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Morte di un ballerino di tango
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Morte di un ballerino di tango

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Bucarest, anni ’40: questo è lo scenario su cui si staglia la figura di Gogu Vrabete, detto Tango, “picaro” balcanico e proletario delle periferie della capitale romena che sogna di diventare ballerino di tango, sogno, o forse più una fantasia, che tramonta ben presto poiché, per evitare di essere spedito al fronte russo, il protagonista ricorre a un trucco molto in voga: farsi recidere leggermente un tendine del piede perché poi si rimargini. Ma durante l’operazione il bisturi va troppo a fondo e l’operazione malriuscita lo renderà zoppo per sempre. Gogu Vrabete, ora claudicante ed eclissatasi per sempre l’agognata carriera di ballerino di tango internazionale, risucchiato nel vortice degli eventi storici, come un’Araba Felice risorge e si reinventa una vita fatta di mille espedienti macabri, furbeschi e malavitosi, degna di un film di Quentin Tarantino. Solo l’amore per Larissa, sua amante ed ex partner di ballo, fuggita da Odessa, vittima come lui della storia, lo riscatterà sul piano umano, anche se in modo tragico, in un finale mozzafiato che profuma di vecchi film in bianco e nero. Stelian Tanase, con un linguaggio tagliente e veloce, inventa una storia diabolicamente vintage trasudante di sesso e violenza, di odio e amore, di furbizia e ingenuità, di storia e finzione: gli ingredienti del cocktail perfetto per un romanzo sorprendente e spietato.
LanguageItaliano
Release dateMay 28, 2014
ISBN9788865641187
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    Morte di un ballerino di tango - Stelian Tănase

    tango

    Morte di un ballerino di tango

    Stelian Tănase

    Morte di un ballerino di tango

    ---------------------------------------

    Titolo originale:

    Moartea unui dansator de tango

    traduzione dal romeno di Mauro Barindi

    © 2011 Stelian Tănase

    I edizione della collana Biblioteca dell’acqua, maggio 2014

    ISBN: 97-888-6564-098-2 (cartaceo)

    THIS PUBLICATION HAS BEEN FUNDED BY THE ROMANIAN CULTURAL INSTITUTE

    Avvertenza

    I nomi di persona e di luogo romeni presenti in quest’opera presentano nella loro grafia segni diacritici che si pronunciano secondo queste indicazioni (fra parentesi quadre il rispettivo simbolo fonetico):

    î, â = [¹] suono vocalico centrale e chiuso simile al suono del grafema russo Ы come inБЫТь[b¹t’]

    ă =[ə] suono vocalico centrale e semiaperto simile all’inglese the ə]

    ș = [§] suono consonantico fricativo sordo come sc dell’italiano sci

    ț = [ts] suono consonantico semiocclusivo sordo come nell’italiano forza;

    la lettera je i gruppi consonantici ch e gh si pronunciano rispettivamente come il suono fricativo sonoro [½] del francese jour ur] e come i suoni velari dell’italiano che e ghepardo; l’h è sempre aspirata e la z si pronuncia come la s sonora ([z]) della parola italiana rosa.

    Sinossi

    Bucarest, anni ’40: questo è lo scenario su cui si staglia la figura di Gogu Vrabete, «pícaro» balcanico e proletario delle periferie della capitale romena che sogna di diventare ballerino di tango, sogno, o forse più una fantasia, che tramonta ben presto poiché, per evitare di essere spedito al fronte russo, il protagonista ricorre a un trucco molto in voga: farsi recidere leggermente un tendine del piede perché poi si rimargini. Ma durante l’operazione il bisturi va troppo a fondo e l’operazione malriuscita lo renderà zoppo per sempre. Gogu Vrabete, ora claudicante ed eclissatasi per sempre l’agognata carriera di ballerino di tango internazionale, risucchiato nel vortice degli eventi storici, come un’Araba Felice risorge e si reinventa una vita fatta di mille espedienti macabri, furbeschi e malavitosi, degna di un film di Quentin Tarantino. Solo l’amore per Larissa, sua amante ed ex partner di ballo, fuggita da Odessa, vittima come lui della storia, lo riscatterà sul piano umano, anche se in modo tragico, in un finale mozzafiato che profuma di vecchi film in bianco e nero. Stelian Tănase, con un linguaggio tagliente e veloce, inventa una storia diabolicamente vintage trasudante di sesso e violenza, di odio e amore, di furbizia e ingenuità, di storia e finzione: gli ingredienti del cocktail perfetto per un romanzo sorprendente e spietato.

    Ai miei genitori.

    Si sono conosciuti

    in una sala da ballo.

