La fallacia del maggioritario: O del perenne attrito tra la forza del potere e la ragione del diritto
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Un’idea correlata è che il requisito essenziale per l’esistenza di una democrazia consista in libere elezioni. Ambedue i postulati sono errati perché non colgono la ratio di una democrazia, ossia che con libere elezioni si formi un organo sovrano collettivo che annoveri tutte le componenti ideologiche della nazione. Riproducendo esattamente i sentimenti e le convinzioni dell’intero popolo, quell’organo sovrano opererà allo stesso modo dell’intero paese adunato in un’unica assemblea. Solo a questa condizione, ossia in assenza di qualsiasi correzione maggioritaria, ci sarà una "crazia" del "demos" e non un semplice trasferimento di potere popolare nelle mani di un soggetto in qualche misura diverso dal popolo.
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Anteprima del libro
La fallacia del maggioritario - Fabrizio Iommi
1. Una distorsione del regime democratico
1.1
Da troppo tempo ormai gli ambienti politici italiani sono dominati da una preoccupazione che soverchia ogni altra, quella della governabilità. Della democrazia per la verità nessuno vuol dubitare, ma la certezza d’un governo forte, che duri nel tempo con saldo potere dall’inizio alla fine della legislatura, è un obiettivo accanitamente perseguito dalle maggiori forze politiche, non essendo esso ritenuto di alcun pregiudizio per la qualità democratica del sistema. L’atteggiamento che assumono di solito i mercati di fronte ai paesi che mancano di un governo forte e saldo, ha intensificato una preoccupazione di questo tenore dell’attuale mondo politico fin a farla diventare un assillo quasi patologico, di cui occorre attentamente valutare la compatibilità col corretto concetto di una prassi democratica.
L’espediente cui si fa per lo più ricorso per raggiungere siffatto obiettivo, è – come ben noto – il premio di maggioranza, di cui oggi circolano le più strane e complicate formulazioni. Tutta l’ingegneria costituzionale per la verità si è spesa al massimo per rimediare ai pericoli d’ingovernabilità fino a debordare in veri e propri sovvertimenti della Costituzione della Repubblica mentre il meno impegnativo espediente del premio di maggioranza usato per trasformare una maggioranza relativa in una assoluta rimane quello più praticato e di fatto quello che meno ripugna anche all’opinione pubblica. Qui si vuole ciò nonostante mostrare che, anche ammettendo l’esistenza di un problema di governabilità, quell’espediente in realtà ha ben altra finalità e già per se stesso confligge profondamente con i principi della Costituzione italiana e non dovrebbe perciò trovar luogo nel nostro paese, il cui ordinamento fu tracciato a suo tempo dalle forze politiche avversarie del fascismo con ben altri e più seri intendimenti.
1.2
Il primo inciampo è quello con il principio di eguaglianza. Se infatti tutti debbono concorrere alla politica nazionale e questa deve essere conforme agli umori del paese, non si configura come un indebito vantaggio numerico quello assegnato alla forza politica più votata, un vantaggio che per concretizzarsi implica uno svantaggio per tutte le altre forze concorrenti? In questa fase infatti dobbiamo badare all’assoluto rispetto dell’obiettivo primario della rappresentanza democratica all’interno del consesso parlamentare, ossia alla sua aderenza alla configurazione politica dell’intero paese, che non può essere disgiunta dalla volontà popolare così come essa è espressa nella consultazione elettorale: se alteri quella con un qualsiasi premio di maggioranza, violi anche la volontà popolare, ossia la condizione prima di qualsiasi democrazia (come vedremo meglio avanti).
Del tutto diverso è il caso del conferimento di un incarico determinato com’è quello del governo d’un paese, per il quale al contrario il soggetto incaricato deve essere unico in quanto portatore non di una funzione di rappresentanza politica di diverse componenti ideologiche, ma di un mandato ad agire in forme già predefinite dall’organo legislativo, ossia di una funzione che giustamente presuppone per il suo miglior esito omogeneità o unicità nel soggetto incaricato della sua esecuzione.
