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Caffè in ghiaccio
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Caffè in ghiaccio

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About this ebook

Dove, come, quando e perché. Ma soprattutto chi.

Forse per definire la trama di questo romanzo basterebbe rispondere a queste semplici domande. Solo forse, perché quando si tratta di sentimenti ed emozioni i contorni sono sempre molto sfumati.

Il dove è un piccolo lembo del Salento. Una manciata di terra rossa tra Gallipoli, Sansimone e Rodogallo, il “luogo delle belle rose”.

Ma ulivi, vigneti, sassi e mare fanno da sfondo anche ad un altro dove. Le quattro pareti di una stanza d’ospedale.

In un’altalena di passato e presente, di nord e sud, di dentro e fuori la sala di rianimazione, una figlia esplora se stessa e soprattutto la propria madre.

Un malore inaspettato interrompe un quieto vivere silenzioso e la protagonista è costretta a recarsi al capezzale della madre in quella terra di dolmen e menhir tanto amata e odiata. Vecchi rancori, nodi non risolti, carezze mai date, abbracci pietrificati. E soprattutto una lettera rubata che aveva alterato il corso di un destino allontanando un giovane amore.

L’entrata in coma sembra non dare più possibilità di soluzioni. Sembra non dare più spazio alle parole non dette. Si aspetta sempre il tempo opportuno per farlo e all’improvviso quel tempo non c’è più.

Ma lei non ci sta. E inizia il gioco dell’inganno al tempo e alla morte.
LanguageItaliano
Release dateJun 7, 2015
ISBN9786050386080
Caffè in ghiaccio

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    Caffè in ghiaccio - Ada Venturelli

    Farm

    1

    Si diventa adulti solo quando si perdonano le colpe dei propri genitori.

    Non ricordo chi ha detto questa frase, e non mi sforzo neppure di ricordare perché ora mi appartiene. 

    Non ricordo quando l’ho udita o letta, mi torna in mente così, fra miliardi di frasi dette da qualcuno, e miliardi di frasi udite in un quando che non ha importanza.

    Emerge così, in punta di piedi, semplicemente facendosi strada tra la nebbia della memoria in un adesso contratto come un buco nero. In un qui e ora rarefatto, seguo con lo sguardo la goccia che lentamente cade dalla bottiglia di vetro a testa in giù, scorre nel sottile tubo di gomma, s’insinua nel freddo ago d’acciaio e penetra nel dorso della tua pallida mano.

    E’ un tutt’uno trattenere il respiro, contrarre l’utero, trasalire per un attimo infinito come se la punta acuminata dell’ago, bucasse la mia di carne, la mia di anima. Invece s’incunea nel rigonfiamento bluastro di una vena martoriata, a mala pena trattenuta da una pelle trasparente, più sottile e delicata di un foglio di carta velina.

    Vorrei soffiare su questa carta velina, come quando facevo da bambina dando vita a farfalle colorate che volavano leggere nell’aria.

    Forse vorrei anche dirti di lasciarti andare, se è quello che desideri, ma un dolore impossibile continua a premere sul petto impedendo all’aria di uscire, di contribuire a formare una parola qualsiasi.

    E’ un atto d’amore che ancora non posso fare. Lasciarti andare.

    Le condizioni della paziente sono stazionarie, ma si prepari al peggio, l’esito fatale.

    Il giovane medico, protetto dal camice bianco che non deve far transitare emozioni tenendole sequestrate nella trama della stoffa, sta in piedi davanti a me. Un ciuffo liscio, quasi unto, gli ricade sulla fronte. Lo scosta veloce con la mano, mentre guarda fisso la cartella clinica senza leggerla. Tutto, pur di non incrociare i miei occhi. 

    Ma io guardo lui, fissa, impietosa, trapanandolo fin dove possibile. E anche di più.

    Giusto un secondo d’incertezza, solo uno, forse dovuto all’età non ancora troppo insensibile e dura. Un tremito impercettibile della voce, i piedi inchiodati al pavimento suo malgrado, l’ondeggiare del tronco, verso di me, lontano da me. 

