Indicatori biologici di depressione nel ratto selvatico sottoposto a stress sociale
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Questo paradigma sperimentale di induzione e quantificazione dei sintomi della depressione prevede di sottoporre ratti selvatici ad un episodio sociale traumatico (sconfitta e subordinazione) seguito da un periodo prolungato di isolamento sociale. Tale modello rappresenta una procedura innovativa in quanto utilizza una condizione realistica e tipicamente riscontrabile nell’uomo.
Inoltre, è basato sulla quantificazione di un’ampia gamma di comportamenti (esploratività, aggressività, ansia, anedonia) e parametri fisiologici (frequenza cardiaca, stato della bilancia simpato-vagale, incidenza di aritmie, temperatura corporea, ritmi biologici, concentrazioni plasmatiche di corticosteroni), in grado di rappresentare un set di indicatori affidabili dell’avvenuta instaurazione di una condizione di tipo depressivo.
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Indicatori biologici di depressione nel ratto selvatico sottoposto a stress sociale - roberta capone
Bibliografia
Introduzione
La depressione è considerata uno dei mali più subdoli che affliggono la nostra società. Difficile da diagnosticare con esattezza, difficile da curare. La complessità del problema dipende dal fatto che non si tratta solo di una patologia (il cui campo sarebbe di totale competenza della medicina), ma di una situazione esistenziale in cui si intrecciano
- uno stato fisico patologico (componente fisica)
- uno stato psichico patologico (componente psichica)
- scelte di vita errate (componente esistenziale)
- vissuto di situazioni negative (componente reattiva)
A seconda della miscela delle quattro componenti si genera una forma depressiva.
Si stima che nel nostro Paese siano circa 5 milioni gli italiani che soffrono di depressione, anche se il bilancio è certamente superiore se si considera che il 50% dei casi non viene diagnosticato.
La fascia di età più colpita è quella tra i 45 e i 64 anni, ma anche i più giovani sono purtroppo interessati, con il 7% degli adolescenti e il 2% dei bambini. La categoria più colpita è quella delle casalinghe che costituiscono il 40% dei pazienti, seguite dai pensionati (14,5%); in coda gli agricoltori con il 3,4%.
Anche in Italia le donne sono più colpite rispetto agli uomini, una tendenza visibile soprattutto nelle Marche, Umbria e Calabria dove su 10 casi, 9 riguardano le donne (Eurispes, Federfarma, 2002).
Secondo le stime dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in media ognuno ha il 10-15% di possibilità di ammalarsi di depressione almeno una volta nella vita: in particolare il rischio di sviluppare la depressione nell’arco della vita è del 5-9% nelle donne e 2-3% negli uomini. Inoltre, entro il 2020 la depressione sarà la patologia più diffusa dopo le malattie cardiovascolari.
Gli antidepressivi, insieme agli ansiolitici, sono ai primi posti nella classifica dei farmaci più consumati. Nel 2002 sono state 27 milioni le confezioni vendute.
Dal punto di vista medico la depressione è uno stato mentale evidenziato da riduzione delle attività psichiche e motorie, incapacità di progettare il futuro, ansia.
Questa malattia può essere suddivisa in reattiva e non reattiva.
Quella reattiva si manifesta in seguito a un evento negativo; mentre per quanto riguarda la depressione non reattiva si devono separare le depressioni su base organica, cioè quelle causate da altre malattie come disturbi della tiroide, disturbi neurologici degenerativi, e le depressioni iatrogene causate da farmaci cortisonici e beta- bloccanti.
Tra le depressioni non reattive prettamente psichiche si possono ricordare quelle ricorrenti che si presentano con una certa regolarità, quelle bipolari originariamente denominate psicosi maniaco-depressive, perché il soggetto alterna periodi di euforia a periodi di depressione, ed infine distimie, cioè le depressioni nevrotiche, in cui si ha un costante abbassamento del tono dell’umore.
La depressione può essere curata con l’uso di farmaci o con la psicoterapia. Viene richiesto l’uso di farmaci per la depressione maggiore malinconica (profonda depressione del tono dell’umore, netto rallentamento psichico e motorio, idee di colpa e di rovina, andamento episodico con tipico peggioramento al mattino). È importante, invece, la psicoterapia per la depressione minore ansiosa (depressione del tono dell’umore meno grave, autocommiserazione e accusa del mondo esterno per le proprie condizioni).
