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Le chiavi della mente. Linguaggio e pensiero alla luce delle nuove scienze
Le chiavi della mente. Linguaggio e pensiero alla luce delle nuove scienze
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Ebook464 pages6 hours

Le chiavi della mente. Linguaggio e pensiero alla luce delle nuove scienze

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Questo saggio è uno studio critico delle tematiche della linguistica generativa di Chomsky all’interno del dibattito filosofico e scientifico, alla luce dei più recenti sviluppi dell’empirismo e dell’evoluzionismo. Viene delineato un quadro che tocca i temi metafisici e storico–scientifici che fondano la scuola di pensiero chomskiana. All’analisi del dibattito evoluzionistico, in cui vengono affrontati temi – quali l’origine filogenetica del linguaggio umano o la più controversa idea delle sue origini virali – segue un esame del tema degli universali e della povertà dello stimolo, nel contesto accademico che vede il confronto tra gli innatisti e i sostenitori del nuovo empirismo. Esaminate le criticità dell’innatismo, l’ultimo capitolo tratta in modo più originale le potenzialità del paradigma evoluzionista, attraverso una disamina delle capacità esplicative di paradigmi di ricerca paralleli e alternativi.
LanguageItaliano
Release dateMay 28, 2015
ISBN9786050383386
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    Le chiavi della mente. Linguaggio e pensiero alla luce delle nuove scienze - Mirza Mehmedovic

    Mirza Mehmedovic

    Le chiavi della mente. Linguaggio e pensiero alla luce delle nuove scienze

    UUID: d2ed324c-051b-11e5-917a-4fc950d1ab4a

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Voglio ringraziare il professor Mario De Caro per aver accettato di sostenermi fino alla conclusione del mio percorso, anche se solo nell’ultimo anno di dottorato. Ringrazio il prof. Gilberto Corbellini, che ha accettato di farmi da tutor e che ha creduto nel valore di questo lavoro. Ringrazio soprattutto il prof. Massimo Stanzione, caro amico che, nonostante un periodo difficile, ha continuato a seguirmi e a consigliarmi nel mio percorso di crescita intellettuale e morale. A lui devo la prefazione a questo lavoro. Ringrazio, poi, la mia famiglia – mia madre Emina e mio fratello Armin – che pazientemente sopporta le pile di libri sul tavolo della cucina, il mio luogo di lavoro. Un pensiero va a mio padre, Ibrahim, venuto a mancare nel 2006; è sempre nel mio cuore. Poi c’è Martina Purificato, la mia insostituibile metà, che ringrazio per avermi sopportato in questi anni di incertezze e nebulose prospettive, offrendomi la sua costante presenza oltre ogni ragionevole dubbio e dedicandomi il suo tempo per ascoltare ciò che – di volta in volta – ho pensato e scritto. A lei devo la splendida immagine in copertina e l’impaginazione di tutto il lavoro.  

    Indice dei contenuti

    Ringraziamenti

    Prefazione

    Introduzione

    Capitolo I - Alcune considerazioni sulla linguistica generativa: il profilo metafisico

    ​1. Pendoli e paradigmi scientifici

    ​2. Metafisica senza dogmi, o dell’importanza di chiamarsi Galilei

    ​2.1. Hume, Newton e Darwin – con un’incursione di Kant

    ​3. Il problema delle spiegazioni causali

    4. Oltre il comportamentismo

    ​5. La questione fondamentale

    ​6. Scomporre il linguaggio

    Capitolo II - Descartes, Gall, Turing: le origini ideologiche della linguistica generativa

    ​1. Alcune considerazioni sulla dottrina delle idee innate: perché Descartes non è un’innatista platonico

    ​1.1 Non tutte le idee sono innate

    ​1.2. La cognizione degli oggetti esterni fornisce una conoscenza adeguata, benché non concettualmente compiuta del mondo

    ​1.3. La sintesi, ovvero: l’uomo

    ​2. Il problema dell’eredità cartesiana

    ​2.1. Idee e linguaggio nel sistema mente-corpo di Descartes

    ​2.2. Apprendimento

    ​2.3. Creatività del linguaggio, o del pensiero?

