Borges e gli oranghi eterni
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mistero che infastidisce così tanto la polizia argentina. Entrambi partono dalla loro conoscenza dei racconti della letteratura poliziesca di Allan Poe per rivelare il crimine, dal momento che l’assassino ha lasciato le sue tracce in base ai racconti dello scrittore americano, narratore di filosofia occulta. Dalle circostanze create dall’amore per la letteratura, Borges e Vogelstein si vedranno al centro di un reato che comporta rocamboleschi demoni e arcani misteri della Cabala. Inavvertitamente, qualcuno potrebbe dire alcune parole magiche e mettere in pericolo l’esistenza del mondo umano. Ogni traccia giunge alla scoperta di un nuovo puzzle e Borges, alla fine, rivela l’imprevedibile risultato.
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Borges e gli oranghi eterni - Luis Fernando Verissimo
Titolo dell’opera originale
BORGES E OS ORANGOTANGOS ETERNOS
© Luis Fernando Verissimo 2000
Traduzione dal portoghese di Amina Di Munno
© Atmosphere libri
Via Seneca 66
00136 Roma
www.atmospherelibri.it
info@atmospherelibri.it
Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it)
I edizione nella collana Biblioteca del giallo gennaio 2013
ISBN 978-88-6564-068-5
Obra publicada com o apoio do Ministério da Cultura do Brasil / Fundação Biblioteca Nacional
Opera pubblicata con il sostegno del Ministero della Cultura del Brasile / Fondazione Nazionale delle Biblioteche
Unwin, stanco, lo interruppe.
«Non moltiplicare i misteri» disse. «Questi
devono essere semplici.
Ricorda la lettera rubata di Poe, ricorda
la stanza chiusa di Zangwill».
«Oppure complessi» replico Dunraven. «Ricorda
l’universo».
Jorge Luis Borges, Abenjacàn il Bojari, ucciso nel suo labirinto
IL DELITTO
Cercherò di essere i tuoi occhi, Jorge. Seguo il consiglio che mi hai dato quando ci siamo salutati: escribe, y recordarás. Cercherò di ricordare, con precisione, questa volta. Perché tu possa scorgere quel che ho visto, svelare il mistero e arrivare alla verità. Scriviamo sempre per ricordare la verità. Quando inventiamo, lo facciamo per ricordarla più precisamente.
La geografia è destino. Se Buenos Aires non fosse così vicina a Porto Alegre non sarebbe accaduto nulla di tutto ciò. Ma non mi ero accorto che stavo per esserne sottilmente coinvolto, che questa storia aveva bisogno di me per essere scritta. Non mi ero reso conto che stavo per essere immerso nella trama a testa in giù, come una penna nel calamaio.
Le circostanze del mio viaggio a Buenos Aires, adesso lo so, erano state congegnate con la stessa cura che si mette nel preparare la trappola per un animale. Ma sul momento l’entusiasmo mi accecò. Non compresi d’esser stato scelto per costituire l’accessorio di un delitto, neutro e innocente come gli specchi di una stanza.
Il congresso della Israfel Society del 1985, il primo simposio di specialisti su Edgar Allan Poe fuori dall’emisfero nord, si sarebbe tenuto a Buenos Aires, a meno di mille chilometri dal mio appartamento al Bonfim. Alla portata persino di un povero traduttore e professore di inglese (yo, come sai). Uno dei relatori sarebbe stato Joachim Rotkopf, il quale avrebbe parlato delle influenze del surrealismo europeo nell’opera di Poe, esattamente lo stesso argomento che provocava la sua diatriba con il professore Xavier Urquida, di Mendoza, che tanto mi divertiva sulle pagine della rivista della società The Gold Bug, Lo scarabeo d’oro. Tutto ciò mi parve niente di più che un insieme di coincidenze felici e irresistibili. Decisi di non resistervi. O pensai d’averlo deciso.
Ho cinquant’anni. Ho condotto una vita ritirata, sin aventuras ni asombro, come nella tua poesia. Come te, maestro. Una vita fra i libri, protetta, in cui raramente l’inatteso è apparso come una tigre. Ma non sono un ingenuo. Sono uno scettico, i libri mi hanno insegnato a riconoscere tutte le categorie del dubbio e della precauzione verso l’illogico. Dunque non avrei mai creduto che il destino mi avrebbe chiamato per nome, che tutto fosse già stato deciso per me e prima di me da un Borges occulto, che il mio foglio sarebbe stato ad attendermi come il vide papier di Mallarmé aspettava le sue poesie.