Cenni storici
La prima descrizione clinica della depressione risale al medico greco Ippocrate, vissuto tra il V e il IV secolo a.c., il quale coniò il termine melanconia
, pensando che fosse causata da un eccesso di bile nera nel cervello del soggetto depresso. Egli catalogò la melanconia come uno dei maggiori tipi di malattia psichiatrica insieme alla mania, alla frenite e alla paranoia.
All’epoca di Ippocrate la bile, sia gialla che nera, era ritenuta strettamente collegata alle anomalie del comportamento, potendosi distinguere ad esempio temperamenti collerici e temperamenti melanconici a seconda che fosse prevalente l’uno o l’altro fluido. Del resto la bile gialla e la bile nera erano considerati gli umori fondamentali dell’organismo umano, capaci di assicurare, fin quando si mantenevano fra di loro in perfetto equilibrio ed armonia, la salute fisica e psichica dell’individuo.
La melanconia, così prodottasi per eccesso e alterazione di un umore corporeo, presentava soprattutto sintomi psichici quali: tristezza, timore, inappetenza, turbe del sonno, allucinazioni e deliri.
Per Ippocrate la terapia contro la melanconia consisteva nell’assunzione di elleboro e mandragola per le loro proprietà purgative ed emetiche e quindi capaci di eliminare l’eccesso di bile nera.
Comunque, in epoca post-ippocratica anche altre sostanze venivano utilizzate nella cura della melanconia; così, ad esempio, Crisippo di Cnido raccomandava il cavolfiore, Filistione e Plistonico consigliavano il basilico, Filagrio prescriveva una pozione a base di zenzero, pepe, epitema e miele.
Rufo d’Efeso nel I secolo d.c. si interessò alla melanconia descrivendone alcune forme deliranti.
Per quanto riguarda le terapie prescriveva norme igieniche e dietetiche, il salasso, un purgante a base di cuscuta, epitomo e aloe.
Sorano d’Efeso, vissuto tra il I e il II secolo d.c., si occupò anch’egli di melanconia che, seguendo la dottrina solidistica, attribuiva ad uno stato di costrizione delle fibre costituenti il corpo umano. Descrisse i sintomi principali della malattia: tristezza silenziosa con pianto immotivato, ansia, prostrazione, disturbi gastrici, animosità verso i parenti. Come cura consigliava soprattutto dei cataplasmi da applicare in regione epigastrica o sul dorso a livelli delle scapole; non trascurava neppure le prescrizioni di tipo psicologico-comportamentale, raccomandando ai parenti di far assistere il paziente a commedie allegre, occuparlo in passatempi che tengano sveglia la sua mente, di mostrare interesse e ammirazione per quanto riesce a fare.
Costantino l’Africano, vissuto nell’ XI secolo tra il nord-Africa e l’Italia, fu autore del trattato De melanconia
, uno dei primi testi medici interamente dedicati alla depressione, nel quale la tradizione greco-romana si fondeva con gli apporti degli autori arabi. Della malattia erano accuratamente descritte la sintomatologia, le differenti forme cliniche e le varie cause; si passava poi ad illustrare il trattamento, prevalentemente di tipo igienico-dietetico, ma anche a base di purganti o diaforetici, per espellere rapidamente e in maggior quantità possibile bile nera responsabile del quadro morboso; tra i rimedi vegetali erano citati: elleboro, scamonea, coloquintide, rabarbaro, timo, zafferano, mandorle e pistacchi.
Andrè Du Laurens, vissuto dalla metà del secolo XVI al primo decennio del secolo XVII, scrisse un Discours des maladies mèlancolique
(1599) e prescrisse ai pazienti prevalentemente regole igienico-dietetiche. Consigliò in particolare l’inalazione di varie essenze odorose e anche la visione di colori vivaci; raccomandò inoltre compagnie e occupazioni piacevoli; non trascurò neppure i farmaci, di solito di origine vegetale.
Robert Burton (1577-1640) pubblicò nel 1621 il celebre trattato Anatomy of Melancholie
nel quale venne sottolineato il possibile comportamento suicidario dei melanconici e furono illustrate numerose idee deliranti a sfondo depressivo.
Tra il XVII e il XVIII secolo comparvero alcune interpretazioni della sintomatologia depressiva che si discostavano dalla tradizionale attribuzione di responsabilità alla bile nera. Thomas Willis (1621-1675) chiamava in causa nella genesi della melanconia un eccesso di salinità nel sangue capace di alterare la conformazione stessa del cervello. Hermann Boerhaave (1668-1738) riteneva responsabile un aumento delle componenti oleose del sangue con riduzione dell’apporto ematico al cervello e impoverimento dei secreti