    Non vuole rimanere ma non può andarsene. 

    Poi eccolo finalmente, lo scatto liberatorio, il voltarmi bruscamente le spalle in una fuga affrancante.

    E’ passato alla paziente successiva, quella del letto 17 con il diabete. Un caso semplice.

    Intanto, la paziente del letto 16, è invece mia madre.

    Quel numero rosso stampigliato sulla targhetta, è mia madre, incosciente da due settimane.

    Vorrei corrergli dietro e dirglielo.

    Vorrei anche dirgli, che il suo concetto del peggio può essere discutibile e del tutto relativo rispetto alla sofferenza. A volte è decisamente peggio vivere. Ma soprattutto, vorrei prenderlo per il candido bavero e scuoterlo fino a fargli male. Semplicemente per vedere se esce fuori qualcosa dalle sue vene. Vorrei dargli del codardo, del falso e del bugiardo. L’asettico termine esito fatale, si traduce nell’impronunciabile parola: morte.

    Morte. MORTE. Morte. MORTE. Morte. MORTE.

    Neppure il coraggio di chiamare le cose col loro nome, come se così ripulite e candeggiate facessero meno male. Non fanno meno male.

    In una sola frase, era stato capace di tre menzogne.

    Ma io non sono migliore.

    Guardo le piaghe da decubito, crateri rossastri e purulenti e ne provo disgusto. Per poi provare disgusto per me stessa per quel sentire. Guardo i lividi sulle braccia inerti, massacrate dalle troppe flebo, guardo quella bocca senza denti, con le labbra perse in una voragine oscura. Labbra che forse non avrebbero mai più parlato, che non mi avrebbero mai più detto ciò che aspettavo da anni, da una vita intera.

    La lastra di cristallo del carrello, dove è appoggiato il monitor dei parametri vitali, scompone in mille colori un raggio di sole sfuggito alla sofferenza. E un arcobaleno traballante si posa sulla tua camicia da notte troppo sollevata e sul pannolone.

    Un ignobile pannolone troppo largo e indiscreto, su un’intimità malamente celata agli occhi di tutti. 

    Proprio tu, che sei sempre stata così pudica. 

    Un invadente pannolone da cui proseguono delle gambe aperte, afflosciate su se stesse, affossate nel ruvido lenzuolo. 

    Proprio tu, che sei sempre stata così composta.

    Ti copro, come meglio posso. Facendoti scudo col mio corpo.

    Dov’era il rispetto, la decenza, la dignità di tutto quello che il giovane medico riteneva meglio dell’esito fatale?

    Punti di vista, soltanto punti di vista.

    Forse dovrei fare l’unica cosa che ha un senso, chiederlo a te.

    Chiedere a te, madre mia, qual è il tuo punto di vista, la tua verità.

    Ma non lo faccio, non sono pronta.

    E non m’interessa.

    Io, ti voglio ancora qui, e tu lo sai.

    ***

    Terra senza mezze misure, ora dolce, ora amara, ora avvolgente come un tenero abbraccio, ora crudele come il rifiuto di un figlio.

    Terra tormentata da sempre, quella parte del Salento che si tuffava nello splendido golfo di Gallipoli. I latini la chiamavano Lapis siccus, terra arida. I monaci basiliani Anaforario, altura deserta. E i greci bizantini Ortolithon, alto lido.

    Per me era soltanto tornare a casa, anche se non era casa mia, ma quella di mia madre. E per entrambe avevo un attaccamento viscerale, nel bene e nel male.

    Per essere precisi il tornare a casa consisteva nell’essere spedita, almeno da piccola, nel minuscolo villaggio di Sansimone che all’epoca non era neanche segnato sulle cartine. 

    O sapevi dov’era o non ci arrivavi. 