    ​2.3.1. Dei tipi di idee

    ​2.4. Arbitrarietà del segno in Descartes

    2.5. Lingua universale

    ​3. Grammatica dei nomi e riferimento esterno

    ​4. La leggerezza di un’eredità insostenibile

    ​5. La matassa delle facoltà

    ​6. Il concetto chiave dell’intelligenza meccanica: la memoria

    ​6.1. Logica delle rappresentazioni

    Capitolo III - Chomsky: storia e sviluppi della prospettiva sintatticista

    1. Alcune osservazioni preliminari

    1.1. Linguistica e filosofia analitica

    1.2. Un confronto sul verbo essere

    1.3. Russell e i linguisti a confronto

    2. La linguistica generativa

    2.1. Il problema di Platone

    2.2. L’organo del linguaggio e la Grammatica Universale

    2.2.1. Il problema di Cartesio, ovvero: della creatività espressiva

    2.3. La biologia delle lingue

    2.3.1. Dalla biologia alla genetica: le caratteristiche innate

    2.4. Sistema immunitario e nativismo dei concetti

    2.5. Modularismo massivo e condizioni di leggibilità

    3. La prima versione della Grammatica Universale

    4. X-Bar Theory

    4.1. Principi e parametri

    4.2. Principi, parametri e limiti del linguaggio

    4.2.1. Autonomia della sintassi rispetto alla semantica

    4.2.2. Autonomia della sintassi rispetto alla fonologia

    4.3. Autonomia della sintassi e rappresentazione corticale

    4.4. Grammatiche possibili come vincolo all’esperienza

    Capitolo IV - Fodor e i problemi della mente modulare

    1. La mente modulare

    1.1. Che cos’è una facoltà per Fodor?

    1.2. Le caratteristiche dei moduli più da vicino

    1.3. Modularismo e linguaggio

    1.4. Nativismo

    1.5. Rapporto tra nativismo e memoria

    1.6. I processi centrali

    2. Alcuni problemi della concezione modulare-rappresentazionale

    2.1. Il problema dell’apprendimento linguistico-concettuale

    2.2. Ordini di complessità degli stimoli prossimali

    2.3. Problemi legati all’accesso

    2.4. Il dualismo hardware-software

    2.5. Il problema del rimando

    2.6. Esistono categorie non rappresentabili?

    2.7. E i sistemi di output?

    2.8. Sinestesia e modularismo

    2.9. La natura dipendente-dal-tempo delle strutture sintattiche

    2.10. Anomia e nomi propri: un caso contro la concezione modularista-innatista del linguaggio

    Capitolo V - La facoltà del linguaggio all’interno del quadro evoluzionistico

    1. La critica

    1.1. Un breve sguardo all’esternalismo semantico

    1.2. La critica di Putnam: il significato non è nella testa

    1.3. Il 1750: sul valore epistemologico delle scoperte scientifiche

    2. La critica di Steven Pinker all’atomismo concettuale

    3. L’essenza di una specie

    3.1. Il problema della variazione nella teoria dell’evoluzione

    4. Linguaggio: che cos’è, chi ce l’ha e come si è evoluto?

    4.1. In soccorso a Darwin

    4.1.1. I concetti dipendono dall’apprendimento del linguaggio

    4.1.2. Il parlato è un tratto comune in natura?

    4.1.3. L’anatomia comparata è un argomento per FLN?

    4.1.4. Fonemi, parole e sintassi

    4.1.5. Genetica e linguaggio

    5. La ricorsività è un tratto speciale?

    5.1. Il tema dell’immuno-sintassi nel dibattito naturalistico

    6. Buba e Kiki vs. Chomsky

    7. Alcune osservazioni sui dogmi della linguistica generativa

    7.1. Sincinesia e analisi fenomenologica

    8. Un argomento contro il dogma della sintassi profonda

    Capitolo VI - L’innatismo alla luce del nuovo empirismo

    1. La creatività entro i limiti del programma minimalista

    2. Smantellamento della biolinguistica generativa

    2.1. Il mito della grammatica universale

    2.2. Oltre i confini di Babele

    3. L’argomento della povertà dello stimolo

    3.1. Il problema della proiezione o delle evidenze negative

    3.2. Ricchezza dello stimolo

    3.3. Il problema del collegamento e del cambiamento evolutivo

    4. Nuovi approcci nello studio del linguaggio e della mente

    4.1. La struttura sociale del linguaggio

    4.2. Lieberman e la strategia anatomico-genetica contro Chomsky

    4.2.1. Uno speciale apparato fonatorio

    4.2.2. Il sistema cortico-basale contro i sistemi isolati a un dominio

    4.3. Ramachandran e la mente multimodale

    Capitolo VII - Prospettive per una nuova immagine del linguaggio e della mente

    1. Ancora Descartes

    1.1. Essenzialismo, scienza, linguaggio

    2. L’approccio darwiniano

    3. Dalla mano alla bocca, passando per lo sguardo

    3.1. Oltre lo specchio, ovvero: so quel che fai