    Motto

    "… ya una noche tendrás que bailar

    el tango grotesco del Juício Final".

    Carlos Gardel

    "La libertà costa cara. Molto più

    cara della schiavitù. E non si paga

    né con l’oro né con il sangue né con

    nobili sacrifici, ma con la vigliaccheria,

    con la prostituzione, il tradimento, con

    tutto il marciume dell’animo umano".

    Curzio Malaparte

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO 1

    1.

    Cf. nota informativa 41/03/fonte Ioan/DGP, gli zoppi hanno fifa dei cani. Chi lo avrebbe detto, vedendolo sbiancato in volto come uno straccio, che fra loro ci fosse niente meno che Gogu Vrabete, detto Tango? Lui non si mischiava con i tizi di Galleria Macca, dove prosperava la borsa nera, ma da piazza Matache Măcelarul fino a piazza Chibrit era una celebrità. Lo scherzo dei cani aizzatigli contro, all’uscita dal cinematografo, era opera degli invidiosi. Cairo, Prafu Jumară, Nazarie e il principe Mişu Banu. Gli si facevano attorno come degli indiavolati. Lui li apostrofava con qualche battuta salace e pizzicava il culo alle loro dame. Prima che i cani finissero di abbaiare, sorrideva fino a diventare livido. Quando si faceva del colore della cartacarbone, allora scacciavano via i cani! Ridevano così sonoramente da tirar giù la Stazione Nord. Gli facevano lo stesso tiro anche quando, uscito dal locale, ammaliava qualche dama per portarla in una stanza dell’Hotel Bristol. Si faceva rigido come una statua. Gli diventava livida la camicia da spaccone che aveva indosso. Attraverso le pareti filtravano le note di Jealousy. Ne riconosceva gli accordi in mezzo a mille. Un tempo aveva desiderato ballare su un vero palcoscenico. Tutto però andò a catafascio un giovedì. Dovete immaginarvelo, Gogu è stato il beniamino delle sale da ballo. Quando faceva la sua comparsa, con il suo vitino da vespa, aaaah. Batteva i tacchi facendo zac. Si allacciava alla sua dama con passione. Beh, faceva sfracelli, sul serio!

    A quei tempi felici conduceva una doppia vita. Dal lunedì al venerdì faceva l’impiegato dalle parti di via Filantropia. Bazzicava ogni tanto alle corse. Aveva alcuni cavalli preferiti: Grette, April, Scheggetta. Era sempre al verde. Andava agli incontri di boxe e scommetteva. Iellato com’era, non rimediava mai niente. Aveva lavorato come ragazzo di bottega da Safarian, proprietario del caffè in Galleria Villacrosse, non gli piaceva stare al bancone. Sognava per sé qualcosa di più grande. Eh, quello spiantato, più grigio di una pantegana – un emerito nessuno – il sabato e la domenica però si trasformava. Si sfilava la pelle da babbeo e risplendeva per alcune ore. Si presentava alla sala da ballo Akim acchittato in un completo scuro a due pezzi a righine sottili sottili come quelle di una ragnatela. Con una rosa all’occhiello. Aveva certe cravatte. Saresti stato disposto ad ammazzare qualcuno pur di mettertene una al collo. Dove diavolo le trovava? Una volta il commissario Țepeluș lo acchiappò e non per traffico di valuta e contrabbando. Voleva scoprire come si procurava quegli straccetti vellutati dalle tonalità grigio ferro, buccia di cipolla, ambra, prugna ottobrina. Il commissario, gran puttaniere, puntava su una dama del bel mondo, in viale Pake 34. Pensò di chiedere a Gogu una delle sue miracolose cravatte per esibire un’aria da commerciante. Da lui prese anche alcune lezioni di tango. Però lo schiaffò al fresco ugualmente. Si diceva che quella non gliela voleva dare. Il nostro Gogu si comportò eroicamente. Resistette alla torchiatura. Era lo stesso giorno in cui al Cremlino Ribbentrop & Molotov si congratulavano pasteggiando a champagne e caviale sotto lo sguardo da pesce lesso di Stalin. In quei drammatici momenti per l’Europa, Gogu veniva preso a sberle. Il mondo stava ammattendo. E allora?! In una periferia di Bucarest, alla polizia, si discuteva in tono acceso sul nodo della cravatta. Una settimana dopo i tedeschi mettevano in ginocchio la Polonia e Gogu ritornò alle sue faccende. Perse un sacco di ore ad ascoltare alla radio i comunicati trasmessi da Londra. Parigi esprimeva la propria costernazione. Che c’entrava Gogu con l’Europa! Toglieva le forme dalle scarpe. Ne aveva di speciali, con scrocchio e doppi salvatacchi. Gli piaceva sentire il duro assito quando batteva il piede, pac.