    E solo gli emigranti, o figli d’emigranti, o nipoti d’emigranti, lo potevamo raggiungere. Si trattava di una manciata di case bianche nell’entroterra, circondate da vigneti e uliveti. Giardini con aranci, limoni, mandorli e melograni. Profumo di menta e di fiori del cappero. Poche strade sterrate e polverose, percorse da semplici anime contadine che la sapevano lunga su molte cose. Soprattutto sul come vivere in armonia con la natura e la terra per quanto ostili possano essere. Io amavo andarci, semplicemente perché rispetto all’hinterland milanese, mi sembrava il più bel posto del mondo. Anche perché potevo andare in giro a piedi nudi, e da sola.

    Ma erano gli anni sessanta, in cui tutto era ancora in divenire. Anche le nostre vite.

    Per te che eri appena diventata madre, per me che ero appena diventata figlia.

    ***

    E’ accaduto tutto così in fretta, come per tutti gli incidenti. E in un attimo, il tempo che prima pareva infinito, all’improvviso non c’è più. In un attimo tutto cambia.

    Un’emorragia cerebrale e tu cambi. Ci sei e non ci sei. 

    E lo scorrere della vita, su comodi binari ordinari in pianura, di colpo impazzisce precipitando a folle corsa nel vuoto. E non c’è nulla a cui aggrapparti nell’attesa dello schianto.

    Salvo quella sottile folle idea, subito soffocata, che forse potresti spiegare le ali e volare.

    Ero terrorizzata quando ho ricevuto la telefonata. Terrorizzata di non fare in tempo. In tempo per cosa? In una frazione di secondo mi sono passate davanti agli occhi, miliardi di parole che volevo avere il tempo di dirti. Le ho ripassate nella mente, più e più volte, per tutto il tragitto del treno.

    Tu mi hai aspettata. 

    Adesso sono qui davanti a te, accanto al tuo letto. E non ne sto dicendo nessuna. Impietrita.

    Dicono che comunque non puoi sentirmi. No, non è vero. Inoltre non può essere un alibi per ricacciarle nel silenzio.

    Frugo, cercando qualcosa di sensato, qualcosa che ricorderai al risveglio e di cui potremo discutere o far finta di nulla se preferisci, ma è il vuoto.

    Allora vado indietro.

    Forse è vero che conosciamo il nostro futuro, anche se non ne siamo consapevoli.

    L’ultima volta che ci siamo salutate, c’era qualcosa che mi tratteneva. Non volevo partire e continuavo ad essere indecisa sulla data della prenotazione.

    Ho rimandato fino all’ultimo. Ultimo giorno. Ultimo treno. Ultimo istante.

    Ma ancora non andava bene e mi sentivo profondamente disturbata. Quel trattenermi un momento di più mentre ti guardavo negli occhi, e quel brivido lungo la schiena presto scrollato come un pensiero fastidioso. In fondo, era solo un saluto come ce ne erano stati a migliaia da quando ero andata a vivere altrove, e come di certo ce ne sarebbero stati tanti altri ancora. Ho girato le spalle di scatto, quasi con violenza per non cedere a un’ansia inspiegabile, e ti ho lasciata scrutarmi sulla porta.

    Il tuo sguardo era diverso, e io non ho saputo interpretarlo.

    2

    L’ultima volta che ho sentito la tua voce era San Valentino. Neanche volevo chiamare. Ma l’ho fatto. Ringrazio Dio per questo. Perché le nostre ultime parole sono state un augurio.

    Ma ce ne saranno altre vero? Adesso le stai solo cercando. Io ti aiuterò, per ora ascolta le mie.

    Vorrei essere migliore, non degli altri in una gara che non esiste, ma soltanto di me stessa. 

    Migliore di ciò che ero ieri, migliore di ciò che ero cinque minuti fa. Semplicemente migliore di prima. 

    Niente da fare, non mi riesce. Non mi riesce di toccarla, non ce la faccio neppure per sbaglio. Le mie mani rimangono immobili, serrate in un pugno che mi conficca le unghie nella carne.

    Rabbia e rancore per tutto quello che era stato. O soltanto timore che attraverso il contatto dei nostri corpi e della nostra pelle, mi sarei persa, fusa con lei, morta insieme a lei.