    3.2. Occhio non vede, cuore non duole

    4. Intenzionalità e comunicazione

    5. Creatività linguistica nella prospettiva dei processi multimodali

    6. Un’alternativa alla teoria delle rappresentazioni mentali

    7. Il piccolo uomo

    8. University non è U+n+i+v+e+r+s+i+t+y

    8.1. Tratto vocale sovralaringeo e codifica del parlato

    8.2. Strutture dipendenti dal valore in senso ampio

    9. Dal protolinguaggio al linguaggio

    Note

    Prefazione

    Un libro come questo, per via del suo stesso argomento, rischia d’indurre nel lettore una sorta di reverenziale timore. Non è forse vero che, dal 1975 ad oggi, quando finalmente il veto pluricentenario sull’analisi scientifica delle origini e della natura del linguaggio umano cadde, le pubblicazioni in merito si sono susseguite a un ritmo quasi incontrollabile - fino a superare l’ordine delle migliaia? E che, dopo questa valanga di interventi - e a dispetto delle opinioni più partigiane - l’argomento è tuttora al centro di accanite discussioni, lontane da qualsiasi forma di sia pur minimo consenso? Gli addetti ai lavori, schierati sui numerosi e variegati fronti di questo bellicoso confronto, ben lo sanno – anche se difficilmente ciò li spingerà a cambiare opinione. Fortunatamente però, la vertenza non tocca solo loro, bensì un pubblico molto più vasto di lettori curiosi, ma nel contempo attenti agli attuali sviluppi sia delle scienze umane, sia delle conoscenze scientifiche. Lettori che hanno il pieno diritto di capire e decidere con la propria testa. A costoro, almeno idealmente, questo libro si rivolge, in maniera talmente chiara e onesta che ad alcuni esperti certamente apparirà persino scabra e rude, benché non lo sia affatto.

    In queste pagine, senza alcun cedimento alla divulgazione (spesso approssimativa e frettolosa) che da tempo ha invaso anche la letteratura cosiddetta scientifica – e gli esempi sarebbero troppo lunghi da elencare – il pubblico dei non addetti ai lavori troverà analiticamente illustrate e criticamente discusse alcune delle trame principali che, intrecciandosi in modo all’apparenza inestricabile, hanno trasformato in nodo gordiano il nocciolo del problema.

    In primo luogo, la linea di ricerca perseguita dalla linguistica teorica, le cui radici affondano in antiche tradizioni filosofiche poi riformulate nella cosiddetta filosofia del linguaggio. (In quest’ambito, la svolta segnata da Chomsky e dalla sua scuola è stata – e resta – determinante.) In secondo luogo il complesso e difficile rapporto fra qualsiasi teorizzazione e le ricerche empiriche sul linguaggio, che a tutt’oggi non può dirsi risolto. Gli assunti fondamentali su cui la svolta chomskyana è basata sono abbastanza noti per non doverli riesporre estesamente in questa sede: l’esistenza di una struttura profonda universale da cui dipendono tutte quelle di superficie presenti nelle lingue naturali; lo sforzo di analizzare tale struttura in termini il più possibile analoghi a quelli di un software universale innato (la grammatica universale), capace di tradursi in tutte le lingue nelle strutture grammaticalmente corrette loro proprie; l’idea che ciò non possa essersi sviluppato per stadi secondo il modello della selezione naturale darwiniana, ma sia apparso d’un sol colpo per mutazione casuale sulla scena dell’ominazione, rendendo gli esseri umani irriducibilmente diversi da qualsiasi loro eventuale antenato antropomorfo; la più recente affermazione che il nucleo della nostra capacità di arrivare a un linguaggio suscettibile di generare un numero indefinitamente alto di varianti ricorsive discenda dalla capacità non linguistica di orientarsi nello spazio. E altri ancora.

    Ciascuno di tali assunti è stato passato al vaglio di una letteratura specialistica, in questo libro opportunamente ricordata, ma che qui sarebbe fuor di luogo approfondire. Dalla loro analisi emerge una tesi che, nella sua semplicità, è quanto mai stimolante. Nei termini usati dal fisiologo tedesco Emil Du Bois-Reymond in una sua celeberrima conferenza del lontano 1880, modificati ad hoc, essa suonerebbe infatti: ignoramus SED NON ignorabimus. Purché, naturalmente, ci si liberi da certe convinzioni talmente inveterate da tradursi in pericolosi crampi mentali, impegnandosi, nel contempo, a riconoscere alla ricerca empirica (e storico-culturale) tutto il peso che loro spetta. La prima convinzione è, per dirla con le parole dell’autore, quella dei linguisti del MIT, che considerano la teoria di Chomsky scientifica nel senso galileiano del termine.

