Il calcio e le sere d'inverno
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About this ebook
Un'epopea, quella del mondo legato alla magica sfera, che sin dalle origini ha dimostrato tutta la sua capacità di ideazione, di trasformazione rivoluzionaria, di genialità ma anche di duro lavoro, di miserie, di grandi figure, in perenne connessione con la (anche cattiva) politica e il costume.
Non troveremo tabelle né statistiche perché ormai reperibili sul web.
Utile al curioso che vuol affacciarsi con strumenti di conoscenza storica e tecnica al riguardo del calcio nazionale e internazionale, ciò che trascinerà il lettore già appassionato sarà il continuo innestarsi di ricordi e opinioni propri a confutazione o a conferma, come ad esempio nella lettura dell'originale capitolo dedicato alle "convocazioni impossibili".
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Il calcio e le sere d'inverno - Franco Astengo
Franco Astengo
Il calcio e le sere d'inverno
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un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice
Introduzione
Parte Prima
Le origini del gioco
Tattica e grandi squadre
Il catenaccio: una storia forse cominciata in Svizzera ma tutta italiana
Il Magno Brasile
La Coppa dei Campioni d'Europa: un momento di crescita non solo nella popolarità del gioco
Calcio atletico, calcio totale
L'Italia torna sul tetto del mondo
La rivoluzione
Le squadre che hanno fatto la storia
Parte seconda
Appunti di storia del calcio italiano: miti, leggende, miserie
Le origini, i pionieri
Una crescita convulsa
Fascio e pallone
La Nazionale al vertice
Grandi squadre per grandi città
16 - La scansione dei Campionati
Misfatti e violenze
Il girone unico, finalmente
Parte Terza
Il Calcio giocato
I grandi cicli del campionato italiano
Le provinciali in serie A
Gli scudetti oltre Milano e Torino
Una lettura emozionante
Un po' di storia della Serie B
Gli stranieri nel campionato italiano
Le convocazioni impossibili
Parte Quarta
Uno sguardo d'insieme sulla storia del calcio internazionale
I ventidue delle grandi Nazionali della storia
Scrivere di calcio, ma soprattutto leggere di calcio
Conclusioni
Alcune immagini del Calcio (e non solo)
Ringraziamenti
Introduzione
Il calcio e le sere d'inverno
Nella sera d'inverno la grande cucina della casa di Corso Vittorio Veneto era poco illuminata, l'economia del tempo consentiva soltanto una lampadina appesa lassù verso un soffitto molto alto. La cena era terminata da poco, mia madre era già affaccendata attorno alla sua Singer
(molto moderna lei, una vera professionista) forse per rifinire qualcosa di particolare da portare all'indomani in sartoria e ascoltava la radio, Achille Togliani e Nilla Pizzi. Non perdeva un colpo, spostandosi con abilità tra Rete Rossa
e Rete Azzurra
, da una trasmissione di canzoni all'altra, lasciando noi con il becco asciutto rispetto al giornale radio, che forse mio padre avrebbe ascoltato volentieri.
La televisione non c'era, ma non in casa nostra: non c'era proprio in tutta l'Italia e sarebbe arrivata tre-quattro anni dopo.
Mio padre prese la buccia di un'arancia appena consumata e, con un gesto che mi pare di ricordare come un poco solenne, la spezzò in tanti piccoli pezzi, 11 contai dopo, e li dispose sul tavolo.
«Ecco, vedi: il portiere, come sai già, sta naturalmente in porta; i terzini larghi verso l'esterno del campo, in mezzo alla difesa il centro-mediano, ai suoi fianchi i due mediani laterali (a destra e a sinistra) che formano con le due mezze ali il quadrilatero di centro-campo, all'attacco le ali, anche loro all'estremità del campo come i terzini («Voglio vedere le ali con le scarpe sporche di gesso.» sentii urlare, qualche anno dopo, da Dante Cicerin - ovviamente in dialetto - quando si trattò di mettere in pratica quelle disposizioni tattiche) e il centroavanti schierato là, il più vicino possibile alla porta avversaria, per cercare di tirare in porta.»
Avevo già visto il calcio giocato sul campo in Corso Ricci, alle Traversine di Vado e, per due volte, a Marassi, là dove tutto era cominciato ed il Genoa immaginifico di sir James Spensley aveva vinto i nove scudetti dell'epopea pionieristica del calcio italiano. Mio fratello guardava meravigliato ma era ancora troppo piccolo, dopo qualche anno avrebbe insistito a seguire i grandi
relegato per forza tra i pali, dove poi si rivelò, nelle nostre categorie, un ottimo portiere. Nessuno, quella sera, avrebbe scommesso che quel bambino biondo avrebbe, un giorno, frequentato le Olimpiadi.
