Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

In un anonimo incredibile quartiere
In un anonimo incredibile quartiere
In un anonimo incredibile quartiere
Ebook587 pages9 hours

In un anonimo incredibile quartiere

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Il romanzo di Massimo Lucarelli Monarca rivela quanto da secoli la narrativa va esemplificando, ovvero "rivivere ciò che fu, rivivere improvvisamente e pienamente". Come scrive Pascoli, per ricreare, attraverso la parola, il tempo che fu, non da intendere come espressione generale, bensì come quella del proprio sentire, del battito del cuore che fa capolino nella mente. Ed è proprio attraverso il ricordo della propria terra natale, dove il cielo e il mare si fondono all'orizzonte che l'autore presenta il suo mondo fatto di voci e colori che l'Adriatico porta con sé. Nella Nativa Ancona, egli si rivede ragazzo, parla per voce di Simo e a lui affida il proprio essere ed essere stato. La vivificazione del passato nel presente per sfuggire all'oblio, questa potrebbe essere la sintetica descrizione di "In un anonimo incredibile quartiere", romanzo in cui lo scrittore regala un affresco di usi e costumi della sua terra, dove ai toni, volutamente aulici, alterna forma dialettali ed espressioni colorite per permettere al lettore di immedesimarsi nel suo mondo, dove chi ha vissuto la città sul mare nei suoi stessi anni si può anche riconoscere personaggio. Per questo "l'aemulatio vocis", che si registra in alcuni passi è funzionale alla resa veritiera del folklore locale. Un suono, un colore, una voce, gli permettono di ricordare ciò che vide una volta, ovvero "la vita e il suo travaglio". In questo romanzo compaiono tutti i risvolti dell'umana esistenza, da quelli più macabri indicati nel primo capitolo, a quelli più ironici degli ultimi, per arrivare alla conclusione dove il fanciullo, oramai cresciuto abbandona quei luoghi per un nuovo cammino; dove si spera la penna dell'autore ci voglia ancora guidare.

Francoise Strasser
LanguageItaliano
Release dateSep 2, 2015
ISBN9786050412086
In un anonimo incredibile quartiere

Related to In un anonimo incredibile quartiere

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for In un anonimo incredibile quartiere

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    In un anonimo incredibile quartiere - Massimo Lucarelli Monarca

    Ventiseiesimo

    In un anonimo incredibile quartiere

    Ai miei figli Cris e Max

    Prefazione

    Il romanzo di Massimo Lucarelli Monarca rivela quanto da secoli la narrativa va esemplificando, ovvero rivivere ciò che fu, rivivere improvvisamente e pienamente. Come scrive Pascoli, per ricreare, attraverso la parola, il tempo che fu, non da intendere come espressione generale, bensì come quella del proprio sentire, del battito del cuore che fa capolino nella mente. Ed è proprio attraverso il ricordo della propria terra natale, dove il cielo e il mare si fondono all'orizzonte che l'autore presenta il suo mondo fatto di voci e colori che l'Adriatico porta con sé. Nella Nativa Ancona, egli si rivede ragazzo, parla per voce di Simo e a lui affida il proprio essere ed essere stato. La vivificazione del passato nel presente per sfuggire all'oblio, questa potrebbe essere la sintetica descrizione di In un anonimo incredibile quartiere, romanzo in cui lo scrittore regala un affresco di usi e costumi della sua terra, dove ai toni, volutamente aulici, alterna forma dialettali ed espressioni colorite per permettere al lettore di immedesimarsi nel suo mondo, dove chi ha vissuto la città sul mare nei suoi stessi anni si può anche riconoscere personaggio. Per questo "l'aemulatio vocis, che si registra in alcuni passi è funzionale alla resa veritiera del folklore locale. Un suono, un colore, una voce, gli permettono di ricordare ciò che vide una volta, ovvero la vita e il suo travaglio". In questo romanzo compaiono tutti i risvolti dell'umana esistenza, da quelli più macabri indicati nel primo capitolo, a quelli più ironici degli ultimi, per arrivare alla conclusione dove il fanciullo, oramai cresciuto abbandona quei luoghi per un nuovo cammino; dove si spera la penna dell'autore ci voglia ancora guidare.