    La seconda è che qualsiasi forma di comportamentismo sia una teoria scientificamente irrecuperabile, come quello skinneriano a suo tempo criticato da Chomsky, benché gli studi sulla cognizione dei primati non umani e sulle basi senso-motorie dell’apprendimento umano, compreso quello del linguaggio, sembrino mostrare che è invece un programma di ricerca rivedibile e tuttora promettente, se esteso al di là dei suoi confini originari. Si dirà che difficilmente problemi come questi possono essere trattati in un sol libro. Eppure, nel condurre il suo lavoro critico, l’autore riesce a presentarli in maniera perspicua e, a parer mio, senz’altro originale. E lo fa intrecciando il discorso storico-filosofico con quello delle scienze biologiche, delle cosiddette scienze cognitive e delle neuroscienze. Ne è un esempio la sua ricostruzione dell’epistemologia galileiana, in cui il ruolo fondamentale dell’astrazione appare vincolato alle sensate esperienze quanto basta per escludere che l’ipotesi chomskyana della GU (grammatica universale) possa aspirare al ruolo di ipotesi predittiva. L’idea, esplicita in Chomsky, che un’indagine logica di tipo galileiano non debba soddisfare un’ontologia fisicalista e il principio di chiusura causale perché Hume e Newton avrebbero mostrato la fallacia delle spiegazioni causali è qui efficacemente controbattuta. Altrettanto dicasi per l’analisi, condotta nel cap. 2, in polemica con Geoffrey Gorham, sul presunto innatismo (radicale) cartesiano, che si riassume nella tesi che in Cartesio: «le idee delle cose contingenti del mondo in generale non sono innate. Le altre, ossia quelle idee il cui concetto è interamente costituito dalle idee di Dio e di numero, sono a loro volta non innate, benché formate da elementi la cui origine è innata». Tesi argomentata in modo davvero convincente, attraverso la disamina dei diversi aspetti dell’eredità cartesiana rivendicata da Chomsky: dalla dottrina dell’anamnesi, al rapporto mente-corpo (la cui dinamica è notoriamente retta dalla ghiandola pineale, interfaccia necessaria fra le due sostanze), alla discutibile rivendicazione delle radici cartesiane del carattere rappresentazionale della mente (rispetto alla quale l’immaginazione risulterebbe necessariamente un’attività secondaria), laddove Cartesio dice che la mente può immaginare relazioni puramente logiche, la cui rappresentazione sensibile è resa impossibile dalla nostra costituzione fisica – e così via. Per Cartesio, in breve, diversamente da quanto affermava Chomsky nella sua Linguistica Cartesiana: Le capacità logiche e creative della mente non implicano il fatto che il linguaggio e le sue regole siano innati.

    Partendo da molto lontano, addirittura dalla frenologia di Gall, il libro si sofferma estesamente anche su altri presupposti storico-teorici che hanno favorito l’alleanza fra l’approccio originario di Chomsky al linguaggio e quello di Jerry Fodor al funzionamento modulare della mente. Anche in questo caso, temi ben noti vengono presentati da un’angolazione diversa e illuminante, che tuttavia agli storici non apparirà di certo implausibile. Prendiamo ad esempio la distinzione fra software e hardware, nonché i concetti di algoritmo e modulo introdotti da Turing, cui i cognitivisti abitualmente ricorrono a sostegno delle loro ipotesi sul funzionamento dei meccanismi innati della mente. Ebbene: è storicamente vero che nei suoi lavori Turing aveva lasciato spazio a una concezione innatista e funzionalista della mente, ma non aveva mai trascurato l’importanza (e l’esistenza!) di meccanismi non deterministici indispensabili perché una mente/macchina potesse apprendere, ossia sviluppare comportamenti intelligenti, non prevedibili e non ripetitivi.

    Dall’analisi dei pericoli insiti nell’adozione del vecchio logicismo da parte della grammatica generativa, il discorso si sposta sul corrispondente versante propriamente linguistico: il sintatticismo. Non però su quello espresso dal pensiero chomskyano originario, bensì su una recente difesa che di questa posizione ha dato Andrea Moro, in polemica con le tesi dei filosofi analitici del linguaggio concordi con l’analisi russelliana del verbo essere. Anche qui lo sviluppo dell’argomento meriterebbe di essere seguito con attenzione, soprattutto da parte chi, ben informato, sappia quale importanza le ricerche empiriche di Moro abbiano recentemente avuto nel sostenere la persistente validità dell’approccio di Chomsky.