    Non raggiungeva la sala da ballo a piedi per non rovinare la tenuta da gala. Alla stazione conosceva qualcuno, un suo amico, che aveva l’automobile. Questi sapeva quando era il momento e si presentava per accompagnarlo. Una volta arrivato alla sala Akim, imitava Bogart quando scendeva dalla Packard. Quella scena del film gli era piaciuta alla follia. Dalla portiera socchiusa, per primo compariva il cappello. Appoggiava il piede e sgusciava fuori, dopo aver guardato attentamente dal parabrezza. Un minuto, tanto bastava perché la gente accalcata sul marciapiede notasse che era arrivato. Eccolo sotto l’insegna Sala da ballo – lettere azzurre, verdi, violette e accanto una coppia abbracciata su un cartellone alto quanto il pilone della luce. Gli altoparlanti con il volume al massimo seminavano lo scompiglio in strada. «Cavalieri e signorine, entrate!» sbraitava un grassone. «Venite a vedere che gran orchestra, fisarmonica, chitarra, contrabbasso, piano Steinway, alla batteria Sergiu Malagamba. Bevande sopraffine a volontà, sifone ghiacciato, paté dello chef Zigu». All’ingresso era riconosciuto da alcuni tipi duri. Gli facevano largo pieni di deferenza. Quando lo vedevano, si mettevano in tasca i loro ceffi da attaccabrighe. Bravo! Gogu era il loro compare. Era tale la loro ammirazione per lui che li vedevi scodinzolare felici stringendogli la mano, togliendogli via un pelucco dal bavero, chiamandolo per nome. Si mettevano in mostra chiedendogli «come stai stasera». Tutto in lui si doveva al ballo. Era il numero uno della sala. Ballerino eccelso, spocchioso, il corpo teso come un arco. Lanciava sguardi tenebrosi, inarcava il sopracciglio, un sorriso gli sfuggiva all’angolo della bocca come un mafioso. Assestava un buffetto al cappello. Figuratevi, le ganze si bagnavano tutte. Passava davanti ai picchiatori all’entrata come nei film con Clark Gable, mordicchiandosi i baffetti e tirandosi il lobo di un orecchio. Diceva: «Hi, Salve!» Con nonchalance, azzimato, imperturbabile come meglio si addice a uno spaccone.

    Una volta fatto il suo ingresso nella sala, veniva accolto dal maestro di cerimonie. Un russo caduto in disgrazia, Vasea, di Odessa, ricercato dai bolscevichi. Ne annunciava l’ingresso con la sua voce da basso come se fosse a un ballo di gala moscovita, battendo il bastone sull’assito. Gli piaceva quella cosa. Poi, inchini, «I miei rispetti, benvenuto, signor Vrabete». Il proprietario lo pagava a ore per montare tutta quella messinscena. Il russo lo ripagava alla perfezione. Molti venivano alla Sala da ballo Akim proprio per essere annunciati in modo pomposo da quello spilungone allampanato vestito in abiti d’epoca. Gogu gettava lo sguardo sull’assito tirato a lucido, le sedie vuote, i capannelli di dame e cavalieri. Era il suo regno. S’intratteneva un minuto con i membri dell’orchestra. Andava a sedersi al banco. Birra Luther, braga [1] ambrata, selz ghiacciato. Se ne stava a chiacchierare con i Bogart, i Clark Gable, i James Cagney del quartiere. Le ragazze, sedute all’angolo opposto, si facevano aria con i ventagli nei loro vestiti vaporosi, carichi di nastri e volant. Ci trovavi, a seconda dei gusti, la Garbo, Rita Hayworth, Lana Turner, Mae West. Ognuna con il proprio dio preso a noleggio per due soldi al cinema Marna. Gogu non si faceva mai vedere troppo presto, andava contro la sua dignità. Veniva quando le danze toccavano l’apice, puntualmente fra il quarto e il quinto brano, il massimo del raffinamento secondo il dettame protocollare. Sapeva vendere la propria merce. Una serata danzante senza Gogu Vrabete era inimmaginabile. Che ganzo! Tutti gli sguardi erano concentrati su di lui quando sbucava dalla porta. Il quartiere era pieno di case di rendez-vous, di osterie e di case di piacere a luci rosse. Di scantinati, di androni bui con puttane, cortili ombrosi con avventori seduti ai tavolini che contrattavano la tariffa. Risse ogni sera. Si affrontavano all’arma bianca per difendere il proprio onore. L’ultimo rimasuglio del codice dei cavalieri d’Europa lo trovavi in un angolo della Valacchia. Qui potevi incontrare Gogu Vrabete.