    Francoise Strasser

    In un anonimo incredibile quartiere

    Capitolo Primo

    Distava meno di due metri dalla battigia, giaceva disteso in posizione prona, il torace rivolto all’ingiù, il volto incastrato tra le rocce, un braccio, quello sinistro poggiava allungato verso l’Adriatico. Vedendolo, sembrava quasi che segnalasse d’essersi fermato, che volesse indicare dove sussiste il confine tra la terra ed il mare o forse che indicasse la sua dipartenza verso il cielo. Gli spruzzi delle onde e la salsedine notturna lo avevano inzuppato, era immobile, era arreso, era morto. Alla vista si contraddistingueva la bianca divisa di marina, adesso sporca di terra, lacerata in più punti, maculata di sangue intriso. Era un’immagine agghiacciante quella che vide Nestore, l’ignaro pescatore capitato sul posto. La testa del marinaio deceduto, acconciava i capelli corti, come prevede il regolamento militare, biondicci e sottili. La nuca si svelava sventuratamente rovinata e tumefatta in più punti. Da quell’essere oramai immoto v’erano distintamente riscontrabili escoriazioni distribuite sull’intero corpo, chissà quante e quali potevano essere le ossa rotte e, chissà a che ora e come gli era successo di precipitare da lassù, dall’alto della base. Era quanto si chiedeva quel pescatore sconvolto davanti a lui. Ancona sorge su tre colli, una lunga cordigliera perimetrale l’abbraccia da nord est che si conforma di rocciosi costoni composti di arenaria friabile, e che in certi ripidi s’alza sino a raggiungere i cento metri; i quali compaiono ossequiosi d’arrestarsi dirimpetto l’enorme eremo: il Monte Conero. Su quei mirabili contrafforti, in difesa dell’atavico pericolo pervenuto dal mare, da decine di lustri la Marina Militare serbava potenti batterie costiere. Del resto allo scoppio del primo conflitto mondiale, nella tragica notte del 24 Maggio 1915, in barba all’allora diritto delle genti, la città subì la stura delle prime ostilità belliche. Una squadra composta di 24 navi austroungariche proveniente dalla costa dalmata, allineatesi a poche miglia del quartiere Cardeto, al primo chiarore dell’alba aprì il fuoco. Non per ironia ma per somma inefficienza, quel giorno a difesa della città, ci fu in rada soltanto un sottomarino, definibile per tecnologia ed efficienza un mero prototipo di quel vascello temibile che i tedeschi dimostrarono d’avere col tempo a venire. Sicché in quel tragico albeggiare la flotta di Francesco Giuseppe non fece altro che farla da padroni. Alla città non restò che contare le devastazioni ed il riconoscimento di 55 vittime. Quel bombardamento navale fu l’accensione del primo scontro bellico che precorse e sancì l’entrata italiana nella Grande Guerra. La tregenda rivelò che il cannoneggiamento fu una rappresaglia al ritenuto tradimento italiano, quindi voluto per infierire sulla popolazione. In tema di lotte armate la prima guerra mondiale principiò una nuova era, di gran lunga più empia di qualsiasi precedente, giacché attestò che lo stragismo sui civili adesso disponeva della moderna tecnologia. Da allora il progresso tecnologico si portò appresso quel tragico martirio che avrebbe circuito il corpo sociale. Da allora, la popolazione fu soggiogata a patire la medesima sorte che precedentemente spettava ai combattenti al fronte. Quel bombardamento navale confermò che il capoluogo andasse assolutamente difeso con i cannoni e protetto da fortificazioni, come conviene quando si è sottoposti alle temute invasioni dal mare. Cenni storici cittadini, annotano che nel 839 una terribile incursione perpetrata dai funesti pirati saraceni rase al suolo la città. Sempre ad Ancona, a ritroso del tempo, oltre alle terrorizzanti razzie provenienti dal mare, è significativo ricordare l’invitto blocco navale avvenuto nel 1174 effettuato dalla flotta veneziana, mentre in simultanea l’esercito imperiale del Barbarossa alleatosi con La Serenissima assediava da terra l’irriducibile città. Questa volta andò bene sia contro i veneziani che col cobelligerante esercito imperiale, poiché alla strenua difesa d’Ancona giunsero in soccorso il Granducato di Ferrara e mezza armata romagnola. Si rammemora negli annali locali, di perniciosa sorta le ricorrenti calamità naturali, quali terremoti, alluvioni e persino un maremoto, sebbene di smisurata sventura fu l’avvento della nefasta, sterminatrice pestilenza. Tornando alla presente tragica notte, mentre il modesto pescatore chiamato Nestore Schiavoni, armeggiava taciturno alle proprie reti volto a guadagnarsi una generosa pescata. E quel rinvenimento lo colse quasi da fargli venire un infarto. Nestore risaputo come persona per bene, era sin da giovanetto dedito alla pesca. Da tempo s’affaccendava con fatica, in solitaria compagnia di se stesso piuttosto che associarsi, consorziarsi a colleghi di professione ittica. Questo perché era fermamente scevro dal dividere con altri i frutti del mare. Aveva ancorato il vecchio barcone, chiamato battana, al solito punto della baia, sebbene mai e poi mai avrebbe immaginato che sul finire della notte sarebbe stato testimone d’un indimenticabile, truce accadimento. A notte fonda, con abitudinaria lentezza aveva finito di immergere le nasse, gettate le reti, mentre la quiete marittima gli aveva rinfrescato il viso con periodiche brezze. Coccolato dalle onde, mentre zeffiri soavi accompagnavano alle sue nari l’inestinguibile salutare, salsedine iodata, avvinto da semplici pensieri tra il dondolio della corrente scorreva serafico il tempo. Alle cinque del mattino col sopraggiungere dell’albeggio, cosi bello quando perviene dal mare che rinnova di disciplinato bisbiglio l’esistenza, con flemma prese a ritirare il pescato. Nestore non ancorava la barca distante da terra, disamorava allontanarsi dalla costa, giacché essendo solo e oramai settantenne era consapevole che la morte cominciava a corteggiarlo. Quindi decisamente convinto di non assecondarla, riteneva più prudente, anzi salutare starsene vicino a riva. A conferma di ciò, lo stesso spirito avventuroso d’una volta gli si era da tempo stemperato, sicché s’accontentava di minor pesce ma pigliato in acque meno profonde. La scelta del punto pescoso era oramai fissa in quell’ameno e solitario litorale scortesemente soprannominato dai cittadini: Cagò, ciò a cagione degli adiacenti grandi filtri depuratori adibiti agli scarichi urbani che lo lambivano. Sulla marea in lieve movimento una magnifica luna piena, enorme ed arancione sovrastava luccicante; era una luna ridente ed accesa vigile su un mare tranquillo, reputabile come una dolce dea che salvaguarda i pescatori. Il lavoro odierno era quasi finito, merluzzi in buon numero, decine di sogliole e qualche sarago comparivano rovesciati e dibattenti sulle