    Dall’insieme dei primi capitoli di questo libro e della letteratura in essi citata emerge che, non solo la distinzione fra grammatica superficiale e profonda, bensì anche la famosissima (e altrettanto originaria) tesi della povertà dello stimolo, addotta da Chomsky in funzione anti-comportamentistica, sono entrambe tutt’altro che pacifiche. A fronte di simili obiezioni, la linea tradizionale di difesa assunta dalla corrente di studi ancor oggi prevalente è duplice: poiché non esistono programmi di ricerca alternativi al nativismo ed altrettanto degni, l’unico dubbio legittimo dovrà riguardare non tanto se il nativismo sia vero o falso (perché è ritenuta cosa semplicemente certa che sia vero), quanto il modello di grammatica universale che si dimostri davvero adatto a spiegare il LAD (acronimo che sta per Language Acquisition Device, il dispositivo che dovrebbe concretamente presiedere all’apprendimento del linguaggio). Una questione schiettamente empirica che non è difficile immaginare quale reazione abbia scatenato nel nostro autore, bosniaco di nascita, costretto da circostanze biografiche ad apprendere l’italiano (in cui scrive) come terza lingua, in età adolescenziale. Perché il suo processo di apprendimento non è avvenuto con quella supposta semplicità che, su base innata, avrebbe dovuto fornirgli l’insieme dei principi e parametri? Perché ha invece richiesto un costante impegno, in particolare nell’apprendimento delle forme espressive verbali e scritte più eleganti – e dunque preferibili? Perché, come ribadiscono gli studi di Boyd e Richardson, Ellis, Tomasello e numerosi altri, per acquisire le regole grammaticali corrette (e – aggiungerei – lo stile) di una lingua servono ripetute e attente correzioni da parte dei parlanti nativi all’altezza di farlo: serve, insomma, l’apprendimento basato sul (buon) uso. Non a caso, in un articolo qui citato del 2005, Reali e Christianesen hanno mostrato come un flusso indiretto di informazioni statistiche possa giustificare il passaggio, nei bambini, dalle forme affermative a quelle negative – entrambe grammaticalmente corrette. In altri termini hanno sostenuto che l’organizzazione delle reti neuronali riflette il comportamento verbale statistico del bambino senza che quest’ultimo sia impegnato a dover generalizzare sulla base di ipotesi (per tentativi ed errori), bensì semplicemente sulla spinta dal basso (degli input) nel tempo.

    Ma torniamo all’ipotesi rivale proposta dall’innatismo chomskyano: nella nostra specie il passaggio al linguaggio sarebbe avvenuto grazie a una mutazione genetica casuale e imprevedibile – quindi selettivamente non rilevante. Per criticarla, l’autore si appella qui a un argomento davvero solido, già presente nel De Rerum Natura di Lucrezio: se la cultura non avesse contribuito, sul piano biologico, alla spinta evolutiva del comportamento linguistico umano, come avrebbero potuto i primi membri di una specie – giunti improvvisamente in possesso dell’organo del linguaggio – aver dato inizio all’evoluzione delle lingue? Ecco il passo lucreziano in oggetto:

    Proinde putare aliquem tum nomina distribuisse

    rebus et inde homines didicisse vocabula prima,

    desiperest. Nam cur hic posset cuncta notare

    vocibus et varios sonitus emittere linguae,

    tempore eodem alii facere id non quisse putentur?

    Preterea si non alii quoque vocibus usi

    inter se fuerant, unde insita notities est

    utilitatis, et unde data est huic prima potestas,

    quid vellet facere ut sciret animoque videret?

    (Lucrezio, De Rerum Natura, V, 1041-1049)

    A questo punto, immagino che il lettore possa sentirsi legittimamente sconfortato: cosa potrà mai emergere di positivo da un cumulo così alto di macerie? Interrogativo cui tenta di rispondere, in modo provvisorio ma interessante, il settimo e conclusivo capitolo di questo volume. Leggetelo e capirete.

