Didier E L’Anacoreta
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Book preview
Didier E L’Anacoreta - Gaston J. Algard
1
Dicembre, giovedì 12 tarda sera
Michel era felice per la Mountain Bike nuova. Un regalo dello zio per i suoi 12 anni. Quello che, tra un viaggio d’affari e l’altro, veniva ogni tanto a trovarlo. Erano più di tre ore che girava per i vialetti del parco. Guardò istintivamente lo Swatch, anche questo regalo dello zio. Erano già le 8 passate. Doveva tornare a casa, era buio da un pezzo. Non voleva rimproveri dalla madre.
Non fece il giro, ma passò per i prati. Sarebbe arrivato molto prima, direttamente alla gran curva, sulla strada asfaltata. L’avrebbe percorsa per cinquecento metri e, dopo una lunga discesa, sarebbe arrivato al villino in cui abitava. Si fermò sul bordo del marciapiede. Si guardò attentamente intorno. Nessuna macchina in vista. Un colpo di pedale e via. Seguì la curva ma, improvvisamente, sul rettilineo si trovò completamente al buio. Alcuni lampioni erano spenti. In fondo, verso la discesa, nuovamente la luce dove iniziavano le prime case.
«Così domani mi lasci solo…» disse Marius, mentre con la sinistra gli tirava giù la lampo dei pantaloni.
«Ti dispiace…?» rispose maliziosamente Claude al volante della Mercedes, facendo finta di nulla.
«Un po’… Siamo stati bene insieme questi due giorni, no…?»
La mano ora si muoveva lentamente dentro la stoffa, mentre lui s’inchinava.
«Stai attento, sto guidando…» ma la protesta non era sincera. Cercò di tirarsi indietro, per fargli più spazio tra lui ed il volante.
«Tu non ti distrarre, che la macchina è mia… Qui faccio tutto io…»
La Mercedes viaggiava veloce e silenziosa. La strada di quella verdeggiante zona residenziale era ben illuminata e deserta. Nessuno in giro. Erano tutti a cena. Claude era però distratto da altre sensazioni.
Si rese conto della curva all’improvviso. Sterzò bruscamente, rimettendosi in carreggiata. Ma, poche decine di metri dopo, si trovò nel buio più completo. Non ebbe il tempo di accendere i fari. Un colpo violento ed un rumore metallico gli rintronarono nella testa. Frenò di colpo, più per reazione che per volontà. Rimase bloccato dal terrore, le mani strette sul volante. L’auto era ferma nel buio. Il motore si era spento. Solo le luci di posizione erano accese.
«Che cazzo succede…?» disse Marius, mentre si comprimeva la testa sanguinante, colpita dal piantone dello sterzo. Cercò di guardarsi intorno, ma non vide nulla, mentre il sangue colava sul pantalone di Claude.
Quello non rispose, immobile. Intorno a loro tutto era silenzio.
«Non ne puoi parlare con tua moglie…?» borbottò innervosita lei.
«Forse non ti rendi conto Emilie… Io ricopro un incarico pubblico. Non posso divorziare…»
«E il tuo capo, allora…? Non è divorziato lui?»
«Sì, lo è, ma non è la stessa cosa… Io…»
«Io, io, io… Non sai dire altro Bert… Come se ci fossi solo tu, in questa situazione…»
«Non è la stessa cosa… Loro sono già arrivati… Io devo ancora salire… Lo sai bene. Ne abbiamo parlato mille volte. Non ti fermare alle apparenze. Lo so io come sono bacchettoni in quell’ufficio… Liberali a parole, ma nei fatti…»
Emilie si rincantucciò sul sedile, in silenzio. Bertrand continuò a guidare stizzito. Quella relazione andava troncata e subito. Emilie era pericolosa. Non solo per la sua famiglia, ma soprattutto per la sua carriera.
La BMW non superava i 50 chilometri all’ora. La strada era ben illuminata e deserta per l’ora di cena. Bertrand era un ottimo guidatore. Aveva vinto alcune gare sportive. Ma in città non correva mai, rispettava sempre la segnaletica. Era un uomo prudente Bert. Come in tutte le sue decisioni. L’unico errore era stata Emilie.
Arrivò alla curva e rallentò. Oltrepassata la curva si accorse che un tratto di strada era senza illuminazione. Rallentò ancora. Si vedevano solo le luci di posizione di un auto nel buio, ferma, più avanti. Non accese subito i fari, forse per un sesto senso. Emilie si scosse dal suo torpore, addrizzandosi sul sedile.