ceste. Gli sventurati pesci in stato di asfissia balzavano annaspando nell’estrema ricerca d’acqua, ignare creature che a breve si sarebbero inevitabile trasformate in nutrimento per i voraci palati umani. Si sedette esausto a poppa, girò lo sguardo ad est verso l’orizzonte dove stava sorgendo il sole, rivolse con nostalgia alle coste dalmate: Zara, Spalato, Ragusa, Pola, che vent’anni addietro erano suolo patrio e che gli furono gaudenti visitazioni nei giovanili anni ante guerra. Nestore reggeva in se l’essenza del pescatore connaturata alla pazienza ed al senso di fatalità tipico dei naviganti, lo palesava dal volto rugoso arso dai raggi solari, rinsecchito dalla salsedine e sferzato dai venti. Adesso nel flemmatico sospiro della risacca e dal dondolio delle onde adorava lasciarcisi teneramente cullare. Si accorse che in quell’aura di compresenti dolcezze stava per cedere al sonno, appisolarsi non era certo il caso. Reagì dandosi uno scossone, stese le braccia e si voltò sulla spiaggia, un luogo tanto scomodo da raggiungere a piedi, privo di camminamenti, scosceso e senza stradello. Per arrivarci si fa fatica, volendo lo si effettua soltanto tramite uno scomodo percorso da trekking che s’avvia dal litorale chiamato Passetto. Di fatto gli estivi bagnanti a recarcisi erano più rari che sparuti, dacché sovrastante s’alza una ripa sgretolabile di un’ottantina di metri e per di più sfornita di passaggio, inoltre come specificato, le sue friabili pareti soventemente, malauguratamente franano. Intanto nell’attorno si percepiva garbato il sussurro del mare, il silenzio indetto dalla signora notte regnava ancora sovrano, quantunque in punta di piedi essa stesse avviandosene via. In quegli ultimi istanti di tenebre, la padrona delle tenebre concedeva una deroga, lo faceva tollerando lo stridio gracchio, petulante degli insonni, inesausti gabbiani. Adesso Nestore guardava verso terra, s’accorse che qualcosa nella inframmettente penombra, al di là degli scogli, tra le rocce biancheggiava, non ci fece caso, congetturò che tanto quaggiù in cotanto impervio luogo non ci veniva nessuno, figurarsi poi se di notte. Ma rimuginando gli pareva che quella forma sembrasse umana. I suoi occhi fissavano e si aprivano contesi all’immobile indistinta figura, per poco mantenuta dalle tenebre come fosse un enigma crepuscolare. Eppure se lo sguardo disegnava una figura umana, il ragionamento lo conduceva ad identificare cosa potesse effettivamente essere. Si intestardiva ad immaginare cosa fosse quella cosa che lo confondeva. S’aspettava di tutto ma meno che si trattasse d’un uomo. Pian, piano s’alza il sole e la luna scontenta gli deve lasciare il posto, i raggi si compiono dorati, lentamente la luce s’accende, ora ci si vede nitidamente, accidenti quello che appare è proprio un corpo umano, è immoto, è rovesciato, posa a pancia ingiù. Da quel momento ad Nestore sale la pressione arteriosa, il cuore gli batte fitto, spera invocando la Madonna del Duomo d’essersi sbagliato. Vuole credere che siano dei sacchi d’immondizia gettati dai soliti menefreghisti, sporcaccioni concittadini; però questo avviene più a nord della costa, giusto sotto il Campo degli Ebrei, qui dall’alto è zona militare è presidio della Marina, quindi non è possibile che qualcuno si permetta scaricare da lassù. Adesso i battiti gli vibrano tra le tempie, l’animo è preso d’ansia, solleva l’ancora, mette in moto e decide di muovere a terra. In meno che non si dica s’accosta alla battigia, spegne il motore; il natante compie un breve abbrivio e lievemente s’arresta a due metri, getta l’ancora, assicura la barca e scende. Sopra i pantaloni di spessa tela indossa un paio di stivaloni da pescatore che lo coprono sino alle ginocchia. Muove meno di sette passi ed esce pianamente dall’acqua, ha le gambe tremule, si avvicina e si trova davanti giacente un marinaio. Quello che gli è immobile difronte è un giovane di leva, è medio alto, fisicamente robusto, i capelli sono castani. Prova a chiamarlo ma quell’unica presenza animata che sente attorno è la sua voce. Vuole farsi coraggio, sono passati almeno vent’anni dalla guerra, lì si che li ricordava quei tristi momenti, lì si che li aveva veduti i morti, le innumerevoli persone decedute, dilaniate sotto i bombardamenti. Osserva il viso dello sconosciuto, esposto di profilo, il solo occhio che gli compare alla vista è chiuso, delicatamente gli afferra il polso ma, quel polso è fermo non emette battiti e purtroppo è anche spaventosamente freddo. Capisce con orrore che da quel corpo non c’è più un alito di vita. Quanto aveva appena temuto si era avverato, Nestore pescatore pensionato si trova ad essere l’unico, sfortunato testimone di una disgrazia appena sopravvenuta. Si fa il Segno della Croce, dice una prece, aspetta ancora una scansione di tempo e medita. E’ consapevole di non aver rimosso il cadavere ne di aver toccato alcunché, quindi con l’animo in spalle risale subito sul barcone, mette in moto e punta il verso nord. Non si rese nemmeno conto che stava navigando, anzi tirava senza riguardo il collo al vecchio motore marino, smontato e rimontato e svariate volte revisionato. Faceva rotta così forte che la prua gli si era talmente alzata, sino al punto a scorgere a fatica il tratto di mare che stava perseguendo. Traversò sotto le grandi mura di sostegno del duomo di San Ciriaco, costeggiò il Cantiere Navale ed in meno di venti minuti entrò nella rada. Accostò sul molo della Capitaneria di Porto e diresse animato al comando dei Carabinieri. A quell’ora un assonnato appuntato si trovò davanti uno sconvolto, ansimante pescatore, pensò che gli avessero salpato le reti del pesce, o che col favore delle tenebre gli avessero sottratto qualcosa dalla barca. Ma quel che il sopravvenuto concitatamente gli disse non era da poco Nella spiaggetta, giù dalle ripe del Cagò, sottostante la batteria Costiera della Marina Militare, poco fa, al primo albeggio ho visto il corpo d’un marinaio morto sulla riva. Prese fiato, congiunse le mani. Ho accostato con la barca, mi sono avvicinato era disteso, insanguinato. Secondo me c’è cascato di sotto, forse un capogiro e chi lo sa? Povero ragazzo! Il carabiniere per tranquillizzarlo lo fece subito sedere, gli offrì un bicchiere d’acqua e subitamente avvertì il comandante di turno. In meno di quindici minuti salpò una lancia in direzione del posto. Adesso il tragitto gli divenne più corto, in un attimo uscirono dalla baia e ci misero meno di quindici minuti di navigazione per essere sul luogo. A quella velocità ad Nestore restò poco tempo per rimuginarci su. Il testimone ed altri tre carabinieri si imbarcarono sul gommone per portarsi all’approdo, il quarto milite quello pilota restò a bordo nel potente fuori costa.

