più impellente è il cambio dei pannoloni. Tradotto in termini pratici, costoro fanno vita a sé ed è inutile parlarne se non per commiserarli. Il resto della compagnia è formato da amici, tutta gente per così dire tranquilla e normale con la quale fa piacere comunicare e scambiare confidenze e pensieri.

    Non volendo trarre in inganno chicchessia, e a evitare inutili e fuorvianti arrovellamenti, è opportuno precisare subito che i personaggi fin qui citati, salvo per alcuni utili contributi di pensiero e di esperienza, hanno un ruolo puramente decorativo, o quasi, nella vicenda che sarà evocata. Vanno presi per quello che sono più ancora per quello che dicono e fanno.

    Quanto a me, non saprei dire in che modo mi vedano i vari ospiti di Villa Agape. In linea di massima mi pare che mi rispettino e ci tengano alla mia confidenza. Anche perché sono la loro principale fonte di notizie e destinatario di segnalazioni di ogni genere che diffondo tramite un modesto organo d’informazione a uso interno. Si tratta di un giornalino per lo più settimanale del quale sono, al contempo, editore, direttore e redattore non retribuito. Il sussurro – questo il nome dl foglio – può contare anche su modeste entrate dovute al buon cuore degli affezionati lettori. I quali, tuttavia, non sempre si rendono conto che carta, cartucce per la stampante e materiali di cancelleria vari indispensabili alla sua confezione, costano assai di più di quanto la loro generosità conceda. Del giornalino me ne occupo con molto impegno, quasi a tempo pieno ma anche con una certa disinvoltura, avendo annusato per oltre un quarantennio l’odore del piombo fuso delle linotype e ascoltato, fino al rintronamento, l’assordante rumore delle rotative. Da giornalista. Il foglio ospita prevalentemente notizie sulla vita di Villa Agape, nonché inchiestine e articoli di varia umanità. E, lo ammetto con un po’ di vergogna, anche chiacchiericci spesso insulsi, benché il giornalino non sia quel megafono del pettegolezzo che il professor Vilelmo sostiene esso sia. Io, i miei pezzi, li firmo con un mio vecchio pseudonimo: Perigeo, (e Perigeo fatalmente mi chiamano tutti) per meglio sottolineare il ruolo di osservatore distaccato e imparziale che scruta dall’alto – ma da punto più prossimo dell’elissi – gioie, passioni, tormenti e beghe varie che animano il piccolo mondo di Villa Agape.

    Naturalmente Il sussurro è aperto al contributo di chiunque abbia qualcosa da dire, da segnalare e da reclamare, purché con misura, senso di responsabilità e nel rispetto della linea politico-editoriale che mi sono prefisso. A tutt’oggi non ho praticato nessuna censura, neppure a fronte di certi eccessi. Incontenibili quelli di donna Floriana che, qualche tempo fa ha preteso la pubblicazione di un suo articolo–denuncia, una sorta d’invettiva contro certi molestatori sessuali che, a suo dire, insidiavano l’integrità di alcune pensionanti, la sua compresa, approfittando della complice penombra della sala televisiva. I piccanti dettagli e gli epiteti usati dalla sedicente nobildonna erano tali da rasentare la diffamazione, e ho dovuto faticare non poco per convincerla a tralasciare i nomi dei satiri che avevano teso agguati alla sua virtù. Nominativi a parte, ho pubblicato il pezzo senza togliere una sola virgola e, come prevedibile, la cosa sollevò un certo scalpore. Ma poi fu buttata in ridere.

    Il primo a sdrammatizzare e a riderci sopra fu il signor Gaddo che di Villa Agape era proprietario e direttore. Dico era, per i motivi che saranno al centro degli eventi che hanno portato un certo scompiglio nella vita del confortevole buen retiro maremmano.

    Capitolo 2

    Non c’è nulla di più interessante di una festa improvvisata all’aperto durante una splendida giornata novembrina, caduta nel bel mezzo dell’estate di San Martino. In special modo se tale festa celebra un successo di caccia al cinghiale.

    Non che da queste parti sia un avvenimento eccezionale ammazzare un cinghiale. Ma quello che il signor Gaddo, sua moglie Ielena, il di lui fratello dottor Lapo e l’amministratore di Villa Agape, ragionier Redo, fecero fuori, era un esemplare da museo paleontologico. In effetti, un solengo di quel genere – così sono chiamati in Maremma i vecchi maschi solitari che si aggirano nelle macchie e nei boschi con l’aria di chi, della famiglia e di altre comunelle, ne ha abbastanza – non s’era mai visto nella zona a memoria dei presenti. I centoventi chili di muscoli e di nervi, benché nascosti sotto l’ispida cotenna, sono effettivamente cosa da mettere soggezione anche a un branco di lupi sottoposti a un digiuno forzato. Figuriamoci a chi, come me, si sente in pericolo anche davanti a un lattonzolo votato a diventar porchetta.