Chi non riesce a tener ben distinte le due funzioni, quella di definizione delle linee di azione del governo e quella della sua esecuzione, potrebbe ancora esser guidato verso una posizione più corretta e meditata se invitato a rispondere alla seguente domanda: poiché si ha tanta cura soprattutto della possibilità di formare un governo efficiente, perché non si propone al voto popolare l’elezione di tale governo saltando a piè pari quella di un parlamento? Se si identifica la democrazia con la prassi del voto popolare a scadenza prefissata, sarebbe del tutto compatibile con tale presupposto – e molto più semplice – la sola elezione diretta del governo ed essa darebbe la garanzia massima di un governo del tutto esente da pericolo di ribaltoni, voti di sfiducia, bracci di ferro con il parlamento, insomma da qualunque pericolo di una fine prematura o anche solo di menomazione di un suo forte ruolo di guida del paese.
La replica scontata è quella del repertorio classico: il parlamento è necessario al controllo sull’operato del governo. Occorre però aggiungere allora per coerenza di argomentazione che perché tale controllo sia effettivo e non di facciata, v’è necessità che i controllori siano in una posizione altra rispetto al governo. E quale garanzia di tal genere potrà mai essere fornita da un gruppo politico già saldamente organizzato attorno a un candidato premier e – per ripetere l’orribile gergo calcistico oggi usato – attorno alla sua squadra – o, nella migliore delle ipotesi, da una coalizione che sia stata beneficiata con l’attribuzione di una maggioranza assoluta, ossia con un potere più saldo di quello meritato con l’effettiva pronuncia elettorale e che sia perciò oltre modo sollecita, per la conservazione del maggior potere così conseguito, della massima coesione possibile col governo proposto all’elettorato piuttosto che della correttezza dell’operato di esso? Sfugge qui la percezione del fatto reale che si verifica in tal caso, ossia che con una coalizione la cui sopravvivenza sia legata alla sussistenza del governo inizialmente proposto, il parlamento configurato secondo un premio di maggioranza non mantiene più una funzione di controllo, ma assume quella di una corte del principe assolutamente solidale, per quanto riguarda la sua frazione maggioritaria, con la volontà del suo leader e pronta a soddisfare ogni sua per quanto arbitraria decisione; ben altro che quella funzione di controllo e di censura che si vorrebbe propria di un parlamento vigile e critico! Sotto questo riguardo darebbe una garanzia assai maggiore un sistema come quello statunitense, nel quale l’elezione del presidente è distinta da quella delle due camere e non permette perciò il formarsi automatico di una cordata solidale tra lui e la maggioranza presente nel Congresso.
1.3
Di quanto qui si intende affermare, abbiamo un riscontro offerto dalla nostra storia recente, un riscontro comico per i compilatori delle cronache nazionali, tragico per chi ha a cuore le sorti di questo paese: si tratta dell’approvazione da parte della maggioranza del parlamento nel 2011 della ridicola tesi della presunta nipote di Mubarak sostenuta dall’allora presidente del consiglio per cavarsi fuori da una assai ridicola e compromettente storia personale, una tesi che ha esposto la nostra repubblica allo scherno internazionale.
Nessuna migliore conferma del fatto che in un sistema politico congegnato secondo il premio di maggioranza conferito a uno schieramento solidale con un leader come garanzia di guida salda e capace il parlamento – o meglio la maggioranza artificiale di esso – diventa necessariamente una corte del principe e non un organo distinto capace di un controllo effettivo dell’esecutivo. La comune sorte che lega l’uno all’altro – se cade l’uno, cade anche l’altro e giustamente dato che ambedue sono scaturiti da un’unica consultazione elettorale – induce un comune interesse a sostenersi a vicenda e non un atteggiamento di vigilanza dell’uno nei riguardi dell’altro. È vero che un sistema maggioritario non prevede necessariamente il collegamento di uno schieramento di partito o di coalizione con un candidato premier; così è oggi