    Di notte il quartiere era più pericoloso che stare al fronte. Malavitosi, malfattori, tipi dalla mano pesante, ex pugilatori, banditi. Veniva gente anche da fuori, non solo i bellimbusti sparsi tra piazza Chibrit e piazza Matache Măcelarul. Si faceva notare Mişu Banu detto il Signorino. Che ci faceva lì un tipo di famiglia benestante come lui? Bella domanda. Eh! Ci veniva per impregnarsi del puzzo di sudore delle puttane. Andava in brodo di giuggiole nell’ascoltare le trivialità da periferia. Quando ne sentiva una bella tosta, ti pregava gentilmente di ripeterla, con quella sua erre vellutata. Abbandonava una festa danzante in qualche taverna di lusso, tipo Dancing Colorado o Fu Chang, per fiondarsi al volante della sua Hispano-Suiza, conosciuta da tutti in città, color verde uovo d’anatra, e fare tappa all’Akim. Altro individuo era il giornalista Nazarie. Che ci faceva lì? Dettagli morbosi, storie sulle ragazze dei bordelli. Scriveva servizi sensazionalistici su crimini, drammi sentimentali, rapine. Il suo feudo era la Stazione Nord e dintorni. Era esperto nello sguazzare nel torbido. E quando non trovava il dramma di cui aveva bisogno, ne inventava uno. Chi avrebbe potuto contraddirlo? C’era anche Prafu Jumara ritornato dall’America. Raccontava favole popolate da gangster, di gente fallita che la faceva finita gettandosi nel vuoto e di disoccupati che si mettevano in fila per un piatto di minestra. Poi, Rudolf Buză, che a quell’epoca era colonnello. Lo sorprendevi intento ad ascoltare storie che profumavano di fica, di alcol, di sangue, snocciolate da Moni Refec – Akim, all’anagrafe – il proprietario di quella spelonca. Per Gogu Vrabete, l’idolo dell’incrocio di viale Griviţa con viale Buzeşti, l’universo era quella sala in cui le coppie scivolavano sull’assito tirato a lucido, con le sedie accostate alle pareti, popolate da signorine incipriate e con le labbra spalmate di rossetto, che agitavano ventagli di carta. Questi sono i personaggi del dramma. Sei soddisfatto? Ah, c’era anche Cairo, un gangster.

    2.

    L’orchestra di Occhichiari si metteva a strimpellare. Il suono era come il fumo di sigaretta. T’inoculava nell’anima una malattia incurabile. Poi si faceva appiccicaticcio, languoroso, funebre. In men che non si dica, le coppie gremivano la pista. Gogu se ne stava in disparte, aspettava che l’atmosfera si accendesse. Se ne stava appartato durante i primi tre, quattro tanghi. L’idolo non s’immischiava nei giochi dei novizi. Si lasciava pregare dai cavalieri perché entrasse in pista. Alla fine s’inarcava e avanzava nella sala seguito da sguardi impazienti. Alcuni si auguravano che venisse fatto fuori a coltellate. In periferia era così che si regolavano le inimicizie. Gogu inarcava un sopracciglio, stringeva la mandibola, sputava fuori l’aria dai polmoni. Eseguiva l’inchino provato davanti allo specchio. A questo nessuno poteva resistere. Non ballava con chiunque: solo chi conosceva i passi ne aveva l’onore. Afferrava la dama per la vita, il gomito tenuto in alto, s’irrigidiva. Si facevano strada i primi accordi. L’accordéon sbuffava melanconico. La guardava con insolenza dritto negli occhi come in quel film argentino, Romance del diablo. Gogu l’aveva visto tremila volte. Dal polsino estraeva con superbia un fazzoletto immacolato come la Santa Vergine e lo stendeva sopra il palmo della mano. Era il massimo della raffinatezza nella sala Akim. Ballare il tango senza toccarla. Solo brividi, eccitamento, ti sentivi drizzare i capelli in testa. Da dove Diavolo era spuntato quell’individuo, perché lei era già che bell’e impazzita dai modi con cui la trattava il suddetto, cioè Gogu. Era molto più di un complimento o di una conversazione seduti nel giardino di un ristorante. Il diseur Bubu Felix cacciava un tremolo baritonale da bue sgozzato. Ti sentivi indurire i coglioni nelle brache. Avresti detto che altri non era se non Gardel stesso. Dapprima partivano le note della chitarra. Poi si svenava il violino, sospirava un pianoforte. La nostalgia, caso mai dovessimo immaginarci che Gogu sia mai stato un nostalgico, gli affondava gli artigli nel cuore. Gli faceva pulsare le tempie. Dopo pochi secondi cominciava a levitare. Si rigirava leeentamente, a passi brevi, concisi, paziente, come l’angelo sul cancello del cimitero di Santa Parascheva. Il tango è una conversazione intima. Le note ti sussurrano qualcosa all’orecchio. Poche parole, dure e appassionate. Ti viene confidato un segreto. Che non ti rimane molto da vivere. La donna incollata a te è la vita stessa. Sorbiscine il respiro, obbligala a sentire che il Diavolo vi sta osservando. Il tango lo sfiniva, ma la passione rimaneva intatta. Abbozzava un passo, ne aggiungeva un altro, girava sui tacchi. La guardava intensamente. Con uno scatto girava superbo la testa di lato. Lei incollava la guancia sulla sua. Aaaaah! Non era Gogu Vrabete il tizio che ballava, bensì era il tango che ne faceva uso come di uno strumento. Le altre coppie si ritraevano appoggiandosi alle pareti. Era un ballerino eccezionale. Al bar e all’esterno non rimaneva più nessuno. Si accalcavano tutti per ammirarlo. Immobili come davanti a un quadro. Era il culmine della serata. Stavano con gli occhi inchiodati su di lui e sulla dama che stringeva fra le braccia con stile. Si udiva la voce di Bubu Felix, miglior diseur di lui tra Fiume, Istanbul & Odessa non c’era. La copia esatta di Gardel: nella voce, nel contegno, nello sguardo. Gogu danzava fin quando si sentiva sulla schiena la camicia zuppa di sudore. Occhichiari annunciava: «Pausa per lo spritz! I cavalieri sono invitati a passare in giardino per favorire birra Luther ghiacciata e dare modo alle signorine di gustare i deliziosi aperitivi e dessert offerti dallo chef Zigu. Prego, si accomodino!»