    Per essere precisi e dire le cose come stanno, ad ammazzare l’animale era stato il ragionier Redo. Fu lui a piazzare due palle a colpo sicuro: una in mezzo alla fronte e un’altra sul collo, fulminando la bestia senza lasciarle il tempo di emettere un solo grugnito di protesta e rassegnazione. E ora, ancora incredulo, se ne stava impalato davanti alla sua preda schermendosi con il pubblico dei pensionanti convenuto per assistere al rito della macellazione che lo incitava a raccontare la sua avventura. Alla fine, convinto dalle insistenti richieste, si fece coraggio e prese la parola nel silenzio generale. Timidamente, a voce bassa, come se avesse dovuto vergognarsi per ciò che gli era capitato.

    --- Me ne stavo sull’altana poco lontano da un fosso dove l’acqua era bassa e formava una specie di pozzanghera. Saranno state le sei quando ho sentito qualcosa muoversi fra i cespugli. Era più che altro un fruscio, per cui ho pensato che si trattasse di qualche animaletto, che so, un roditore, al massimo un leprotto. Ad ogni buon conto ho levato la sicura alla carabina e poiché faceva ancora buio mi sono messo a ispezionare i dintorni con il visore notturno. Non vi dico la sorpresa quando mi sono visto sbucare a pochi metri di distanza un bestione enorme, uscito da un trattoio silenzioso come una farfalla. Annusava l’aria con fare sospettoso come se avesse sentito il mio odore nonostante fosse sopravento e solo qualche refolo soffiasse di tanto in tanto. Io zitto, non mi sono mosso di un millimetro, un po’ perché ero paralizzato dall’emozione e un po’ per non insospettire ulteriormente l’animale. Ha annusato l’aria ancora per qualche istante, poi, convintosi di stare al sicuro, il cinghiale è entrato nella pozza dove ha cominciato a rotolarsi nel fango per pulirsi dai parassiti e calmare il fastidio del prurito. Inutile dire che mi è venuto un batticuore da infarto. Ho respirato profondamente per riprendere la calma e ho puntato l’arma con mano ferma. Quando il muso della bestia si è trovato a mio favore, non ci ho pensato un attimo e ho fatto fuoco mirando fra gli occhi. Il mio semiautomatico calibro 30.06 non poteva sbagliare. Il solengo si è piegato sulle ginocchia e prima che cadesse a terra ho sparato un secondo colpo che gli ha bucato il collo proprio dietro l’orecchio finendo anche quella palla nel cervello. Tutto qui.

    Il ragionier Redo raccontò la sua impresa tutta d’un fiato senza lasciarsi andare a toni epici, benché la modestia non riuscisse a dissimulare del tutto la legittima soddisfazione. Vari pensionanti lo applaudirono. Eccetto le signore, tutte incantate a guardare con un’ammirazione pari al ribrezzo l’ormai innocua carcassa del cinghiale, i cui occhi, rimasti spalancati, sembravano implorare pietà. Benché la mole del solengo facesse impressione anche da morto, non mancarono parole di misericordia. Non da parte degli uomini, per loro natura meno impressionabili, i quali commentarono con competenza le caratteristiche del bestione senza omettere di chiedere informazioni sull’arma del ragionier Redo che, come lo stesso illustrò, era un Remington semiautomatico modello 7400 acquistato di recente.

    --- Bell’arma --- sentenziò l’Aristide, che a suo dire era stato provetto cacciatore. Volle addirittura imbracciare il fucile per valutarne il bilanciamento, che considerò valido per la facilità con cui l’arma saliva sulla spalla. Di tutto rispetto giudicò anche gli organi di mira, in particolare il cannocchiale ad ingrandimento variabile, per quanto lui preferisse quelli con reticolo a punto luminoso cerchiato, a suo parere insuperati nel puntamento veloce di bersagli in movimento, anche in condizioni critiche d’illuminazione…

    I compagni di battuta – che il resoconto dell’impresa l’avevano già sentito svariate volte – si limitarono ad annuire ma si vedeva lontano un miglio che stavano facendo sforzi sovrumani per nascondere il rodimento che rimescola le budella di ogni cacciatore tornato a casa con il carniere vuoto.

    Il quartetto venatorio era partito la notte precedente per il non lontano Monte Labbro, nel territorio di Roccalbegna, dove il signor Gaddo, in qualità di socio maggioritario,

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