Ebbene, quella sera mio padre consapevolmente aveva avviato una sua operazione di educazione sentimentale
verso il gioco del calcio, che tanta parte avrebbe poi avuto nella mia vita: aveva cercato di rendermi cosciente di ciò che accadeva in campo e che, fino a quel momento, avevo seguito così, guardando semplicemente l'andamento della palla. Un passo in avanti nella conoscenza della vita: come imparare ad andare in bicicletta (una cosa non semplice, all'inizio...) o nuotare (quello invece mi riuscì benissimo, con una facilità sorprendente).
Tenni quel segreto per me, non lo rivelai ai miei compagni di scuola, era un dato di superiorità: non feci, insomma, come per la politica quando dopo aver ascoltato alla società delle Fornaci un comizio di Angiola Minella contro la CED l'indomani mattina lo ripetei, pari pari, ai miei spauriti compagni di classe. Anche quello fu, però, un momento importante di educazione sentimentale.
Mio padre mi aveva così spalancato le porte alla conoscenza del calcio vero ed io in quei minuscoli pezzi di bucce d'arancia vedevo le grandi squadre dell'epoca: il Wunderteam austriaco, l'Arancysipat ungherese (per la quale facevo un tifo sfrenato), i maestri inglesi.
Questa era l'altra caratteristica di quell'educazione: il calcio non aveva confini e non c'erano nemici, soltanto avversari in quel momento che, chissà, un giorno avremmo potuto trovare come compagni di squadra.
In questo mio padre era davvero cosmopolita, non semplicemente internazionalista come del resto indicava la sua forte appartenenza politica di operaio comunista e non vedeva il calcio come un fatto di cortile o di tifo paesano.
Aveva visto crescere il gioco del calcio in Italia, diventare fenomeno di massa: ricordava Ardissone, capitano delle bianche casacche vercellesi sette volte campioni d'Italia, rimboccarsi le maniche prima di cominciare la partita, come a dire agli avversari attenzione che vi stiamo aspettando
; aveva assistito alla prima finale di Coppa Italia tra Vado e Udinese, sul campo di Leo, conclusasi con un goal di Levratto che secondo le cronache avrebbe strappato la rete.
Lui smitizzava tutto e sosteneva, credo a ragione, che la rete fosse già strappata prima della partita. Un esempio di questa sua visione del calcio si verificò al momento della disputa del campionato mondiale del 1934 in Italia. A Genova era in programma Spagna-Brasile: quella fu la prima esibizione dei carioca in Europa. Uruguay e Argentina avevano già attraversato l'Atlantico in occasione delle Olimpiadi di Parigi del 1924 e di Amsterdam del 1928. Mio padre inforcò la bicicletta, raggiunse Marassi, acquistò il biglietto e osservò la partita.
Vinsero le furie rosse 3-1: i brasiliani non tiravano in porta, pensavano si dovesse accompagnare
il pallone dentro la rete.
Lui ne trasse il ricordo delle riserve brasiliane intente a palleggiare tra il primo ed il secondo tempo: a suo giudizio il più bello spettacolo calcistico mai osservato nella sua vita.
Un uomo talmente cosmopolita, dal punto di vista calcistico, da non rivelarmi di essere tifoso genoano nel momento in cui, con l'entusiasmo dei bambini, gli proclamai di aver scelto la Sampdoria come squadra del cuore: il suo essere rossoblù lo compresi da solo, in una occasione successiva che avrò modo di raccontare.
Insomma. Da quella sera, dopo la lezione impartita attraverso i piccoli pezzi della buccia d'arancia, ero uscito consapevole che il calcio era una cosa seria, da studiare attentamente, praticato da persone intelligenti. Non a caso la grande Ungheria aveva in squadra un deputato al parlamento e un colonnello, e Nicolò Carosio, nella radiocronaca citava puntualmente: la palla all'onorevole Bozsik; ha tirato in porta il colonnello Puskas. Gli allenatori (mio padre aveva una grande stima di alcuni che erano stati ottimi giocatori ai suoi tempi, magari poco famosi) dovevano imporsi come acume. In quel tempo avevano un senso i numeri sulle maglie, che erano stati introdotti da poco. Adesso quando mi capita di vedere i 77 piuttosto che i 99 con il nome sulla maglia inorridisco, quasi come quando vedo il nome del presunto leader
all'interno del simbolo di un partito.