    Il maresciallo si rivolse ad Nestore Lei dunque dice di non aver toccato niente, gli ha preso solo il polso e poi constatatone il decesso ha riposto il braccio dov’era, è andata così? L’anziano lo fissò sul volto con rassegnata mestizia E’ esatto signore, quando la luce ha illuminato sufficientemente la spiaggia mi sono avvicinato per vederlo. Quando l’ho visto, beh non ho trovato il coraggio di girargli la testa ne di guardarlo in faccia. Ho pensato di non toccare niente e soltanto di chiamare voi. Il sottoufficiale si passò una mano sulla fronte, si carezzò il mento ed aggiunse Ha fatto bene, tra non molto arriverà il magistrato e la scientifica, sarà avviata l’inchiesta, faremo i rilievi, le fotografie poi lo trasporteremo all’obitorio. Lei comunque dovrà seguirci in caserma, ci rilascerà una dichiarazione da verbalizzare, sicché da quel momento ci penseremo noi. Con compassionevole delicatezza coprirono con un lenzuolo il corpo del deceduto ed in segno di rispetto si spostarono ad una ventina di metri da lui. Nessuno aveva voglia di parlare e nessuno si mise a fumare, ognuno si trattenne dal farlo. L’alba oramai s’era levata del tutto ed un sole raggiante splendeva in alto finché in meno di un’ora accostò un potente motoscafo della Polizia Marittima, sempre con un gommone sbarcarono gli esperti della scientifica, stavolta comandati da un capitano affiancato dal pubblico ministero, il dottor Osvaldo Porioni. Questi era un giovane appena trentenne, fresco di nomina, capelli ricci e castani scuri, di altezza media, viso da ragazzo, fisico atletico per passione incallito giocatore di basket. Da quel viso che sembrava quello di un comune giovane uomo, si nascondeva un rigore ed una grinta inaspettata. Egli si guardò subito attorno, camminò lentamente, piegò le gambe e si accovacciò vicino al cadavere. Prese a scrutarlo attentamente, dopo un dieci minuti di attenta osservazione s’alzò e cominciò a setacciare qualsiasi traccia ed indizio che potesse scovare attorno. A dieci metri dal ritrovamento del corpo, tirò fuori dalla saccoccia un fazzoletto e con quello raccolse il cappello di servizio del marinaio. Il p.m. Porioni senza proferire parola rielaborava calcoli, distanze, dislivelli e geometrie, ogni tanto voltava lo sguardo in alto, si grattava la testa e rimuginava. Allora rivolgeva lo sguardo ancora in alto e poi verso la parete rocciosa. Era passata meno di mezz’ora, un altro grosso natante stava avvicinandosi, stavolta apparteneva alla Marina Militare, sbarcarono il comandante della base che accompagnava un magistrato militare, il dottor Erminio Sciaboloni. Che stress stamani, dopo un brusco risveglio notturno, il tempo di lavarmi e vestirmi, di salire su una macchina della Marina sicché a razzo parto da Forlì, abito appresso il Distretto Militare ed in meno di due ore mi presento nel porto d’Ancona ed eccomi qua. Dunque proviamo a capirci qualcosa da questa tragica faccenda.