    Massimo Stanzione

    Roma, Aprile 2015

    Introduzione

    Al giorno d’oggi, quasi ogni studioso che si occupi di assegnare al linguaggio il suo ruolo di protagonista, inizia con un’osservazione del tipo: spiegare la natura del linguaggio è, ovviamente, di fondamentale importanza se si vuole comprendere a pieno la natura umana. Benché, di fatto, sia di fondamentale importanza comprendere il funzionamento del linguaggio, ovvero la sua natura, ci sono forse ragioni per dubitare che una qualunque componente specie-specifica dell’uomo possa sintetizzarne le caratteristiche – di modo che alla fine di una lunga ricerca si possa dire: ecco, il linguaggio è questa cosa qui e nient’altro lo è. Ad ogni modo, è forse interessante osservare che dopo secoli di dispute sulla natura della mente ad opera dei filosofi empiristi, da una parte, e dei razionalisti dall’altra, il dibattito contemporaneo sia grosso modo speculare riguardo alla natura del linguaggio: da una parte abbiamo coloro che, come Noam Chomsky, sostengono che il linguaggio sia una caratteristica squisitamente umana e innata; dall’altra, abbiamo coloro che sostengono, incarnando lo spirito empirista, che l’innatismo postula e ipostatizza meccanismi sulla base di mere analogie tra uomo e macchina (si pensi all’ormai classica critica di Putnam) e che il linguaggio andrebbe studiato sulla base dei dati empirici – da cui si possono estrapolare ipotesi falsificabili –, o almeno questo è il proposito, conformemente ai principi del naturalismo darwiniano e, più nello specifico, guardando alle differenze culturali non come a meri epifenomeni di qualcosa di insondabile, bensì come a fenomeni contingenti, benché ancora reali e, perciò, al pari di ogni altro fenomeno bio-fisico. Ora, è chiaro che entrambe le dottrine fanno ampiamento uso delle attuali scienze per corroborare le loro ipotesi empiriche, oppure quelle a priori; sarà, perciò, quantomeno doveroso sbrogliare, almeno in parte, la matassa delle relazioni che sono state abilmente e brillantemente intessute tra fatti e teorie. Bisogna quanto meno cominciare da lontano, prendendo in esame prima l’una e poi l’altra tendenza scientifico-filosofica. La domanda che mi sono posto, e che è alla base dell’impresa qui presentata, è se – dal momento che sia i razionalisti che gli empiristi ricercano il ti esti del linguaggio, ovvero il che cosa? – la domanda ontologica intorno al linguaggio possa essere ragionevolmente posta; o se, viceversa – conformemente al principio del come, principio euristico-metodologico che dovrebbe, più da vicino, caratterizzare l’impresa scientifica, a discapito di qualunque tentativo di dogmatizzare ipotetici costituenti ultimi della natura umana o del mondo in generale – non siamo di fronte alla necessità di rettificare la proposta di fare appello al principio di individuazione che, per l’appunto, risponde alla prima domanda, la quale si veste della metafisica più audace allontanandoci, però, di un numero indeterminato di passi, dal serio pensiero scientifico, intorno al quale oggigiorno ogni sana filosofia si impegna a crescere nei suoi principi. Il lavoro che ne è derivato, è improntato sulla disamina di una serie di concetti e dibattiti intorno a tali concetti, che ruotano intorno all’impresa cognitivista del MIT e, quindi, sulla sua plausibilità epistemologica, esaminata sotto una serie di lenti concettuali. Tale disamina dei concetti e delle discussioni, nate intorno all’innatismo e alle facoltà, è pertanto distribuita in alcune tappe che mirano alla critica più serrata della teoria di Chomsky. Attraverso la critica, benché ciò non possa essere fatto in modo sistematico, verranno dati alcuni spunti su una nuova idea di quali elementi possono contribuire a spiegare e, perciò, delimitare il fenomeno del linguaggio umano.

    Il lavoro verrà suddiviso nel modo seguente. In primo luogo, introdurrò il lettore ad alcune questioni generali e più propriamente filosofiche, nel tentativo di inquadrare quelli che sono gli aspetti ideologici più generali e, per molti aspetti, metafisici del pensiero chomskiano. Il primo capitolo è, in tal senso, un’introduzione al resto del lavoro, benché presenti in modo impegnato alcuni temi metafisici fondamentali, come il principio di chiusura causale, le caratteristiche generali del metodo scientifico e i limiti di applicabilità dei principi metafisici ed epistemologici. Nel secondo capitolo, presenterò tre dottrine storicamente note che, per un motivo o per un altro, rientrano nel quadro della dottrina innatista chomskiana. In primo luogo, parlerò di Descartes, presentandolo in un confronto con il razionalismo di Chomsky, con l’obiettivo di stabilire l’essenziale Rubicone che separa il pensiero cartesiano da quello chomskiano. La delegittimazione dell’accostamento storico tra i due modi di pensare il linguaggio e la mente si è rivelata proficua, soprattutto alla luce dei forti elementi di empirismo presenti nel pensiero cartesiano. La seconda dottrina che rientra nel novero delle influenze ideologiche da cui derivare la dottrina innatista-localizzazionista di Chomsky è la frenologia. La fonte di quest’influenza è bene argomentata nel lavoro ormai classico di Fodor. A seguire, dunque, accennerò brevemente all’IA e alle sue origini in Turing. Anche qui, però, la disamina è funzionale alla separazione tra le idee originali e materialiste, proprie della filosofia di Turing, e le idee para-dualiste che caratterizzano la riflessione filosofica di Chomsky.

    Nel terzo capitolo introdurrò i temi e le tesi della linguistica generativa, insieme ad alcuni elementi del dibattito più recente, soprattutto attraverso i lavori di Andrea Moro. Il quarto capitolo è dedicato interamente ad un’analisi della dottrina modularista di Jerry Fodor, che consideriamo incapace di spiegare alcuni fatti importanti della cognizione. Nel quinto e nel sesto capitolo, presenterò quelli che sono i temi fondamentali della discussione, le critiche e le difficoltà della dottrina innatista. Ci sono molti motivi per ritenere che l’impresa generativista sia giunta al suo tramonto, nonostante il forte consenso accademico, che spinge alla riaffermazione ideologica – spesso priva di argomentazioni convincenti – degli elementi apparentemente più convincenti della scuola, la costituzione logico-matematica degli elementi del mentalese. Sarà mio obiettivo tentare di mostrare perché concetti come il mentalese non possono essere presi in considerazione, ovvero nel novero delle idee genuinamente scientifiche. Nell’ultimo capitolo, darò qualche indirizzo verso un’idea strettamente naturalistica del linguaggio e della comunicazione, senza aspirare in questa sede all’esaustività e alla spiegazione conclusiva. Ad ogni modo, prendendo le distanze dall’innatismo e dal modularismo, osserverò che v’è un altro modo di concepire il linguaggio in funzione delle caratteristiche del parlato e della percezione di concerto. Poche indicazioni per ora, in vista di un’elaborazione più sistematica. Qualora il lettore dovesse riscontrare qualche errore nell’interpretazione del lavoro degli studiosi citati, è chiaro che ciò debba intendersi come mia esclusiva responsabilità.