«Che succede Bert…? Perché ti stai fermando…?»
La Bentley andava a media velocità. Venne sorpassata da una Morris rombante che, al bivio, girò a sinistra dirigendosi giù verso la Senna. La Bentley passò l’incrocio e cominciò a percorrere la strada alberata, che continuava a salire. Sorpassò un edificio alla sua destra, coperto d’edera e circondato da un grande parco. Più avanti, in fondo ad un largo marciapiede, un piccolo spiazzo con un piccolo monumento. Continuò a salire.
Lasciandosi sulla sinistra il grande parco, girò ancora a destra, seguendo la curva quasi a gomito, arrivando sul rettilineo. Si trovò all’improvviso nel buio. Segnali lampeggianti, sulla carreggiata, indicavano di rallentare per un incidente. Quasi al centro dell’oscurità, un centinaio di metri più avanti, alcune auto con luci intermittenti erano ferme, i fari accesi verso la discesa. Sagome di persone indistinte in movimento, attraversavano i fasci di luce.
La Bentley rallentò, accendendo i mezzi fari, fermandosi a lato del marciapiede, una decina di metri dal gruppo. Il conducente scese. Si diresse lentamente verso di loro, mentre un’agitazione indefinita lo pervadeva. Più avanti gli sportelli posteriori di un’ambulanza si chiudevano. Sull’asfalto c’era una Mountain Bike. Più lontano una Nike bianca e blu da ragazzo, sporca di sangue.
Luglio, venerdì 4 tarda mattina
L’ispettore capo Agnès Didier era rientrata da poco in ufficio. Erano già le 12. Era stanca ed accaldata. Stanca, come chi lavora sedici ore di filato al giorno. Sudata, perché l’estate era finalmente arrivata. Gli altri stavano scendendo alla spicciolata per la colazione. Lei ne avrebbe approfittato, invece, per stare un po’ tranquilla a riordinare le idee. L’Ispettore Mulé, mentre lei si infilava di soppiatto nel suo ufficio, la salutò e la seguì.
«Qualcosa non va commissario…?»
«Perché…?» rispose Didier.
«Negli ultimi giorni sembra che voglia sfuggire tutti…»
«È la sua impressione. Sono solo un po’ stanca…»
Mulé cambiò discorso. Capì che Didier non era in vena di confidenze.
«Bell’ufficio…» disse guardandosi intorno, «certo, molto meglio di quel buco che aveva prima…»
«Solo un po’ più grande…» rispose lei distrattamente.
«Ha anche un piccolo bagno personale… Un lusso per pochi, qui da noi…»
«Vuole sapere come la penso, vero…?» chiese, guardandolo negli occhi.
«Se vuole, non è obbligata…» rispose Mulé sorridendo.
«Dopo le belle parole per la soluzione del caso Refus, ai piani alti poco è cambiato…»
«Vuol dire che si aspettava una promozione…?»
«Anche lei è convinto che, come donna, debba sempre accontentarmi…?» rispose, con tono un po’ acre.
«No… Ma dal giorno in cui è venuta qui da noi sono cambiate molte cose… In meglio. Quando è entrata come ispettore capo, era la più giovane dei colleghi e già loro superiore… L’hanno incaricata, anche se provvisoriamente, di fare le veci del commissario vacante, la cui nomina è ancora in "mente dei". Deve capire che non si può modificare la mentalità di decenni. Ora ha la stima di tutta la squadra… Non è facile accettare una donna, io per primo ero dubbioso, se ne ricorda…? E questo è già molto in polizia. Ancor più nella squadra criminale, dove a nessuno piace lavorare con delle mammolette… Non vorrei essere frainteso…»
Mulé aveva parlato con la solita brutale sincerità. Ma quello che le stava dicendo era vero.
«Ha ragione… La ringrazio per avermelo ricordato…»
«Sa che può sempre contare su noi tutti, ora. Adesso vado… Devo risolvere un paio di casi rognosi. Buon lavoro…»
«Arrivederci Mulé e… grazie…»
Sulla scrivania il fascicolo di Virgile Lacombe quasi vuoto la riportò ai problemi del quotidiano. In tutti quei giorni aveva tentato di dare un significato a quella morte, o meglio a quell’omicidio, ma senza risultato. Didier già si rivedeva nella sua soffocante vecchia stanzetta. Non aveva fatto alcun passo avanti da quando era stato scoperto il cadavere. Era passato più di un mese. Il direttore ancora non l’aveva chiamata, ma ci aveva pensato, per ben due volte, il giudice Polengue. Sembrava che dopo la soluzione del delitto Refus tutti si aspettassero miracoli da lei. Ma Didier non si considerava la donna dei miracoli. Solo un ispettore capo, facente funzioni di commissario, che aveva cento gatte da pelare per mandare avanti al meglio la sua squadra.