    In Italia in tempo di pace, in favore alla procura militare, è conferito ad un magistrato, espressamente civile, d’esercitarne l’incarico giudiziario. Questo perché la costituzione sancisce la piena indipendenza della carica giudiziaria da qualsiasi forma d’ingerenza. Ne conviene che è fatta legge, che il giudice militare debba esclusivamente provenire dalla magistratura ordinaria, chiaramente specializzatosi ad applicare procedure, leggi e sanzioni promanate dal vigente Codice Militare. Si avvale di ufficiali per portare a compimento le indagini e parimenti essi ne compongono la fase istruttoria, mentre il consiglio preordinato al verdetto del Tribunale Militare è naturalmente composto da alti ufficiali. Come nella magistratura ordinaria egli prende conferimento per concorso e lo esercita esclusivamente in ambito di reati perpetrati da militari. I due colleghi si parlarono, da una parte per la procura ordinaria prendeva incarico il giovane p.m. Porioni, per la procura militare in equivalenza di competenza istruiva l’inchiesta il maturo dott. Sciaboloni. Questi era un magistrato notoriamente esperto, per quanto fosse alla soglia della pensione aveva conseguito notevoli successi. Occhi chiari, asciutto nel corpo e piuttosto alto, capelli canuti quanto basta lunghi per farlo sembrare più un direttore d’orchestra che giudice, incedeva con passo altero sebbene nella condotta non si desse arie. Prima d’ora i due procuratori non s’erano mai visti, ne conosciuti, il fine che li aveva fatti incontrare ne favorì inequivocabilmente fattiva intesa. Ambedue concordarono che solo a seguito del responso dell’autopsia avrebbero potuto sciogliere una prima riserva pertinente al caso. La seconda fase avrebbe dovuto evincere se il marinaio fosse morto sfracellato contro le anfrattuosità rupestri o se fosse, caso mai deceduto prima della presunta, fatale caduta. Convennero che per adesso ai precisi rilievi che avrebbero potuto definire se il punto del ritrovamento del corpo fosse quello corrispondente alla morte, o se invece qualcheduno l’avesse, col favore delle tenebre, dolosamente trasportata. In quel caso l’istruttoria avrebbe preso tutt’altro corso, tutt’altra pista da seguire. A proposito il p.m. Porioni espresse la proposta Nel comune buon fine dell’indagine preliminare, sono a chiederle di procedere nelle osservazioni di comune accordo, scambiandoci in perfetta sinergia ogni informazione. E’ pur vero che trattandosi d’una faccenda militare rientra nella vostra espressa competenza, quantunque il ritrovamento del corpo sia avvenuto in terreno demaniale, ovvero nella zona pertinente l’autorità civile, dunque fuori dalla giurisdizione militare. Ipso facto qualora si ravvivasse reato di omicidio: colposo, preterintenzionale o volontario, coinvolgente i civili, per inteso viene avocata anche la nostra competenza. Per adesso senza elementi contradditori parrebbe un incidente, forse un suicidio ma, sarà più facile da stabilire concertando se sussiste una lettera chiarificatrice, oppure tramite una pertinente interrogazione sulle recenti frequentazioni del deceduto. Ci sarà da ascoltare qualsiasi testimonianza che accertino ipotizzabili depressioni, malinconie, delusioni ecc. in ogni caso la relazione istologica dell’anamopatologo ne determinerà l’inchiesta. Il procuratore militare assentì ma, non avendo ancora visionato il cadavere accennò con la mano d’esserci accompagnato. Così fecero, dopo un’attenta valutazione egli condusse in disparte il giovane magistrato, dott. Porioni come lei ha appena espresso, a prima vista sembrerebbe un incidente. Concordo che non ci lasceremo indurre dalle apparenze e che aspetteremo i risultati scientifici, che sono le prime irrefutabili prove oggettive. Nel frattempo indagherò a tutto campo, escuterò marinai, graduati e civili compresi. Sentirò ognuno all’interno del presidio che sia in grado di fornirci qualsiasi indizio, alla fine della investigazione le trasmetterò gli atti secretati. Se ci dovessero essere sviluppi che coinvolgano elementi in ambito civile. Allora ben venga l’intervento del suo mandato. : Diceva Wittgenstein: è meglio conoscere ciò che non si può ignorare quindi conoscerlo sapendo d’averlo riconosciuto. Anche se ai militari non piace l’ingerenza della procura ordinaria, specialmente qualora un suo magistrato ordinario faccia indagini in casa sua, noi invece onoriamoci con deontologia di trasgredirlo. Comunque qualora dovessimo trovarci nella faccenda peggiore, quella dell’assassinio, insomma se l’hanno buttato giù, beh, noi agiremo come dovuto. Personalmente escluderei che un civile per assassinare un marinaio, osi consumare un delitto penetrando all’interno della zona militare. Immagino che la volontà di una premeditazione delittuosa se l’avessero avuta l’avrebbero chiaramente perpetrata in un luogo esterno alla base. Speriamo che non sia andata così, rimane il fatto che se evento delittuoso c’è stato, commesso da marinai, in quel caso l’indagine va svolta come si suole a tappeto. Insomma ad ognuno il proprio lavoro.