    Dovevo sentirmi separata, per poter sopportare la separazione.

    Vorrei essere migliore, ma non ci riesco.

    Le piaghe purulente mi fanno ribrezzo e mi fanno ribrezzo la devastazione del corpo, l’odore della decomposizione e della vecchiaia. Di ciò che forse sarei stata.

    Ho ribrezzo di me. Mi sento miserabile in una pochezza senza fine. Mi viene da vomitare.

    Ai piedi nudi di una Madonna, la luce della tremula fiammella di un lumino rosso, si riflette sul lucido pavimento di marmo chiaro dell’uscita dell’ospedale. E sul mio volto, a sua volta riflesso sulla vetrata del pronto soccorso.

    Siate una luce nelle tenebre, ma non maledite le tenebre, perché sono loro a permettervi di essere la luce.

    Forse, ma continua a venirmi da vomitare.

    E vorrei essere altrove. Lontana da questo reparto, da quest’ospedale, da questa terra.

    Da me stessa.

    C’è compassione sul volto levigato della Grande Madre, lo sguardo è dolce e amorevole, le braccia aperte ad accogliere chiunque. Mi piace pensare che ci sia posto, anche per quelle come me. Per quelle che non sanno andare oltre i limiti, e vedono il proprio orrore, semplicemente come orrore. Per quelle che non sono in grado di benedire la propria bruttezza. Nonostante sia proprio quella a permettere di vedere, in un incastro perfetto, il proprio splendore.

    Le labbra di Maria sono accostate come per sussurrare qualcosa, in un’espressione di misericordia e tenerezza.

    Quasi non mi accorgo, di tendere l’orecchio per catturare suoni che non ci sono. Vorrei che mi dicesse qualcosa, magari di non avere paura. Ma non me lo dice, sento solo il suono dell’ennesima ambulanza che arriva a sirene spiegate. Inoltre la sua bocca è anche seria, troppo seria. Inutile cercare nella memoria, il ricordo di un’immagine sacra sorridente a cui aggrapparmi per farmi scaldare il cuore.

    Era così che gli uomini vedevano il divino? Completamente privo di gioia, meno che mai di senso dell’umorismo? Forse perché pensano, che guardando l’umanità, non ci sia niente per cui sorridere e ancor meno per cui ridere. Eppure, se fossi Dio, non potrei fare a meno di sorridere con tenerezza dell’ immensa goffaggine con cui ci muoviamo nella vita. Di quella capacità umana di rendere difficile, doloroso, pesante e serio, tutto quello che invece con un sorriso sarebbe leggero, gioioso, divertente e facile. Troppo amanti del melodramma e della tragedia.

    Se fossi Dio riderei tanto. Non di noi, ma con noi.

    Ma non sono Dio, e in certi momenti non so neppure se esiste. E questo è uno di quelli. Non ho voglia di sorridere, in questo luogo di dolore che mi contrae i muscoli del viso in una maschera grottesca. Non riesco neanche a respirare, in quest’aria di sofferenza che l’odore del disinfettante non purifica, ma rende solo più densa.

    ***

    Invece, l’aria fuori è fresca, pulita, quasi inebriante. E la mia mente vaga.

    Amavo e odiavo quei luoghi, quella terra, quella tramontana sferzante, quello scirocco persuasivo e seducente. 

    Quel Salento così delicato e violento. 

    Quel Salento così pudico da aver nascosto così bene i propri balli, da farli sembrare quasi inventati al loro apparire ad ogni sagra estiva. Non avevo mai visto ballare la pizzica. Forse perché non c’erano mai state sagre estive.

    Desideravo e respingevo quel Salento così misterioso e sfacciato. Tanto remissivo quanto arrogante.

    Mi apparteneva e non mi apparteneva.

    C’era nata mia madre, non io.

    E non avevo radici, se non quelle costruite attraverso di lei.

    Eppure erano state sufficienti a tenermi stretta in un legame indissolubile, quasi feroce. Nonostante cercassi di reciderle per poter trovare le mie. Ogni anno me ne andavo, tuonando che non sarei mai più tornata, e ogni anno tornavo, incapace di stare altrove. Ma solo perché sapevo, che sarei ripartita. Così da sempre e per sempre.