    Capitolo I - Alcune considerazioni sulla linguistica generativa: il profilo metafisico

    ​1. Pendoli e paradigmi scientifici

    Per comprendere il contesto in cui ci muoviamo, è opportuno fare qualche passo indietro nella storia del pensiero scientifico-filosofico e più precisamente agli anni Cinquanta del secolo scorso. È piuttosto chiaro che, in quei anni, Noam Chomsky rappresentò, da un lato, una risposta forte al comportamentismo1 di Skinner, che aveva sviluppato una scienza empirica troppo radicale, benché in linea con i principi darwiniani; dall’altro, rappresentò una reazione ai fallimenti del Circolo di Vienna, che da un lato aveva negato il valore conoscitivo della psicologia e dall’altro i dati di senso, per approdare ad un ideale logicista che doveva garantire risultati epistemologici sulla natura del linguaggio e sulla semantica. La risposta di Chomsky rappresentò un compromesso interessante con quest’ultima corrente di pensiero, la corrente analitica, dal momento che la linguistica generativa fu il tentativo di matematizzare gli schemi psicologici, a patto però di escludere tutto ciò che avesse a che fare con il dato psicologico immediato: esperienza sensoriale soggettiva e schemi comportamentali di superficie. Se voleva essere una teoria scientifica nei termini galileiani, la psicologia doveva liberarsi del bagaglio soggettivo, che è da sempre il fondamento della psicoanalisi – meno una certa nozione di inconscio. Questo era accettabile sotto il profilo logicista, perché la negazione dell’introspezione lasciava aperta la questione di come un individuo colga effettivamente i significati delle parole – questione che lo stesso Frege aveva lasciata aperta. L’esperienza non durò molto, poiché, come scrive Philip Lieberman2, i primi problemi della psicologia cognitiva si presentarono allorché fu chiaro che le strutture profonde, di cui Chomsky ipotizzava l’esistenza, non erano altro che una rielaborazione in lingua inglese delle strutture di superficie – con l’aggiunta di alcuni principi generali che dovevano regolare la meccanizzazione inconscia dei processi di pensiero manifesti, conformemente al modello di macchina universale di Turing. Questa difficoltà fu sottovalutata per alcuni decenni, finché negli anni Ottanta Chomsky non giunse all’idea di una rielaborazione teorica che lo portò ancora più vicino al paradigma logicista, ossia a nozioni e principi più astratti. L’idea dei principi e dei parametri che regolano l’esperienza cosciente, doveva essere la risposta giusta alla variabilità delle tassonomie linguistiche, considerate perciò alla stregua di epifenomeni (Fitch, 2010)3, determinati dalle condizioni al contorno ambientali e culturali. Chomsky rivendica quest’impostazione minimalista, rinunciando alla sfilza delle rappresentazioni profonde che, per ovvi motivi euristici, non potevano essere catalogate, risultando addirittura più complesse delle corrispettive forme di superficie. Se leggete gli ultimi lavori di Chomsky, noterete che non v’è più traccia dei tentativi di rappresentare effettivamente le caratteristiche computazionali implicite, anche se la X-Bar Theory4 suscita ancora un interesse smisurato da questo punto di vista. Possiamo ora fare due considerazioni importanti. La prima riguarda la convinzione dei linguisti del MIT che quella di Chomsky sia una teoria scientifica nel senso galileiano del termine. Qualcuno, come il sottoscritto, potrebbe obiettare che a tale impresa teorica manchi qualcosa perché possa dirsi scientifica – dello stesso parere sono ovviamente Philip Lieberman, ma anche Michael Tomasello5 e Vilayanur Ramachandran6. La seconda questione è se il comportamentismo sia o meno una teoria scientifica superata e irrecuperabile, o se viceversa essa non sia nuovamente sul campo, in una veste più illuminata e perciò rivisitata, se stiamo alle imprese degli studiosi del comportamento e della cognizione dei primati non umani o, ancora, alle recenti soluzioni senso-motorie all’apprendimento.