Ero pronto a vivere il calcio da dentro
, sia pure ancora come spettatore, ma spettatore consapevole e su questo punto cercherò di raccontare ancora altre storie, intrecciando quelle personali con quelle della grande epopea del calcio italiano e internazionale.
Riprendo allora il filo più generale del discorso anche se infarcirò il racconto con aneddoti, soprattutto in relazione al rapporto con mio padre e a quello con le amicizie che la frequentazione diretta dell'ambiente mi ha fornito nel tempo.
I tre filoni che intendo percorrere nello sviluppare questa mia narrazione sono:
1) l'evoluzione del gioco dal punto di vista tattico ed atletico, attraverso una visione personale
delle grandi squadre prima ancora che dei singoli atleti nel corso degli ultimi sessant'anni, cercando anche di rispondere a quesiti che a volte vengono posti e che non sono per nulla oziosi dal punto di vista delle comparazioni tra squadre ed epoche diverse;
2) il calcio italiano nella sua storia e nella sua trasformazione in senso sempre più provinciale (al di là dei tanti stranieri che militano nelle nostre squadre a tutti i livelli) avvenuta in ossequio a esigenze di strumentalizzazione politica ed economica che hanno, alla fine, trovato nel mezzo televisivo il veicolo più adatto. A costo di scandalizzare qualcuno sosterrò, argomentando, che nella manipolazione delle masse, attraverso il calcio, il fascismo aveva avuto maggiori intuizioni e classe
rispetto a quanto avvenuto ai giorni nostri;
3) una galleria degli episodi che mi hanno maggiormente colpito assistendovi direttamente tra partite viste, giocatori osservati e quant'altro. Tenendo conto a questo proposito che per molti anni mi è capitato di vivere nell'ambiente a livello di calcio minore e di aver considerato – in quel periodo – il nostro
calcio di periferia assolutamente centrale
. Così mi capiterà di scrivere della Sestrese come di una grande squadra, perché nella comparazione del mio soggettivo immaginario proprio di ciò si trattava.
Parte Prima
Le origini del gioco
Ufficialmente il gioco del calcio, lo sport più popolare del mondo, nacque a Londra nel 1863 all'interno di una birreria destinata a diventare famosa: la Freemasson's Taverne.
In quel fumoso locale (almeno lo immagino così) si riunirono i rappresentanti dei primi undici club inglesi che fondarono la Football Association, prima organizzazione nel mondo della sfera di cuoio.
Nessuno di quei signori in bombetta, con grandi baffi e lunghe basette, avrebbe immaginato quali passi da gigante sarebbero stati compiuti dal calcio nato tra veri dilettanti, per il gusto di dare una pedata forse più forte che tecnica in quei tempi di zelanti pionieri.
Nessuno poteva prevedere che un giorno gli stadi avrebbero contenuto 100.000 spettatori intenti ad assistere alle grandi partite mentre contemporaneamente le TV ne avrebbero irradiato le immagini ad altri miliardi, sparsi in ogni angolo del Pianeta.
In quei giorni lontani si udiva il fragore delle prime locomotive, si beveva il tè in assoluto silenzio nei circoli aristocratici.
Il calcio si giocava in pantaloni lunghi ed il tempo delle organizzazioni internazionali e delle partite fra squadre di diversi Paesi era ancora molto lontano.
Il calcio era nato lungo le vie delle città inglesi e poi aveva preso piede nelle famose Public School coinvolgendo, in seguito, anche l'Università di Cambridge.
Da Londra il football prese il volo verso il Nord dell'Inghilterra, oltre il Vallo di Adriano in Scozia, scavalcò le colline del Galles varcando il mare per arrivare in Irlanda e poi, lentamente, si diffuse all'estero grazie soprattutto ai marinai inglesi di stanza, di volta in volta, nei vari porti stranieri.
Ma le prime tracce di partite di calcio autentico risalgono ai primi anni del '900 fra le squadre delle Public School.
Il gioco del football che letteralmente vuol dire palla-piede non ha però origini occidentali. E' stato stabilito persino dagli stessi studiosi inglesi che i cinesi giocavano una specie di calcio chiamato Tsu cheu
oltre 2.000 anni fa; pure i giapponesi vantano antichissime tradizioni con il kemari
, giocato con un pallone di cuoio e otto giocatori per squadra.
Anche l'Italia ha il suo posto nell'ideale museo della scienza calcistica, prima con l'harpastum giocato nella Roma imperiale e poi con il calcio fiorentino che, ancor oggi, viene giocato con le stesse regole del 1530 almeno due volte l'anno in Piazza Santa Croce.