    Quei posti erano la mia prigione, il mio limite, il mio confine. Ma anche il mio trampolino di lancio. Allo stesso tempo, sapevo che da nessun altro lembo di mondo, avrei potuto spiccare il volo. Solo lì, c’era quell’energia potente, sacra e misteriosa che mi permetteva di farlo.

    Ritornavo solo in agosto, per andare a trovare nonni e zie, e soprattutto per concedermi qualche giorno di vacanza al mare. Niente mi ammorbidiva di più del caldo sole di quel sud, i cui geni mi scorrevano nel sangue scolpendo la mia figura. Di quei colori che dipingevano la mia anima, pennellata dopo pennellata. Di quei suoni che scandivano i battiti del mio cuore, ma che contemporaneamente mi erano così sconosciuti, lontani, stonati.

    Poi, e solo poi, potevo andare altrove. Magari anche una meta lontana, il più possibile lontana. Ma sapevo bene che se non fossi tornata, anche per un solo giorno, in quella manciata di chilometri di sassi, rocce, vigneti e mare, non sarei mai andata veramente da nessun’altra parte.

    Il triangolo compreso tra Sansimone, Sannicola e Conchiglie era il centro della mia pancia.

    L’ombellico della mia esistenza.

    Che mi piacesse o no.

    E adesso l’incidente mi costringe a tornare fuori stagione. Che mi piaccia o no.

    Ogni incidente è sempre fuori qualche cosa, fuori comprensione, fuori fase, fuori tempo.

    Lei mi costringe a tornare. Perché è anche il centro, della sua, di pancia.

    La terra trema sotto i miei piedi, scossa da un violento terremoto che mi destabilizza, disorienta, ma che forse, mi farà anche uscire dal solco.

    Come ogni nascita preceduta da dolorose spinte.

    E già comincia ad essere tutto diverso, da non farmi riconoscere quasi nulla. Dentro e fuori di me. 

    Le sterpaglie inaridite, hanno lasciato il posto a prati di un verde brillante che si estendono a perdita d’occhio. E malva, calendula, margherite gialle, giunchiglie, lambiscono il ciglio della strada nascondendone e ammorbidendone i margini. In alcuni punti, fendendo persino l’asfalto, con ostinazione e forza.

    E ciò, che era sempre stato più simile ad un paesaggio africano, si modifica in un inaspettato scorcio d’Irlanda. Non poteva essere la stessa terra assetata e riarsa della mia memoria!

    Non puoi essere tu madre, quella materia che dicono senza pensieri e senza sogni!

    Non puoi essere tu madre, questa donna indifesa e vulnerabile su questo letto estraneo che ti avviluppa senza scaldarti! Non ti riconosco!

    Ma in fondo, non ti ho mai conosciuta. E forse sono qui proprio per questo, per conoscerti di nuovo. E per adesso, non posso fare altro che mettere i miei piedi, sui tuoi passi. Ricostruendo un tracciato che mi porti da te. Per impedirti di andare via.

    3

    Invece il Salento lo conoscevo da sempre, eppure non mi bastava mai.

    Ogni volta, con lo stupore di chi vede tutto per la prima volta in una girandola di odori, colori, suoni sconosciuti. E forse era proprio così, nonostante ci fossi quasi cresciuta fra quegli scorci magici. Quantomeno nella primissima infanzia, e poi tra gli intervalli scolastici. Più di tre lunghi mesi ogni anno, in cui venivo spedita dai nonni mentre i miei genitori continuavano a lavorare nella grande periferia milanese. La scuola all’epoca iniziava solo il primo ottobre. Invariabilmente il primo ottobre, creando un punto fermo nella mia esistenza, a meno che non capitasse di domenica. Ed era così per tutti i bambini, accomunati dallo stesso punto fermo dell’esistenza, dall’identico destino senza distinzioni regionali.