    Nel frattempo che tutto era stato rigorosamente concluso, fotografie e raccolta di indizi, mentre si stava per issando a bordo il corpo per l’obitorio, il Porioni si soffermò ancora una volta ad ispezionare il cadavere. Quindi chiese agli esperti della scientifica d’aspettare un momento, voleva esaminare alcune piccole ferite. Gli aprì le braccia, osservò la mani, la destra aveva escoriazioni all’interno del palmo della mano, notò lievi abrasioni nelle dita, idem alla sinistra. Congetturò che cadendo egli avesse cercato d’aggrapparsi ad un appiglio, a delle rocce, a qualsiasi cosa. Ciò confermava l’estremo tentativo per salvarsi la vita. Ma un ultimo indizio lo colpì profondamente, l’esterno della mano sinistra proprio sulle nocche, denotava delle tumefazioni, chiamò accanto il collega Sciaboloni e sottovoce elencò Immaginiamo che uno di noi stia precipitando, è chiaro che su tutto il corpo si contraggano delle ferite e lesioni, ma, la probabilità di tumefare le nocche della mano, sinceramente mi sembra alquanto rara, mi piacerebbe sapere se il deceduto era in vita un mancino, lei cosa ne pensa? Colto alla sprovvista l’anziano magistrato annuì Complimenti dott. Porioni, non avevo fatto caso a questa sua scoperta, certo che se si tratta d’un mancino, potrebbe benissimo essersi tumefatto il dorso della mano tirando un pugno, sia difensivo che offensivo, comunque pur sempre di cazzotto si tratta.