    Era il suo mondo. Un mondo felice. Era ciò che più amava. Durante la settimana sgobbava masticando polvere, correva come un pazzo su e giù. Guadagnava, se la sapeva cavare, bazzicava i posti dove aveva clienti. Si sporcava tutto, sudava, una sciagura, con indosso vestiti ordinari, senza uniforme – faceva il galoppino. Ma sabato & domenica, tutto profumato, tirato a puntino, con le sue scarpe da bellimbusto, diventava un uomo. Nella sala da ballo era Gogu Vrabete. Per questo, durante tutto il santo giorno passava la crema sulle scarpe. Ne aveva un paio ordinato appositamente, in cuoio di vitello da latte, tirato su solo a birra, diceva Gore il calzolaio. Con la punta lucida, i tacchi, che scricchiolavano quando ci camminavi. I salvatacchi facevano zac quando colpivano l’assito. Gli saranno costate una fortuna. Si profumava, indossava il gilet nero. Non se le faceva lucidare all’angolo, da Vică il lustrascarpe. Preferiva lustrarle con le proprie mani. Era un cerimoniale che non saltava mai. Le preparava il giovedì pomeriggio e gli passava la crema il venerdì sera. Le lasciava asciugare sulla soglia di casa. Era superstizioso, non appena il sole saliva di un dito sopra gli albicocchi & i carrubi, solo allora tirava fuori le forme che poggiava su uno sgabello in cortile. Si metteva a strofinarle lentamente con una pezza di morbido taffetà. L’operazione durava all’incirca tre ore, ci lavorava su come un orologiaio. Si fermava solo quando sentiva il cuoio vellutato come la natica di una giovane fanciulla. Le passava con la cera ore più tardi, il sabato mattina, lasciandole all’aperto una notte affinché essa vi penetrasse. Finiva quando il sole batteva sopra la casa, costringendoti a rifugiarti all’ombra. Alla fine aveva delle scarpe di prima qualità, potevano danzare da sole. Faceva un salto da Take, in mezzo alle sue gabbie di uccellini canterini, perché gli desse una sfumatina sulla nuca, gli sforbiciasse i baffi e gli accorciasse le basette. Le portava fitte, fino ai lobi delle orecchie. Il barbiere gli passava il rasoio sulle guance fino a farle diventare livide. Per allietarlo, metteva sul grammofono vecchie lacche. Che dici, ascoltiamo un pot-pourri di Gardel? Gogu sarebbe rimasto volentieri, ma aveva fretta di sfolgorare da Akim. Quando era di buon umore, Take prendeva il mandolino appeso alla parete e suonava per lui. Gli uccellini nelle gabbie riconoscevano il proprio padrone e felici lo accompagnavano con il loro cinguettio.