    ​2. Metafisica senza dogmi, o dell’importanza di chiamarsi Galilei

    Benché la chiamino spesso in causa, non è affatto ovvio che Chomsky e i suoi seguaci abbiano ben compreso i caratteri ultimi della scienza galileiana, ovvero il significato di quel metodo delle astrazioni, che da un lato fa certamente uso dei mezzi della logica per produrre dimostrazioni, ed è per questo senza dubbio una scienza di tipo deduttivo, benché solo in parte7. Quella di Galilei, in particolare, non è una scienza delle astrazioni con cui l’immaginazione può operare arbitrariamente, libera dalle briglie di certi principi generali che la ragione non può mai trascurare. Questo metodo delle astrazioni è di fatto ben diverso da quello che la tradizione analitica ha portato avanti nel secolo scorso. V’è, ad esempio, una profonda differenza rispetto alla logica dei mondi possibili per come è stata esercitata dai filosofi analitici, come Hilary Putnam – si pensi all’esperimento di Terra Gemella8 – i quali non forzano semplicemente la realtà ai suoi limiti salvando principi generali come la chiusura causale; questi esperimenti mentali spesso rompono con la realtà, ignorando le conseguenze sui comportamenti materiali dei costituenti della realtà fisica9.

    Galilei sviluppò esperimenti mentali, intendendoli però come casi speciali o eventi limite rispetto a quelli osservabili in natura, ovvero conformemente a certi principi chiari e distinti, che caratterizzano un quadro di coerenza razionale entro i confini dello spazio delle possibilità fisiche concepite positivamente. L’idea che la realtà non abbia più di tre dimensioni possibili10, ad esempio, è una conquista della sensibilità, a cui si applica un principio logico di economia piuttosto noto: il Rasoio di Occam, anch’esso asservito ad una verifica positiva (ossia dell’intuizione sensibile). Questo vale sia nel caso del principio di inerzia sia nel caso della legge di caduta dei gravi, due enunciati tra loro coerentemente connessi in un quadro teorico generale. La metafisica del principio d’inerzia sta tutta in quella formula un oggetto conserva il suo stato inerziale a meno che una causa non alteri questo stato, ossia nel principio di ragion sufficiente. Tale principio delimita, quindi, lo spazio di coerenza delle leggi di natura, di cui una descrive propriamente la caduta dei gravi. La legge è conforme al principio e ne rappresenta un caso speciale. A sua volta, la legge descrive i fenomeni e prescrive la possibilità di una previsione che non può violare la causalità fisica e, per l’appunto, il principio. Ad esempio, in assenza di un mezzo (l’aria) oggetti dal peso differente cadranno con la medesima velocità, ovvero percorreranno porzioni di spazio uguali in tempi uguali in direzione del loro centro gravitazionale. Cosa succede se ad un certo istante il centro gravitazionale viene meno? In assenza di un centro gravitazionale, due oggetti che procedono alla stessa velocità nel vuoto, continueranno nel loro percorso all’infinito, a meno che qualcosa non modifichi il loro stato inerziale. Il principio d’inerzia, così inteso, non fa altro che innalzare l’intelletto alle condizioni limite prospettate da questo quadro teorico. Non v’è nulla che sia contrario all’esperienza, o che trascenda l’esperienza. L’esperienza è semplicemente portata al suo limite, eliminando qui e là uno degli elementi che la caratterizzano, senza introdurre qualcosa di misterioso. L’espressione all’infinito, riferita alla condizione dei gravi, non va intesa in senso assoluto, potendo essere parafrasata nell’espressione fintanto che non incontrano un ostacolo. La stessa cosa vale nel caso del piano inclinato per il quale, tolte alcune condizioni naturali come l’attrito dell’aria e del piano, un oggetto continuerà ad accelerare fintanto che non avrà raggiunto il suo centro di gravità, e smetterà di accelerare se ad un dato istante verrà idealmente rimosso il centro di gravità – nel qual caso avremo la condizione generale espressa dal principio di inerzia. Come vedete, l’allontanamento dai fatti osservabili è solo fittizio, funzionale al metodo e conforme ad un modello di realtà.

    Una questione dirimente è di capire se la linguistica cognitiva di Chomsky sia coerente con tale immagine della scienza. Andando più nel dettaglio, si tratta di capire se alcune caratteristiche fondamentali della linguistica generativa, come la ricorsione o la non località delle relazioni grammaticali, siano nozioni che possano rientrare in un quadro scientifico analogo, anche solo in linea di principio. Proviamo a capirlo con un esempio. Dalla frase:

    A) Il ragazzo che mangiava il gelato è caduto.

    composta da una frase principiale e da una relativa, otteniamo la frase semplice:

    B) Il ragazzo è caduto.

    Questo è un esempio di come opera la ricorsione, introducendo in una struttura semplice un’altra struttura, la frase relativa che mangiava il gelato11. Chomsky sostiene che la ricorsione è il meccanismo logico profondo di formazione delle strutture sintattiche possibili – o, meglio, delle strutture corrette.

    La correttezza degli enunciati proferiti da un parlante, in tal modo, non è

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