    Benché all’epoca non si sapesse esattamente neppure dove fossero Le Puglie, e la specificazione Salento ancora tutta da inventare perché dove ero nata il sud consisteva essenzialmente nella Sicilia e Calabria, le vacanze a Sansimone frazione di Sannicola provincia di Lecce erano un altro importante punto fermo della mia esistenza.

    Poche case, poche anime, poche strade. Impossibile perdersi e non conoscersi tutti. Io ero la nipote te la Ndata e te lu Cilormu, quella di Milano, quella del nord, la polentona. Così come invece a Milano ero quella del sud, la terrona. La figlia di emigranti che avrebbero dovuto starsene al loro posto. E un certificato di nascita nordico, non rendeva le cose più semplici, né al nord, né al sud.

    Sempre fuori posto a seconda del posto.

    Una senza patria, condannata ad un eterno viaggio in cerca del porto. Senza sapere che avrei continuato a non avere patria pur toccando terra. Dove avrei continuato ad essere considerata, o non essere considerata, questo o quello a seconda del punto di vista.

    L’aria profuma di narcisi selvatici che a chiazze bianche e gialle, si arrampicano su un costone appena pronunciato. Una serra, che poco lontano decide di tuffarsi con grazia nel blu del mare. Fa freddo e una folata di tramontana, resa più aspra dal contrasto con l’eccessivo calore dell’ospedale, colpisce come uno schiaffo. Devo scuotermi, trovare una sistemazione per un soggiorno che non sarà breve. O forse sì. Il vento pungente è carico di resina e fa svolazzare i capelli ribelli davanti al viso, e una rabbia contenuta, li raccoglie in una crocchia tenuta insieme da una penna rimediata dal fondo della borsa. Avrei voluto tenere a bada allo stesso modo, anche i pensieri e le emozioni che si agitavano nella mente e nel petto.

    Mia madre stava morendo, e io l’odiavo anche per questo.

    Di nuovo non avevo un posto, di nuovo non sapevo dove andare.

    La vecchia casa disabitata dove era nata, sembra chiamarmi. A Sansimone. Dove un tempo, era impossibile perdersi.

    Forse, ancora una volta, avrei trovato un punto fermo. E una sua impronta per poterla raggiungere.

    4

    Cerco un punto fermo anche fra le corsie dell’ospedale correndo ogni momento dietro ad un medico sempre diverso, perché non trovo mai quello del momento prima. Devo ripetere le stesse cose, le stesse domande a chi frettolosamente guarda una cartella e dà le stesse risposte senza ascoltare.

    Cerco di dire chi sei, del tuo passato, quantomeno clinico. Sono certa che potrebbe aiutarli. Ma hanno fretta e non riesco mai a finire la frase. E io mi devo fidare, anche se non mi fido di chi non ascolta.

    E di chi non ti guarda negli occhi mentre parla.

    Se stai davvero così male, perché non ti portano in terapia intensiva, oppure, perché non ti portano in un posto dove tu possa morire in pace, magari lasciarti andare a casa? Invece no, ti lasciano lì in una sorta di limbo, di terra di nessuno. In attesa.

    E io aspetto, insieme a te.

    Ricostruendo un passato che non conosco. Cercando punti fermi che non esistono su una zattera in mezzo al mare in tempesta. Cercando di riconoscere qualcosa quando neppure lo spazio o il tempo sono mai gli stessi.

    Una volta Sansimone era separato dagli altri paesi circostanti, e le distanze parevano infinite anche se si trattava al massimo di un chilometro o due. Il percorrerli richiedeva un tempo dilatato, scandito dal rumore dei propri passi, dal cigolio regolare di una catena di bicicletta, dallo scalpitio bizzarro di un asino. E’ buffo come ripercorrendo la stessa distanza in pochi secondi, comodamente in automobile, paradossalmente sembri di non avere tempo, come se la velocità sottraesse qualcosa invece di aggiungere. Forse il tempo necessario per esserci.

