Sangue kosher
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Sangue kosher - María Inés Krimer
Oscar
I
Quando squillò il telefono stavo guardando Il padrino. Era Lea, voleva avvisarmi che Rosita era morta dalla parrucchiera. «Avevano quasi finito di tingerle i capelli» disse. Riagganciai. Guardai la chioma di un albero attraverso la finestra. La luce filtrava tra le foglie e cadeva sul marciapiede. Spensi il televisore. Non sapevo cosa mettermi. Cercai l’indirizzo della camera ardente sulla guida Filcar. Mi truccai in modo automatico, cercando a tentoni il rossetto nella busta di plastica. Poi chiamai Gladys, la domestica. La mia shikse mi sembrò commossa. Mi domandò se mia cugina era morta di colpo. Risposi che non lo sapevo e che mi preparasse una zuppa per cena.
L’obitorio era in calle Loyola. Avevo dimenticato gli occhiali, ma ormai era troppo tardi. Mi pettinai, mi passai un fazzoletto di carta sul collo e mi misi in bocca una caramella al limone. Entrando, urtai un uomo fermo sulla soglia. Era alto quasi due metri. Oltre che per l’altezza mi meravigliò perché indossava pantaloni grigi, una camicia grigia e scarpe di pelle con i calzini grigi. Sotto lo iarmlque, il copricapo degli ebrei osservanti, gli spuntava un ciuffo biondo. Ebbi un brivido, ma mi passò subito perché in quel momento una donna si gettò fra le mie braccia. Non poteva vestirsi peggio, pensai guardando la camicetta di jersey lilla e gialla. Era una di quelle donne che in assenza di parenti risoluti si assumono il ruolo di anfitrione alle veglie funebri. Mi liberai dall’abbraccio. L’aroma dei crisantemi e dei garofani si mischiava con quello di Kenzo. Sussultai quando disse: «Immagino che vorrai vederla». La sala, illuminata da due ceri, era rivestita da listoni di legno di mezzo metro d’altezza, con la parte superiore dipinta di grigio. Lungo una parete c’erano panche di cemento con dei materassini e di fronte alcune sedie, allineate una di fianco all’altra. La bara era al centro, sostenuta da due piedistalli di ferro battuto.
Mi avvicinai. Sul coperchio c’era un panno scuro. Sulla maniglia notai una macchia e la pulii con il dito. Poi andai in bagno a lavarmi le mani.
Le amiche di Rosita indossavano camicette con spalline imbottite e scarpe con il tacco basso. Alcune mi guardavano con aria di disapprovazione. «È la cugina della provincia» dicevano abbassando la voce. Una donna si avvicinò e mi disse: «Le mie sincere condoglianze». Poi si allontanò un po’ e, come se non fosse stato sufficiente, mi strinse la mano e aggiunse che Rosita, nonostante l’età, era una donna vezzosa. Un’altra mi domandò se ero in pensione.
Si presentarono due uomini che avevano conosciuto papà e rievocarono l’emporio che aveva in calle San Martín. Mi domandarono da quanto tempo vivevo a Buenos Aires. Quando la finirono di interrogarmi si misero a parlare fra loro dandosi pacche sulle spalle. Esordivano come se dovessero raccontare grandi storie e poi finivano per tacere, con le mani in tasca, o si dondolavano sulla punta dei piedi.
Una donna di bassa statura in pantaloni e blazer si avvicinò e mi diede un bacio. «Ti ricordi di me?» domandò. Era la segretaria della kehilà, la comunità ebraica, di Concordia. Sorrisi. In quella città avevo tenuto una conferenza sulle donne portate dall’Europa orientale e avviate alla prostituzione. Anche se la sorte di quelle donne, strappate alle loro case e consegnate ai trafficanti dai familiari stessi, pareva non importare a nessuno. Negli ultimi anni le autorità avevano insistito perché cambiassi l’approccio delle mie conferenze per concentrarmi maggiormente sulle mansioni specifiche dell’archivio. Mi avevano chiesto di parlare di candelabri, foto e sputacchiere, ma a me interessava soltanto parlare dei postriboli. La mia via era tracciata. Avanzavo verso il precipizio.