La prima riunione della Football Association tenuta nella birreria londinese già ricordata fu presieduta da un pastore protestante, il reverendo Richard Burn.
Erano presenti i rappresentati dei seguenti club: Barnes, War Office, Crusaders, Forest, Leytonstone, Percival House Blacklheath, Crystal Palace, Blackheath, Kensington School, Surbiton e Blackhealth Preparatory School.
Tutte queste squadre oggi non sono che ricordi.
L'unica ancora in attività (dopo circa 150 anni!) è il Crystal Palace.
A quei tempi il calcio veniva giocato un po' come il rugby: si poteva, infatti, toccare il pallone anche con le mani.
Il reverendo Burn era tra coloro che volevano instaurare nuove regole, ma non tutti i presenti furono d'accordo. I dissidenti in seguito si dimisero e fondarono una nuova società, la Rugby Union.
Il calcio era nato come gioco essenzialmente d'attacco. Una squadra era infatti composta da otto attaccanti e solo tre difensori.
Dopo il 1870 il modulo cambiò marginalmente con sette giocatori in avanti e quattro in difesa.
La grande passione dei giocatori dell'epoca era rappresentata dal dribbling. S'impostava il gioco e si segnava esclusivamente con azioni individuali: passare la palla significava quasi gettare la spugna.
Furono gli scozzesi, in particolare quelli del Queen's Park di Glasgow a dimostrare i vantaggi del gioco collettivo: si aprì così la stagione delle tattiche, alla quale dedicherò la prima parte di questo lavoro.
Tattica e grandi squadre
La storia dell'evoluzione tattica in campo è stata raccontata in alcuni volumi a mio giudizio fondamentali (Brera, Sconcerti, Battilana) e non sarà oggetto specifico di questo mio racconto.
Mi limiterò, infatti, ad accostare il profilo di alcune grandi squadre (grandi almeno nel mio giudizio assolutamente soggettivo) che hanno calcato i campi di tutto il mondo nel corso degli ultimi 60 anni, valutando i diversi tipi di gioco che via via sono stati praticati soprattutto per intuizione di grandi tecnici, capaci di sovvertire schemi che, fino a quel momento, apparivano immutabili.
In verità il primo passo per avviare quello che possiamo definire un vero e proprio mutamento di paradigma fu compiuto sulla spinta di una sostanziale modifica del regolamento decisa nel 1925 dall'International Board, organismo per molti decenni in mano alle federazioni britanniche composto da cinque membri: un inglese, uno scozzese, un gallese, un irlandese e da un rappresentante del resto del mondo
come definivano le altre federazioni calcistiche i britannici.
Fu deciso, infatti, di ridurre il numero dei giocatori conteggiati per il fuori-gioco da tre a due (portiere compreso) allo scopo di ovviare alla scarsità di goal segnati che nell'isola, dove il calcio aveva già raggiunto una popolarità eccezionale, era causa di grave scontento da parte dei tifosi. La modifica portò all'effetto contrario: si segnavano valanghe di reti ma lo spettacolo, dal punto di vista tecnico, non era certo migliorato.
L'allenatore Herbert Chapman dell'Arsenal di Londra (la squadra del popolo per la quale tifa anche la regina Elisabetta, mentre la jet society londinese tifa Chelsea, squadra del quartiere di Kensington) mise in atto una efficacissima contromossa, spostando lo schieramento in campo, arretrando il centromediano tra i terzini che marcavano le ali (e non le mezze ali come avveniva in precedenza) e incaricando i mediani di guardare quest'ultime considerate le fonti del gioco. Lo schema fu definito WM e risultò un vero e proprio propellente per la modernizzazione del gioco.
Non si adeguò la grande scuola danubiana (Austria, Ungheria, Cecoslovacchia) che faceva della proprietà di palleggio (un po' come adesso il Barcellona o la nazionale spagnola) la propria arma segreta. Originale anche l'assetto tattico dell'Italia che un conservatore del calibro di Vittorio Pozzo schierava con il metodo
(la denominazione dello schema usato in precedenza anche dagli inglesi) ma modificato dalla posizione dei terzini, scaglionati in area l'uno dietro l'altro: diciamo con un libero
ante litteram. Così giocava la Juventus che dal 1930 al 1935 vinse cinque scudetti consecutivi.
Pozzo, grazie ad una difesa ferrea e a un fulminante contropiede (più o meno come quello di Bearzot nel 1982), vinse due mondiali (1934 e 1938) e un'Olimpiade (1936).