    Adesso il tempo pare essersi inchiodato, a te in questo letto e a me su questa seggiola di ferro. Dilatato all’infinito, affinché gli strappi nella tela della vita, possano essere ricuciti.

    Ma non so come fare. Cosa dire. Siamo state in silenzio troppo a lungo.

    E allora il cielo parla per noi. Infuria un temporale e i lampi rischiarano il tuo viso conferendogli tratti surreali.

    Piovono enormi lacrime e i tuoni rimbombano nella stanza. Non avere paura, sono solo gli angeli che giocano a palla.

    5

    Almeno fino agli anni ottanta, il chiavistello era sempre stato allo stesso posto. 

    Bastava infilare la mano in un buco dell’enorme portone verde della rimessa, girarla verso l’alto a destra, e raggiungere il muro dove era appeso. 

    Tutto il paese lo sapeva, era così e basta. 

    Tutti sapevano dei chiavistelli di tutti, e nessuno li toccava se non in caso di emergenza. E il più delle volte non ce n’era neanche bisogno, perché porte e portoni erano comunque sempre aperti. Si entrava e si usciva dalle case anche quando non c’era nessuno. E magari, se era San Martino o sotto Natale, si lasciava sul tavolo un piatto di pittule appena fritte, che profumavano l’aria lasciando un segno del proprio passaggio.

    Deve essere stata dura per te imparare a chiuderti in casa a doppia mandata. Lasciando fuori disprezzo e ostilità. Al nord faceva freddo e forse per difesa, ti si è gelato un po’ anche il cuore.

    Invece, in un paese così piccolo come Sansimone, si era un po’ tutti parenti. E non era raro scoprire, anno dopo anno, qualche cugino mai visto di chissà quale ordine e grado. Specialmente ai matrimoni e funerali. Oppure venire a sapere di quella zia un po’ originale, rinchiusa in manicomio da decenni.

    Da tante rimesse in cui si accatastava un po’ di tutto, carri, carretti, biciclette, si accedeva poi alle stalle. E la presenza di asini e muli, veniva anticipata dal puzzo che arrivava in strada. I cavalli erano rari, forse solo qualche signorotto del comune principale ne possedeva uno. Cioè solo a Sannicola, il paese di Starace, come diceva il nonno con aria pomposa. Alludendo al fatto che lì erano più ricchi e privilegiati, e avevano avuto appunto, anche un personaggio storico importante. L’unico. E rafforzandone anche le due enne per non confonderlo con il vicino San Nicola di Bari.

    Scritto staccato. Altra storia. Altra terra.

    Varcati i portoni, molto più probabile era invece accedere a cortili interni con pollai e conigliere, anch’essi anticipati da forti odori e altrettanti schiamazzi. Oppure ancora, per i più fortunati, a giardini colmi di aranci e limoni. Mi affascinava questa struttura che lasciava spazio a scoperte inaspettate come in una sorta di scatola cinese. Dalla strada, le case della gente comune, erano tutte uguali, una attaccata all’altra senza soluzione di continuo, usufruendo ognuna delle mura portanti dell’altra.

    Ma oltrepassati gli ingressi, si apriva un mondo nel mondo.

    Un mondo che destava meraviglie inattese, molto di più di quello prevedibile dei più ricchi che avevano la villa fuori paese. Un mondo forse fatto di niente, magari solo di un nespolo o di un melagrano cresciuto in un cortile impossibile. 

    Un mondo contadino in cui non ero nata e che non conoscevo, che si svelava a me con parsimonia portone dopo portone, ma che estate dopo estate, forgiava quella parte di anima che affondava le sue radici in quei solchi d’argilla rossa. Un mondo contadino che forgiava il mio cuore facendomi amare la terra, senza avere paura di sporcarmi le mani e sentirla sotto le unghie o in bocca.

    ***

    Vorrei avere adesso, un po’ di quel coraggio, mentre la morte ti ciondola intorno. Dicono. Anzi, non dicono, il che è anche peggio. Ma non oserà avvicinarsi, finché ti farò scudo con le mie parole.

    E’ ancora presto, e io sono ancora nella fase in cui prego perché tu guarisca.