    Per farla breve, il completo glielo aveva confezionato il vecchio Efraim, sarto sopraffino per signori eleganti. Lo indossava solo quando andava alla sala. Avevo speso fino all’ultimo quattrino. Come i fanatici, che fanno qualsiasi cosa pur di togliersi un capriccio. Aveva classe, eh! Nessuno nel suo quartiere aveva pari aspetto. Verso la fine della sua breve carriera di ballerino, non mise più la cravatta. Come se avesse intuito qualcosa. Arrivava alla sala con gli ultimi due bottoni aperti. E senza cappello! Era espressione della sua strafottenza e arroganza. Era il più ganzo dalla Stazione Nord fino a piazza Obor. Che choc destò! Solo lui si poteva permettere di arrivare al ballo senza la tenuta di rigore. Contravveniva a una legge non scritta. Fu imitato da alcuni, ma al confronto sembravano dei pidocchiosi e dei perdigiorno. E quello erano, detto fra noi. Si vedeva lontano un miglio che erano dei poveracci di periferia. Le dame avevano occhi solo per Gogu.

    Fu per questo che, quando uscì per prendere un po’ di fresco, haaac, sulla schiena! Jean Pallottola detto Cairo era tornato dall’Egitto. Cinque anni prima era stato arrestato perché la sua amante, Cati la Cornacchia, aveva spifferato dove era imboscato. Quella si era invaghita di un ebreucolo, un commerciante con bottega a Lipscani. Sebbene fosse soprannominato Pallottola, usava il pugnale. Te lo ficcava nel gargarozzo mentre ti alleggeriva le tasche. Per il resto era un tipo gradevole, elegante e gentile. Lo squartò – con delizia – dalla bocca all’ombelico. Il gargarozzo glielo lasciò intonso. Lo fece a fettine e gliene stese la pelle sulla corda per il bucato nel cortile del bordello Maria Teresa. Lo trovarono all’alba le puttane, sistemato sulla staccionata come un panno steso ad asciugare. I resti dello spasimante li lasciò alla dama in un catino, sulla neve, davanti alla porta, come obolo di Natale. Era questo il tizio che assalì il nostro eroe. Per fortuna che Gogu si era messo il soprabito sulle spalle per difendersi dal freddo. Il pugnale squarciò solo la stoffa. Fu un miracolo che l’abbia scampata. Culiţă Afanei, un perdigiorno, sfegatato scommettitore all’Ippodromo, s’intromise tra i due. Saltarono su i tangheri del quartiere: Ooooh, demonio, ti è venuta voglia di carne macellata? Beh, prima di alzare i tacchi per l’Egitto, era stato il re senza corona delle sale da ballo. Era tornato a casa e ne aveva trovato un altro appollaiato sul suo trono. Il tempo passava. Erano altri tempi. E questo chi è? domandò. Uno brutto come la morte che viene dalle parti del ponte Grant. Ha preso il tuo posto. Non ci vide più. Fu così che Cairo finì per estrarre il coltello. Non si dette per vinto, ma i presenti nella sala imposero l’ordine: ce n’era uno e nessuno osava infrangerlo. Fecero testa o croce, scelsero due tipe da leccarsi i baffi. A fare da paciere fu Vasea, il maestro di cerimonie. Per risolvere il dissidio, danzarono dodici tanghi. Alla fine Gogu Vrabete risultò il numero uno. Jean Pallottola-Cairo dovette stringergli la mano e consegnargli i lacci delle scarpe, come segno della sua detronizzazione. Basta! Fu così che andò. Alla gara, oltre a Buză, assistettero Prafu Jumară, Nazarie, Mișu Banu e l’impresario Haim Bernstein. Questi cercava merce fresca per gli spettacoli a Istanbul. Aveva già usato Gogu negli spettacoli di café-chantant da Maxim: lo invitava, dietro compenso, a ballare con certe babbione – altri soldi, altro divertimento. Gliele piazzava con discrezione, e lui faceva il galante con loro. Bernstein ne conosceva il talento. Lo allettò. Ffiu, che fortuna ho avuto! si disse. Io, Gogu Vrabete, della sala da ballo Akim, di piazza Matache Măcelarul, viale Grivița n. 78! Sognava una carriera da ballerino di tango. Tornò a casa danzando sotto la pioggia. Si vedeva già raccogliere gli applausi, effigiato sui manifesti. In periferia lo avrebbero sentito alla radio, tutti avrebbero letto il suo nome nei giornali. In questo modo avrebbero saputo dei suoi favolosi spettacoli a Buenos Aires, a Caracas, a New York. Era raggiante. I passanti si picchiettavano la tempia con un dito – che ci vuoi fare, è svitato. Il Paese era alle strette, si stavano addensando dei nuvoloni neri, e lui ballava in strada come trasognato! Arrivò a casa tardi, sotto il ponte Grant. Nella cassetta postale trovò la busta azzurra con il timbro del Commissariato militare di via Francmasonă. Lo invitavano a presentarsi alla visita medica per essere arruolato. Non sapeva che la Russia di Stalin doveva essere annientata e che la carne da cannone era molto richiesta. Nota informativa 40/b/fonte Luca/DGP.