Kolinsky bussò alla porta ed entrò tutto allegro.
«Buongiorno capo. Ho scoperto finalmente i nomi dei rapinatori di Rue Belliard… Non è favoloso…?»
Didier gli sorrise, distogliendosi per un attimo dal problema che l’assillava.
«Come ha fatto…?»
«Fortuna, solo fortuna…» rispose ilare.
«Ne avrei bisogno anch’io… Almeno un po’…»
Kolinsky capì che qualcosa non andava. Conosceva ormai Didier abbastanza bene. Non era il tipo da preoccuparsi, senza un serio motivo.
«Se posso aiutarla…»
«Ha letto il fascicolo Lacombe?»
«Il morto dei quartieri alti…?»
«Sì.»
«Ricordo qualcosa… Mi ha detto che l’avrebbe seguito lei personalmente. Vuole una mano…?»
«Certo che voglio… altrimenti perché glielo avrei chiesto…?»
Si rese conto di aver alzato il tono della voce. Kolinsky non lo meritava. Era stato sempre un buon collaboratore, specialmente con lei. Ma Kolinsky le sorrise, come sempre.
«Crisi di notorietà, eh…? Succede, l’hanno già messa sotto pressione…? Non penseranno che abbia la bacchetta magica quelli di sopra…»
«Veramente il direttore non mi ha ancora chiamata. Ma il giudice Polengue sì… Due volte. Con il suo solito fare mellifluo…»
«Me l’immagino… Non accetta che lei sia brava e non le perdona di aver avuto un grosso successo… Aspetta solo che lei faccia un passo falso. È solo invidia… non deve darci peso. Altrimenti non campa più…»
«Forse ha ragione, ma sono fatta così. Odio essere presa di contropiede. Ed ancor più, odio non riuscire…»
Kolinsky, che era rimasto in piedi, si sedette. Aprì il fascicolo e lo esaminò attentamente, in silenzio.
«Non abbiamo nulla… Ha ragione lei… Sarà il caso che ci dedichiamo un po’ di tempo, non le pare…?»
«Domani è sabato. È in servizio…?»
«Sempre, se me lo chiede lei…»
Si alzò e, salutandola con la mano, uscì sorridendo.
2
Luglio, Sabato 5 mattina
La mattina verso le 9 Kolinsky e Mulé erano nell’ufficio di Didier. Kolinsky aveva pensato che l’esperienza di Mulé sarebbe stata preziosa. Così gli aveva chiesto il favore di partecipare alla riunione. Quello che aveva letto nel fascicolo Lacombe non l’aveva entusiasmato per niente. Il caso si presentava difficile. Non voleva che Didier fallisse.
Dopo aver letto le carte Mulé sentenziò:
«Forse mi sbaglio, ma qui ci vorrebbe il fiuto di Demonfort, ma è in ferie… Tornerà ai primi d’agosto. È in giro con il suo camper, chissà dove…
«Non sia disfattista Mulé, per favore… Già sono così avvilita…»
«Non la riconosco più… Dov’è finita la sua grinta dei primi giorni…?»
«C’è sempre, ma devo confessarle che ho già fatto due visite nell’appartamento di Lacombe e non riesco a trovare nulla per scoprire l’assassino…»
«La scientifica…?» intervenne Kolinsky.
«Nulla di nulla… Ha letto anche lei il rapporto… Non c’è un’impronta che non sia quella del morto…»
«Un professionista, allora…» risposero quasi in coro i due.
«Forse… Ma Lacombe sembra l’uomo del mistero. Benestante e solitario… Niente amici, niente parenti vicini, niente donne… Niente di niente…»
«Ma come viveva, allora…?» intervenne Kolinsky.
«Da anni da solo…, in quel villino dove è stato trovato…»
«Vuole che veda un po’ in giro, tra i miei informatori…?» propose Kolinsky, «e faccia quel tipo di ricerche che l’hanno fatta tanto irritare