    La signora della stanza accanto dice che ci sono vari livelli. 

    Nessuno può attraversarli al posto nostro ed è necessario immergersi fino in fondo. 

    Non ho capito cosa intendesse con il patteggiamento con Dio, e lo stadio in cui si prega soltanto perché la sofferenza finisca. La sofferenza di chi giace nel letto, ma anche la propria. Lo stadio in cui s’invoca la morte come una benedizione. E il mantello della Nera Signora diventa una calda coperta in cui avvolgersi.

    Ma tu guarirai, perché ho un conto in sospeso con te.

    ***

    Sono a casa, la tua casa, dove tu sei nata. Dove forse hai imparato a guardar trascorrere il tempo facendo crescere la tua parte di amarezza e severità. Sono fra queste mura scrostate, cercando qualcosa che non trovo. Forse il tuo profumo.

    Nella rimessa tutto è come lo ricordavo, anche lì ogni cosa al posto di sempre. La basculla vicino agli orci delle olive, e all’erogatore di stagno per il verde rame. I finimenti dei muli, di un cuoio ormai rinsecchito, le forbici per potare la vigna, la falce per il grano. E il quadro stinto della Madonna della Lizza. Un’ infinità di santi e santini, rosari e crocefissi, raccolti nel susseguirsi dei decenni e mai gettati via. In bella mostra di sé, appesi dietro il portone.

    Niente è cambiato.

    Solo un insolito silenzio rende tutto diverso.

    Erano anni che non ci abitava più nessuno e con la morte dei nonni, quella parte di abitazione era stata data in eredità ad uno dei due figli maschi. Come voleva la rigida tradizione. Abitando lontano, non se ne era mai occupato, lasciando che il degrado e l’abbandono la ricoprissero di ragnatele e polvere. L’altra metà di casa, era andata al secondo figlio maschio che invece l’aveva ristrutturata, cambiandola completamente. Certo, ora c’era un comodo bagno interno al posto del riparo di legno nel cortile, e c’era anche della candida carta igienica al posto degli stracci ricavati da abiti dismessi. Per anni, ho dovuto persino ringraziare per la fortuna di quel bagno alla turca celato agli sguardi da una semplice tendina, perché i più, si dovevano accontentare di fosse nella nuda terra.

    Ma i cambiamenti erano stati davvero tanti, troppi.

    Il pollaio era diventata una stanza da letto, l’enorme camino, dove la nonna aveva cucinato tante volte fave e cicoria di campo, si era trasformato in un ridicolo caminetto da salotto del tutto inutile.

    Inoltre, delle belle mattonelle di ceramica lucida, erano state sovrapposte al pavimento di semplice cemento ruvido che, sempre la nonna, riusciva a tenere impeccabile soltanto col sudore. Per quanto tutto fosse stato rimodernato, abbellito, adeguato ai tempi, non riuscivo proprio a farmelo piacere. Tutto era stato solo depredato, deformato, sventrato.

    Io stessa mi sento sventrata.

    Ma come in una sorta di giustizia universale, mentre i suoni della vita erano stati inghiottiti dal baratro del tempo, gli odori no. Miracolosamente sopravvissuti continuano ad impregnare l’aria, le crepe delle pareti, le molecole di tutto, insinuandosi come un balsamo in ogni piega dell’anima. E lei, la grande pila testimone di tante vendemmie, emana ancora profumo di mosto. Lo ha trattenuto caparbiamente come un prezioso tesoro, nelle fessure delle sue assi di legno su cui tanti piedi nudi si sono susseguiti a pigiare l’uva. E anche le anfore sbeccate, riverse contro il muro bianco in una posa inanimata, sanno ancora d’olio dorato, di frise appena cotte, di fichi secchi, di olive nere sotto sale, di capperi sott’aceto, di mandorle con l’alloro.

    E ti vedo madre, sollevare la gonna a fiori e saltellare sui grappoli maturi. Negro amaro, malvasia, uva rosa, cardinale, tarantina, moscato,

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