C'è da ricordare, però, che nel 1934 il contropiede degli azzurri era orchestrato da un italo-argentino, Mumo
Orsi. Orsi è stato probabilmente l'ala sinistra più forte di tutti i tempi, a causa del quale il nostro
Felice Levratto perse il posto in nazionale dopo 30 presenze. L'asso della Juventus era anche un suonatore di violino: quando scendeva ai bagni a Spotorno il violino, per memorabili notti di tango ai Bagni Premuda, era quello del padre di Bruno Marengo, futuro sindaco della cittadina, ma soprattutto futuro stopper della squadra locale.
Herbert Chapman deve essere ricordato anche come l'inventore delle radiocronache, subito imitato dal nostro Nicolò Carosio.
Gli inglesi giocavano con il sistema WM, disdegnavano i mondiali credendosi assolutamente superiori e sfidando in una partita secca la vincitrice del torneo iridato.
Toccò così all'Italia per due memorabili partite.
A Londra, stadio di Highbury (dove giocava il Tottenham) nel 1934: finì 3-2 per i maestri
in vantaggio 3-0 dopo 15' con Ceresoli capace di parare un rigore a Bastin e poi nel secondo tempo doppietta di Meazza.
A Milano nel 1939: pareggio 2-2 grazie ad una antesignana della mano de dios
di Maradona (mondiali '86 sempre a danno dell'Inghilterra) usata da Silvio Piola eseguendo una finta
semirovesciata.
Insomma: l'Italia di Pozzo non sfigurò ma i tempi giocavano a favore del sistema WM, applicato dalle nostre parti per primo dal Genoa, allenato proprio da un inglese, mister Garbutt, primo allenatore professionista nella storia del calcio italiano.
Non intendo approfondire questa fase e né porre le squadre che ho fin qui citato nel mio immaginario Pantheon
: non le ho viste giocare, se non attraverso qualche fugace spezzone di cinegiornale, e ne ho letto soltanto le cronache sia pure molto diverse da quelle attuali, intrise cioè di accurate valutazioni tecniche.
Scriverò più avanti, comunque, sull'evoluzione del giornalismo sportivo e sul modo di raccontare il calcio. Dalle descrizioni tattiche di veri competenti (ed ex-grandi giocatori come Ettore Berra e Renzo De Vecchi) fino alle lunghe disquisizioni sul contratto di Ibrahimovic o sulle notti brave
di Ronaldinho tanta acqua è passata sotto i ponti.
La mia personalissima ricostruzione dell'evoluzione tattica parte così dall'avvento del nuovo mezzo di comunicazione che avrebbe sconvolto il quadro che fin qui abbiamo delineato: la televisione.
Attraverso le immagini, rigorosamente in bianco e nero, abbiamo assistito per la prima volta ai Mondiali nel 1954: una folgorazione, una rivelazione davvero.
C'era una squadra grande favorita, l'Ungheria, che non perdeva da quattro anni schierata in maniera assolutamente moderna dal mago
Sebes, provvista di giocatori di altissima classe che poi in Occidente, o meglio in Spagna, avrebbero fatto assoluti sfracelli: eppure l'Ungheria perse la finale dalla Germania, una Germania che non aveva ancora vinto niente ma capace di mettere in campo una forza agonistica eccezionale (qualcuno mormorò anche di doping, ma lasciamo perdere…).
Il giorno della finale imparai un'altra grande lezione, dopo quella impartitami da mio padre con le bucce d'arancia: non era sufficiente essere i più bravi per vincere, in un torneo lungo e duro bisognava anche essere i più forti.
Torno però all'Ungheria anche per ricordare che nel corso del quadriennio tra i mondiali del '50 (vinti a sorpresa dall'Uruguay sul Brasile, favoritissimo padrone di casa) e quelli del '54 i magiari si resero protagonisti di una impresa senza precedenti: nel 1953, infatti, erano stati la prima squadra continentale a battere gli inglesi a domicilio. A Wembley, nel mese di Novembre, in una tipica giornata di nebbia londinese finì 6-3 per l'Ungheria. I giornali descrissero una squadra inglese comunque assolutamente all'altezza.
Ricordo la formazione di quell'Ungheria: Grocsis, Buzansky, Lantos, Lorant, Bozsik (l'on.Bozsik come era appellato da Carosio), Zakarias, Budai, Kocsis, Hidegkuti, Puskas, Csibor.
Le particolarità tattiche dell'Ungheria erano soprattutto due:
- la difesa in linea (con la numerazione danubiana, 2, 3, 4, 5 quindi con il 3 e il 4 al centro della difesa) più o meno come adesso con il 4-4-2 sviluppando già, in una dimensione mirabile, la cosiddetta tattica del fuorigioco
(tanto per