    3.

    Il sogno s’infranse. Non c’era giorno in cui la situazione non mutasse. Vide le immagini in un cinegiornale. Mutilati, feriti, imboscati – rovine fumanti, pompieri, barellieri fra le macerie, piloti che sventolavano la mano dall’abitacolo degli aerei. Alla radio notizie di ora in ora. Fu allora che per la prima volta lo solleticò l’idea di emigrare in Argentina. Di uscire in un modo o nell’altro da quella trappola chiamata Europa. Non aveva alcuna intenzione di lasciare le budella in trincea. I furbi sapevano che la guerra te la sbolognavi passando per lo studio del dottor Weiss. Ne aveva risparmiati molti, a pagamento, ovviamente. Se ti facevi operare al tallone da lui, era fatta. Al commissariato venivi spogliato come un verme. Ti passeggiavano davanti alcune signorine deliziose. Scrivevano sul foglio con la matita chimica: inabile al servizio militare. Non erano così fessi da non accorgersi che ti eri mutilato da solo. Rischiavi il tribunale militare. I giudici ti spedivano ai lavori forzati se non finivi in prima linea a morire coraggiosamente per la patria, per redimerti dai peccati! Che onore! Oh, bisognava cavarsela. Sicché Gogu distribuiva bustarelle. Tiravano bene le sterline, i franchi svizzeri e i dollari. Dalla borsa delle valute si sapevano più cose sulla sorte del fronte che dai comunicati ufficiali. Cadeva il marco, era chiaro che i russi stavano avanzando – e viceversa, oh. Le quotazioni dei crucchi erano decisamente al ribasso in Galleria Macca. Voleva dire che stavano perdendo la guerra, anche se ci davano dentro con i blindati. Avevano già messo in ginocchio l’Austria, la Polonia, la Danimarca. Sarebbe seguita la nostra amata Francia. Eh, eh, Gogu era disposto a dare qualsiasi cosa. Doveva evitare l’esercito se voleva fare il ballerino di tango.

    A Bucarest nessuno voleva sacrificarsi per la patria se non a parole. Evitavano di indossare la divisa come il diavolo aborre l’acquasanta. Com’era possibile smettere di indossare un completo cucito dal vecchio Efraim per mettersi un pastrano da soldato? Ti doveva proprio mancare qualche rotella! Era più bello che all’orecchio ti gorgheggiasse Sile il Chitarrista che il sibilo dei katiusha. Fece come gli aveva insegnato Prafu Jumară. Questi portava al collo una sciarpetta rossa, per cui girava la voce che fosse un bolscevico. Era uno scommettitore incallito di corse di cavalli, come Gogu. Fu lui a mandarlo dal colonnello Rudolf Buză, addetto al reclutamento. Non dimenticò nessuno, foraggiò la lista intera. Chiese soldi in prestito, vendette qualcosa, era un affare ben caro. Una volta fatta franca, lo aspettava Istanbul. Era tutto quello che desiderava nella vita. Uscire dalla periferia. Essere un signore. Per questo andava alla clinica Weiss, in via Witting, 36, per farsi recidere il tendine. Il dottore era vedovo. Aveva due figlie da maritare: Bella, slavata e serafica, dalla carnagione bianca come il gesso, e Rașela, dalla pelle olivastra, con un naso a pisciaimbocca e dalla voce nasale. Non se le voleva sposare nessuno, ma il padre insisteva a far loro mettere giudizio. Sembravano contente di organizzare orge con gli ufficiali acquartierati nel vicinato. Mangiaspaghetti, crucchi, inglesi, quel che capitava. Della dote si occupava il signor Weiss in persona.