Lea cominciò a singhiozzare. Era mia cugina dalla parte di papà, l’unica parente che mi restava a Buenos Aires. Quando mi avvicinai per salutarla vidi che reggeva una corona con la dicitura Ti ricordiamo. La tua famiglia
. Ora ero io a reggere la corona, e Lea mi raccontò che lo spaccio di cibi ebraici Tatekosher andava malissimo. Se le cose non miglioravano, avrebbe dovuto chiudere. Disse anche che la domenica vendeva come negli altri giorni della settimana. «Oggi è giovedì» accusò, come se fosse colpa mia. Io avevo l’impressione che Rosita, distesa in mezzo alla sala, per tutte quelle persone non significasse più niente.
Appoggiai la corona di fianco alla bara e andai in cucina. Mi rincantucciai vicino al fornello, appoggiando la testa sul bordo metallico della credenza. Sul ripiano della cucina c’erano una caffettiera elettrica, bicchieri di plastica e un thermos rosso. Qualcuno doveva aver fatto il caffè, perché qualche bicchiere era pieno a metà. Mi parve di sentire il sibilo del gas che usciva dal fornello. Controllai il rubinetto. Era chiuso.
Mi sentii sporca. Presi un tovagliolo di carta e me lo passai sulla fronte, sul naso e sul collo, osservando la carta scurirsi. Feci scaldare un po’ di caffè. Mangiai un biscotto. In quel momento comparve sulla porta la donna con la camicetta lilla e gialla.
«Ti cercano».
L’uomo che avevo visto arrivando alla veglia dovette chinarsi per entrare in cucina. Si piegò e mi abbracciò. Si staccò da me continuando a tenermi per le spalle.
«Ruth Epelbaum?»
Annuii con un cenno del capo.
«José Gold» si presentò. «Chiquito».
Sembrava sul punto di crollare.
L’addetto delle pompe funebri segnalò l’ora mettendo il dito sull’orologio da polso. Tornai nella sala principale.
La fila di vetture era lunga e scintillante. Rosita era sistemata sulla prima. Su quella dietro, alcune corone di fiori si smarrivano nel luccichio nero delle lamiere e dei fregi in bronzo. Salii nell’ultima, in mezzo a due vicine di casa. Vi fu un momento di immobilità e poi il corteo si mise in marcia. Avanzammo lungo l’avenida General Paz verso il Riachuelo. Sul ponte Saavedra il traffico era intenso e l’auto dovette rallentare. Striscioni. Autorimesse. Motel. Furgoni carichi di bottiglie vuote. Arrivammo all’avenida Crovara. L’auto svoltò a una salumeria e proseguì fino al numero duemilaottocento. Vidi il muro di cemento.
L’ingresso del cimitero è fiancheggiato da colonne. Sopra, due cupole bianche. Il vento scuoteva le cime dei cipressi. Gli uomini si coprirono la testa. Sulla parete dell’ingresso principale c’era una menorah, la lampada a sette bracci con la stella di David. Eravamo lì riuniti quando si avvicinò lo jazn, il cantore, che si stringeva al petto un libro con la copertina nera. Disse di avere fretta perché dopo ci sarebbe stato un altro funerale. Lea si separò dal gruppo e cercò di individuare la tomba sullo schermo del computer. Salimmo in una piccola auto elettrica. Voltai la testa. Qualche metro indietro, Chiquito Gold reggeva in mano il suo iarmlque.