    L’avvenuta autopsia evinse: Si certifica che il sottocapo Calibano Cencioni, di anni 20, nato a Fano ed ivi fu residente, risulta deceduto nella sera del 25 maggio attorno alle ore 21. Il procurato decesso, si deduce sia stato causato da un rovinante trauma cranico, concausa di irreversibile commozione cerebrale indi congiunto collasso cardiaco. Si accertano inoltre quattro ferite ridistribuite su tre regioni della nuca, probabilmente causate dall’impatto sulle rocce. Si constata inoltre sul deceduto ferite lacero contuse diffuse su tutto il corpo, vistose fratture sia alle costole che nelle vertebre. Pletorico dissanguamento, già evinto sul luogo del ritrovamento. Dagli esami microscopici effettuati sono state rinvenute sul corpo polveri calcaree e sabbia di mare, evidenti comprove pertinenti la zona di rinvenimento. Il pronunciamento diagnostico di quanto particolareggiato i due magistrati lo avevano precedentemente letto nello specificato responso peritale emesso dal Chiarissimo prof. anamopatologo dott. Ginesio Zamponi ordinario della Università di Bologna. Nel riquadro generale, un quasi inosservato dettaglio faceva pensare che questo decesso non si potesse archiviare ne come suicidio ne come incidente. 1) Le nocche della mano sinistra non si ritiene provocate dalla appurata caduta che lo rovinò dal burrone, bensì innegabilmente dovute ad un forte colpo diretto ad un ostacolo. E’ ipotizzabile sia la presumibile causa generante la tumefazione. 2) Dalla testa del cadavere si evince che fra le quattro fratture riscontrate, una precipua lesione è caratterizzata la più estesa. Dai riscontri è reputata di difficile determinazione: se da caduta o da percussione provocata a mezzo d’un oggetto contundente. In ogni caso non si ritiene possibile produrre un responso di assoluta certezza. I due magistrati si guardarono cupi in volto. prendeva l’avvio, da quel momento, di due istruttorie parallele. Da parte della procura militare fu confermato che il sottocapo Calibano, era mancino e non aveva mai manifestato precedenti volontà suicide, ne atteggiamenti depressivi, ne risentimenti verbali concernenti insofferenza alla coscrizione obbligatoria. Quella stessa sera della morte egli era in permesso straordinario di libera uscita, un primo accertamento verteva se si fosse incontrato con qualcheduno. Essendoci più persone da interrogare, in maggior misura sarebbero affiorate circostanze che sovente comprovano gli indizi. In questa linea cominciava a muoversi il p.m. Sciaboloni. Di militari da sentire e da incontrare se ne sarebbero escussi a decine, qualcosa d’interessante sarebbe sicuramente venuto a galla. L’istruttoria fece affiorare che nei confronti del defunto Calibano c’era in atto una sorta di nonnismo, ma non da parte dei soliti anziani prossimi al congedo, avvezzi a quella inestinguibile negativa tradizione. Pare invece che un sergente, un certo d’Ascanioni Ascanio soprannominato Accio, era definito dalla truppa con svilimento ed acredine firmaiolo di bassa carriera. Dalle numerose testimonianze risulta che ce l’avesse su proprio con lui. Ed era questo sedicente Accio che il magistrato militare Sciaboloni volle subito sentire, però prima d’incontrarlo congetturò. Accio, beh se gli hanno messo quel soprannome, adesso che ricordo, si richiama un notorio personaggio negativo dei fumetti, certamente se glielo hanno appioppato una ragione deve pur esserci. Bene, a questo punto andiamo a conoscere questo Accio tipaccio, vediamo cosa mi racconta e come si comporta il notorio sergente che teneva tanto in antipatia l’estinto Calibano. Contrariamente alla prassi molto italiana che prevede di accentrare ogni attività, in questa istruttoria all’incontro con i sergente Ascanio d’Ascanioni il magistrato Sciaboloni invitò con facoltà interrogatoria anche il collega p.m. Porioni. Quando il sergente soprannominato Accio entrò nell’ufficio del comandante della base, notò che proprio il comandante era assente, vide due uomini in abiti civili, si guardò attorno con circospezione, Salutò e si presentò Buongiorno, sergente d’Ascanioni Ascanio, debbo ritenermi a rapporto, con due borghesi. Ambedue si presentarono, specificarono i loro mandati. L’interrogato palesò di non sentirsi a suo agio ma nemmeno più del dovuto. Cominciò ad intuire che volessero sapere a riguardo del Cencioni e delle pessime relazioni fra loro. Ma verità voleva che si sentisse più di tanto intimorito. Ascanio d’Ascanioni non aveva certo un’espressione simpatica, ne forse era a conoscenza d’essere versato allo sgradevole, come il prossimo unanime gli riconosceva. Del resto si dice che sia raro riconoscere il molesto di se stessi. D’altezza medio alta, robusto e nerboruto, scuro di capelli, naso aquilino, gote infossate, sguardo in tralice, atteggiamenti autoritari, servilismo e piaggeria, questo dimostrava l’inquisito e questo era quanto era emerso dalle recenti testimonianze escusse. Ad ambedue i magistrati la persona non piacque, bisogna però riconoscere che egli ci mise del suo per metterli di comune accordo. In ogni caso, sia per deontologia che per senso del dovere, un buon investigatore non si deve condizionare dalla simpatia o dall’antipatia dell’indiziato, in altri termini la sgradevolezza del personaggio non incise sul giudizio della legge. Cominciò lo Sciaboloni Si accomodi sergente. L’altro ieri sera lei vide il sottocapo Calibano Cencioni?, in caso di affermazione ci dica a che ora? Prego, ci dica. Egli prima di rispondere fissò bene in faccia ambedue gli interlocutori. Dunque, siccome il sottocapo Cencioni era sotto il mio comando, quella mattina l’avevo incaricato di provvedere alla corvè che si sarebbe conclusa nel primo pomeriggio. Il sottocapo m’aveva obbedito però svolgendo male il lavoro, quindi ho dovuto contestarlo ma, coi dovuti modi s’intende, poi nient’altro. Dopo di che non l’ho più visto. A sera, essendo sergente, come voi intendete ceno alla mensa sottoufficiali e, lui chiaramente con la truppa. Di fatto le nostre strade si sono separate, così s’è conclusa la giornata e non l’ho più visto. Come tutti quanti nella base, il giorno dopo vengo a sapere della disgrazia e cioè che il Cencioni è malamente precipitato nel baratro. Poveraccio, mi spiace per lui. Mi rendo conto che ha fatto, così giovane una brutta fine. Questo è tutto. I due magistrati non parlarono per almeno due minuti, ci fu un silenzio generale che Accio non gradì, allora egli fece richiesta di fumare e per risposta con un cenno di assenso lo Sciaboloni gli dette consenso. Mi dica sergente d’Ascanioni, come mai ordina ad un sottocapo, che se non sbaglio nell’esercito corrisponde al grado di caporale maggiore, di svolgere la mansione di bottinaio, ovvero di vuota cessi. Per farla breve, lei gli fa pulire le latrine? Un incarico, che in marina viene chiamato in maniera denigratoria del serpante. E non s’impartisce ad un graduato, semmai alle reclute e generalmente a quelle indisciplinate. Diciamolo chiaramente si fa con quelle prese di mira. A quel punto il d’Ascanioni cambiò tono e passò al contrattacco Non è vero che certi lavori non li possa fare un sottocapo, dove sta scritto? Per me il Cencioni era uno come gli altri. Dite un po’, ditemi dove si voglia arrivare, che la colpa è mia se è morto. Cosa devo dirvi che l’ho spinto giù dalla ripa?, a questo siete sopraggiunti? Signori magistrati!, allora vi ripeto che con me vi sbagliate di grosso. Io nel dopo cena il Cencioni non l’ho più incontrato, l’ho veduto l’ultima volta verso e 17. Se non mi credete ci sono i testimoni. Il silenzio dell’interlocutore stavolta durò poco. Ci risulta che il mattino antecedente la fatale caduta del Cencioni, lei abbia avuto con lui un virulento alterco, le sue parole furono: Ti mando a Gaeta se non pulisci i cessi, uno come te, un pezzo di m puntini, puntini, deve stare nel suo habitat. Testimonianze firmate ed ascritte agli atti affermano che alcuni marinai intervennero per trattenere il Cencioni che la stava aggredendo, per contro lei ordinava ai sottoposti di lasciarlo fare, non è così? Nemmeno tanto sorpreso egli ribadì Di questi fatti ne succedono uno al giorno, in ogni caserma, in ogni nave ed in ogni aeroporto. E allora, credete che la vita militare sia fatta solo di fanfare, medaglie e bandiere? Ribadisco che io non spingo la gente dai precipizi. I due magistrati si guardarono in volto, allora lo Sciaboloni annuì al p.m. Porioni facendogli segno che poteva interrogarlo, e questi con piglio severo prese la parola. Nessuno di noi sinora ha pronunciato questa considerazione, ossia una presunta spinta giù dal costone, le rammento che lei volontariamente l’ha espressa per ben due volte. Inoltre, da questo momento rientro nella mia giurisdizione quale pubblico ministero che indaga