La sola prospettiva di ascoltare i commenti dell’argentino sulla conferenza del tedesco, con cui mantenevo corrispondenza ma che non conoscevo personalmente, avrebbe giustificato il costo del biglietto aereo (a rate) per Buenos Aires. Il congresso ci sarebbe stato a luglio, quando i miei studenti di inglese potenziavano i loro ormoni iperattivi per proteggersi dal freddo e mi mandavano in vacanza. Nessuna traduzione importante avrebbe richiesto la mia attenzione, perlomeno nessuna che non potesse aspettare una settimana, il tempo della durata del congresso.
E ultima coincidenza: il giorno dopo l’arrivo della rivista con la comunicazione che il congresso della Israfel Society del 1985 era stato, in modo imprevisto, trasferito da Baltimora a Buenos Aires, con tanto di istruzioni per l’iscrizione, il mio gatto Alef morì. Senza un motivo chiaro, solo per un gesto di premura verso questo scapolone che lo aveva accolto. Alef era l’unica cosa che mi avrebbe impedito di viaggiare, dato che non avevo a chi lasciarlo da quando mia zia Raquel era finita in un ospizio. La morte di Alef mi convinse a non perdere l’occasione, che non si sarebbe più ripetuta. E non sospettai nemmeno di quella morte così tempestiva.
Tutto quello che accadde a Buenos Aires lo devo, in un certo qual modo, alla morte di Alef. O alla fatalità geografica. O al Dio che c’è dietro al Dio che muove il Dio che muove il giocatore che muove le pedine e dà inizio, Jorge, al vortice di polvere e tempo e sogno e agonia della tua poesia. O al disegno di un’antica trama messa in moto, esattamente quattrocento anni fa, nella biblioteca del re di Boemia. O semplicemente all’inconsapevole deferenza delle prede di trappole ben fatte, per non deludere chi si è tanto dato da fare...
Ricopro il mio ruolo, di vedere e descrivere, e ora di scrivere quel che ho visto. Qualcuno o qualcosa si sta servendo di me per dipanare l’intreccio, sul cui destino ho così poco da dire quanto la penna ha da dire ai poeti che la impugnano, o l’uomo agli dèi che lo governano, o il pugnale all’assassino. E la cui conclusione, Jorge, è nelle tue mani.
O devo dire en su cola?
***
Non era la mia prima volta a Buenos Aires. Da piccolo ci ero andato con zia Raquel a far visita a zia Sofia e al ramo argentino dei Vogelstein. Erano state loro due a portarmi via dall’Europa, all’inizio della seconda guerra mondiale. La terza delle sorelle Vogelstein, mia madre Miriam, era rimasta nella Germania nazista. Aveva un protettore
e non le sarebbe accaduto nulla di male. Raquel si era stabilita con me a Porto Alegre, dove avevamo dei parenti poveri; Sofia era andata a Buenos Aires, dove avevamo dei parenti ricchi. Raquel diceva che lei e la sorella avevano scommesso durante il viaggio: quella che aveva perso era rimasta con me. Non era vero: era lei, delle due zie, a essermi più legata, e non mi avrebbe mai lasciato. È stata una madre affettuosa e dedita. Non si è mai sposata per badare solo a me e, in una maniera dolcemente velata, non ha permesso che io mi sposassi per non dover condividere il suo protettorato. Non ha avuto bisogno di molto sforzo per farmi restare scapolo. Ho sempre considerato un legame domestico permanente con qualsiasi donna che non fosse zia Raquel come una minaccia intellettuale. Nessuna sarebbe riuscita a rubarmi l’anima, ma avrebbe inevitabilmente interferito con la realizzazione dei miei libri, per i quali zia Raquel aveva un rispetto reverenziale trasmesso a una lunga serie di domestiche terrorizzate: i libri del dottore
erano intoccabili, in qualunque luogo fossero nel nostro piccolo appartamento del Bonfim, e lo scaffale con le mie edizioni di Borges una sorta di reliquiario che, se profanato, avrebbe potuto costar loro le mani.
Alla fine, prima di chiedere di essere ricoverata in un ospizio, zia Raquel fu costretta ad accettare le mie cure, ma sempre maledicendo se stessa per il daffare che mi dava. Avrei dovuto dedicarmi alle mie traduzioni e ai miei libri piuttosto che specializzarmi nel dosaggio di calmanti per una vecchia inutile. Andarsene