Un uccello cadde giù di colpo. A un metro da terra aprì le ali. Procedevamo in mezzo alle lapidi di marmo. Mi ricordai di quando avevo dodici anni ed eravamo andati al funerale di un cugino di papà. Mentre preparavano la salma ne avevo approfittato per sbirciare alcune lapidi che avevo visto oltre il muro. Mi ero avvicinata a un cancelletto arrugginito. Allungando il collo e guardando di sbieco avevo potuto constatare che le tombe non avevano niente di diverso da quelle che si estendevano da questo lato, dove stava per essere sepolto il nostro parente. «Ti stai insozzando» mi aveva detto la mamma, e mi aveva trascinata alla cerimonia. Non ero riuscita a domandarle a chi appartenessero quelle tombe. Alcune erano malconce, rovinate dalla pioggia e dal vento. In seguito ero venuta a sapere che dall’altro lato di quel muro c’erano i ruffiani della Swi Migdal. In archivio avevo il ritaglio del Mundo Israelita: "La nostra comunità ha chiuso tutte le porte in faccia ai caftens, i magnaccia. E siccome ha negato loro ciò che nessuna religione nega nemmeno al condannato a morte, i trafficanti di bianche si sono visti costretti a creare il loro cimitero".
Temevo forse che quell’altro cimitero, dove erano sepolti i ruffiani, mi stesse spingendo a ripetere la storia? Ogni vita è fatta dell’intreccio con altre vite. Il passato sembrava fluire nel presente. Ora guardavo ai lati e cercavo di decifrare i cognomi. Ma le foto scorrevano sfocate, e io non capivo le parole ebraiche. La piccola auto svoltò a sinistra. Sollevai gli occhi. Il cielo era ancora azzurro, senza nuvole. Quando li abbassai ero a mezzo metro dalla fossa. Chiquito Gold, in piedi di fianco a me, piangeva come un bambino.
«Mia figlia è scomparsa» disse.
2
Non conosco nessuna città che non sia varie città, dove cambiando quartiere non si entri in una città diversa e non si vedano più le solite facce, ma persone che credevamo di aver dimenticato, o che davamo per morte. Calle Libertad mi provocava questa vertigine. Mi fermai a guardare l’obelisco. Comprai caramelle in un chiosco. La gioielleria aveva un’insegna con lettere verdi e rosse. In una vetrina c’erano anelli, braccialetti e ciondoli. Nell’altra i Rolex. Dopo aver controllato l’indirizzo sul biglietto che avevo messo nel portafoglio, entrai. Il pavimento era di piastrelle bianche e nere. In fondo, una tenda grigia nascondeva una porta. Una cassaforte. Un bancone. Un commesso seduto dietro, del tutto intonato all’ambiente. Alla parete il ritratto di un uomo che sembrava un rabbino: abito scuro, barba bianca e peies, i riccioli degli ebrei ortodossi.
Chiquito Gold comparve nel corridoio. Era uno schmate, uno straccio. Bastava vedere la sua barba lunga, la camicia grigia che gli usciva dai calzoni grigi allentati in vita, per rendersi conto di quello che stava passando. Il ciuffo di capelli biondi era appiccicato al collo. Aveva le scarpe slacciate. Aprì gli occhi azzurri, si fermò come se non mi conoscesse e guardò il commesso. Anch’io lo guardai. Mi stupiva la sua immobilità. Nonostante mi avesse vista entrare, l’uomo continuava a fissare l’incastonatura di alcune perle. Era grasso, adiposo. Non batteva le ciglia. Aveva una mano sospesa in aria nel gesto di afferrare un pezzo. Le dita ricadevano verso il basso, ma si intuiva che un’energia improvvisa poteva rianimarle in qualsiasi momento.
Chiquito Gold chiuse la porta che separava il corridoio dalla gioielleria e mi invitò nel suo ufficio.
Entrai, e la porta si richiuse dietro di me. Odore di cera e deodorante per ambienti. Una scala coperta da un tappeto. Un attaccapanni con ornamenti in bronzo. Un calendario con una beduina sulle spiagge di Eilat. Ronzio del condizionatore d’aria. Mi sedetti su una poltroncina girevole. Il contrasto con il rumore della strada mi faceva sentire strana, come se fossi andata indietro nel tempo o stessi scappando. La sensazione di essere fuori dal tempo era troppo forte perché mi sentissi a