    Giunse alla clinica dopo che era calato il buio. Di modo che non fosse adocchiato da una delle pattuglie che pullulavano nei paraggi della stazione. Durò all’incirca venticinque minuti: il tempo per strofinargli un batuffolo di cotone intriso d’alcol sulla pianta del piede e fargli un’iniezione nella natica. L’anestesia fece effetto. Fu soddisfatto. Non sentì nulla: temeva di sentire dolore. Sei tu che fai girare la testa alle signore della periferia, invitandole a ballare? gli domandò tutto allegro. Weiss accese la radio. I tedeschi entravano a Parigi. Di colpo tacque, maneggiava il raschietto in silenzio, stringendo i denti. Da quanto poté capire, gli toglieva un po’ di cartilagine. Dopo un po’ il tessuto si sarebbe rigenerato. Questo sarebbe accaduto dopo la firma della pace e tu, valido, avresti ricominciato da capo con le tue avventure galanti. Era in questo modo che i giovani di periferia eludevano l’esercito. Weiss l’aveva fatto già decine di volte, era un caso da corte marziale. Alla fine gli mostrò il raschietto. Sei nato una seconda volta! Portavi già scritto in fronte carne da cannone! Gogu si alzò dal lettino coperto da un telo verde. La luce accecante lo costrinse a stringere gli occhi. Era felice come una pasqua. Dopo circa cinque giorni lo chiamarono per essere arruolato. Si mise in fila nudo in corridoio. Dopo un’ora lo fecero entrare. Sfilò davanti ad alcune simpatiche signorine. Gli chiesero di togliere le mani da davanti per vedere se era a posto. Ohooo! Sghignazzarono, è con questo che fai razzie nei bordelli! Era in imbarazzo. Una bionda gli afferrò lo scroto fra le dita per vedere se reagiva al palpeggiamento. Altri gli misurarono la pressione e gli prelevarono del sangue. Stava quasi per svenire. Lo auscultarono con lo stetoscopio. Gli fecero i raggi al torace per verificare se avesse la TBC. L’unica cosa che non andava bene era il tallone. Lo tosarono a zero per benino, lo fecero ricoverare all’Ospedale militare per degli accertamenti al piede. Non era piaciuto quello che avevano visto. Sospettavano che si fosse automutilato. Uno gli disse: Com’è questa faccenda, giovanotto: un ballerino come te che zoppica? Gogu lo beccò all’urinatoio e gli passò una busta. Gli altri membri della commissione erano già stati comprati.

    Uscito di lì, sapeva quel che doveva fare. Cioè svignarsela al più presto finché era in tempo. Doveva ottenere il passaporto e caricare la valigia in treno. Zuza la Rossa, la sua partner di ballo, gli aveva raccontato quanto era bello a Istanbul. Gogu si era messo d’accordo con Haim Bernstein per presentare dei tanghi in duetto. Zuza accettò, poi però preferì scappare in Egitto da dove gli spedì una lettera nella quale gli comunicava che non sarebbe più tornata, mi spiace tantissimo, bacini. L’impresario si lamentò che a causa di quella puttana andava in fallimento. Il cartellone venne modificato da un giorno all’altro. Gogu vi sarebbe stato raffigurato con delle paracule rifugiate dalla Galitzia. Il peggio era che l’incisione operata dal dottor Weiss non si era riassorbita, sebbene gli avesse sborsato tremila palanche. Forse era perché si era rifiutato di sposarsi con una delle figlie, Bella o Rașela, come gli aveva chiesto Weiss? Quel che sappiamo è che gli inserì nel tallone un chiodo d’argento. Di modo che potesse comunque camminare in modo normale. Se non faceva piroette per fare il bellimbusto, era a posto, come ai bei tempi. Almeno ti sei salvato la pelle. Non finirai sbocconcellato in trincea dai corvi. Ma di tango però non se ne parlava più. Gli regalò un bastone. Per dimenticarti che eri ballerino! La protesi scricchiolava tanto da far svegliare la sua cagnetta quando rincasava. Puzzava di puttane, di vin brulé alla cannella, di fiori secchi. Si compianse per un po’ ma gli passò. Che poteva farci? Dovette restituire il biglietto del treno. Bernstein non gli credette che fosse rimasto invalido. Passerai il resto della tua vita in periferia! Che gran ballerino saresti diventato se non fossi stato una buona lana! Lo ascoltò in silenzio.

    4.

    Finì in questo modo il ballerino di tango Gogu Vrabete. Il rombo della storia europea coprì il rumore del suo gambaletto ortopedico sul selciato della periferia. In seguito, la città intera, la Valacchia, i Balcani furono invasi da quel rumore fastidioso. Lo avemmo negli orecchi per tutta la durata della guerra a cominciare da quella notte. Come fu possibile quel pasticcio? A Weiss tremò la mano sentendo alla radio la caduta di Parigi. Lì aveva fatto i suoi studi. La buonanima di sua moglie era francese. Incise troppo in profondità e il tendine non si rifece più. Gogu rimase zoppo

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