su reati coinvolgenti i civili. Lei conosce una certa rinomata, signorina di nome Deianira? Di professione passeggiatrice o se vuole elargitrice di sesso a pagamento. Interruppe il sergente Vuol dire quella zoccola? Si so chi è, qui è famosa. Ci fu un’altra scansione di silenzio ed a bassa voce aggiunse Mi ascolti bene sergente, secondo incontestabili testimonianze, lei ha ripetute volte deriso il Cencioni dicendogli d’essere fidanzato con una, usando la stessa affermazione uscitale pocanzi di bocca: zoccola. Le sue irrisioni continuarono asserendo che presto sarebbero diventati marito e moglie. Non è così? A quel punto il sergente cominciò a mostrare segni di impazienza. Sentite, nel mondo militare si scherza anche troppo, a volte si offende, è vero, col povero Calibano posso aver esagerato un po’, ma solo perché ritenevo che con quella tipa egli non fosse più soltanto un cliente fisso, addirittura sembrava l’unico. A detta di tutti quella relazione era diventata qualcosa di diverso. Io ho trentacinque anni e pensavo di dargli un buon consiglio, probabilmente l’ho fatto nel modo sbagliato. Ancora una lunga scansione di silenzio, finché riprese il magistrato militare Sciaboloni. La sera dell’incidente e, non ammetto che lei non rammenti quanto fece l’altro ieri, dunque ci dica con precisione dove si trovava dalle ore 20,30 alle 22,00. A riguardo di questo limitato spazio temporale, lo affermi con precisione, non si ammette nessuna approssimazione. Pertanto, privo di qualsiasi tentennamento egli rispose Ero nella mia branda a sentire la radio e la ragione per cui fossi nella mia stanza è presto detta, la mattina seguente avrei preso servizio alle 6. Regnava silenziosità ed in quel momento, e quei quattro occhi inquisitori puntati in faccia, erano volutamente generati per recare sgomento all’inquisito. E fu così che il sergente sottoposto a pressione si sentì talmente disagiato da percepire uno stato di dubitativa agitazione. E così quello che i giudicanti si prefissero di raggiungere, ebbene avvenne. Finché lo Sciaboloni nel silenzio generale, avendone constatato il disagio decise di congedarlo lasciandolo meditare col proprio timore. Per adesso la ringraziamo delle risposte, se ci saranno novità non manchi di farcele sapere, può andare. Il sergente prontamente s’alzò, rinfrancato di cambiare aria s’infilò il cappello bianco d’ordinanza, salutò militarmente ed uscì senza dire una parola. Dott. Porioni cosa ne pensa? Lasciamo perdere che costui non sia certo una cara persona, e che la Marina di questi individui farebbe bene a non prenderseli, anche se non è facile intuirlo prima d’arruolarli. In ogni caso, è acclarato che tra i due c’era della ruggine, però l’epilogo che il Cencioni sia stato gettato morto dalla rupe, o che ci sia stato spinto mi sembra difficile da supporre e, altrettanto da sostenere. Questo tipaccio non ha un alibi perfetto ma, è anche vero che chi si alza alla buonora sovente si corica prima. Osservandolo in faccia non gli ho riscontrato nessun livido da colluttazione, comunque per adesso aspettiamo delle novità e se costui ha qualche colpa, in qualche modo potrà anche manifestarla. Consideriamo che nell’animo del correo generalmente subentra una catarsi liberatoria, perché no? non è certo il primo caso di pentimento, potrebbe darsi che ammetta che quella notte è successo qualcosa. Il p.m. Porioni si lisciò le mani, prese un respiro e si accinse a dire la sua. dott. Sciaboloni concordo sul personaggio, è un essere umbratile, tutt’altro che piacevole e, improbabilmente frequentabile. E’ vero che non gli abbiamo riscontrato lividi in volto, a meno che, possa aver preso un pugno sul mento, in quel caso è più facile rompersi le nocche della mano che ferirlo duramente. Comunque non è probatoria l’ipotesi della rissa, sicuramente tra i due c’era in atto uno scontro, si deve capire se si tratta del solito squallido nonnismo o c’è dell’altro. Questo pomeriggio vedrò la suddetta Deianira. E’ stata convocata per chiarimenti nel mio ufficio alle 16. Sentiamo questa lavorante, definita eufemisticamente: occupata nell’avito mestiere inerente al mercimonio del sesso. Si dice che fra lei e Calibano Cencioni ci fosse del tenero e che lui non solo beneficiasse di prestazioni gratuite e che volesse farle cambiare vita. Vedremo se domani al nostro collegiale acquisire s’accenderà uno spiraglio di luce. Richiusero le carte sul tavolo, si alzarono contemporaneamente in piedi, finché ognuno riprese la propria cartella e mossero all’aperto. Dott. Porioni ci aggiorneremo domani, le rammento purtroppo, che l’ammiragliato vuole chiudere in fretta la faccenda. Mi hanno già suggerito che secondo loro è stato un incidente. Arrivano ad asserire che Calibano Cencioni fosse un ragazzo sbadato e che potrebbe aver perso l’equilibrio, chiaramente tutto si tacita nel buon nome dell’arma. La smorfia di risposta del p.m. Porioni fu abbastanza eloquente. dott. Sciaboloni domani acquisiremo qualche elemento in più. D’altro canto mia nonna quando le si metteva fretta ripeteva: Io ho aspettato nove mesi, non è un’attesa superiore alla vostra? Erano giunte le sette di sera d’un lepido giugno, soffiava una forte brezza di ponente, c’era ancora abbastanza luce e coi giorni a venire calore e luminosità sarebbero accresciute verso il solstizio d’estate. Il campo Dorico di Basket adiacente il Viale della Vittoria è sito all’aperto, il fondo è in cemento e leggermente e volutamente in pendenza per ovviare alle pozzanghere quando piove. Esso è in buona parte collegato col campo di calcio, mentre una parete confina con il cinema Fiammetta. Questo luogo è riconosciuto come la Sancta Sanctorum della pallacanestro cittadina, ritrovo d’appassionati e dei migliori cestisti locali. Il magistrato Sciaboloni aveva avuta assicurazione che il p.m. Porioni sarebbe stato certamente sul posto voglioso di giocarsi la sua consueta partitella. Così fu. Calzoncini corti e maglietta bianco verde della passata giovanile militanza nella Stamura, era conteso nella sfida del 3 contro 3. Tagliava fuori l’avversario, saltava per catturare il rimbalzo, palleggiava, passava la palla e imprecava senza ritegno quando la perdeva. Con lui giocavano due giovani, gli avversari erano tre cestisti esperti e più anziani. Ma Porioni non mollava, diventava matto, s’impegnava con una grinta incredibile, intercettava un pallone ed andava direttamente a canestro. Con quel cesto avevano raggiunto il pareggio. Ma poi la sorte e l’esperienza degli avversari prese l’avvento. Finisce la sfida, la squadra del p.m. perde di sei punti, lui dal nervoso sbatte i piedi a terra e grida. Non importa ragazzi domani la rifacciamo, li svergogniamo, gli diamo la biada che meritano. Quando d’un tratto si trova davanti il collega di stamani che lo guarda stupito e divertito, allora egli lo riverisce con un sorriso, afferra un asciugamano si volta a salutare tutti e s’incammina accanto al magistrato. Il suo volto è madido di sudore, le ascelle sono bagnate la maglia è zuppa. Cos’à saputo dott. Porioni? Il veterano uomo di legge non era riuscito ad aspettare sino l’indomani, impaziente come non mai, voleva sapere cos’era venuto fuori dalla testimone. Il Porioni l’accontentò. La faccenda si complica, sono subentrate circostanze abbastanza serie, però non decisive da permetterci d’intraprendere un procedimento, comunque l’affare si tinge di giallo. Lo Sciaboloni lo fissava concentrato. Sono tutto orecchi ma prima preferirei che andasse a farsi una doccia, non vorrei che per colpa mia le venisse un malanno. L’aspetterò qua fuori. L’interlocutore scosse il capo in senso di diniego, si infilò una vecchia tuta grigia a bande bianco verdi con su la stessa scritta Stamura. Poi lo condusse in disparte e lo fece sedere su un gradino della gradinata sinistra. Lo Sciaboloni gli si accomodò accanto. Per la doccia c’è tempo. Dunque mi ascolti, mancava qualche minuto alle ore 16, pensai: giacché tra poco dovrebbe arrivare la testimone, mi alzo in piedi per sgranchirmi le gambe, m’affaccio alla finestra rivolta su corso Mazzini. Da lì osservo avvicinarsi una donna mora, capelli ondulati che si muove verso il Palazzo di Giustizia, noto che è accompagnata da un uomo, un losco figuro di quelli da prendere a schiaffi già prima che parlino. Un essere di media altezza, asciutto, fumatore di sigarilli, età sui quaranta, capelli neri, baffetti scuri, curati e sottili da mantenuto. Indossa pantaloni rossi ed una camicia giallo canarino con ai piedi un paio di stivaletti stile cowboy, incarna senza dubbio il tipico, vistoso sfruttatore che gironzola in tenuta da magnaccio. Quanto li odio questi stereotipati negoziatori del meretricio. Alle 16 precise Genuflessa Lonzoni, in arte Deianira, si fa annunciare in procura, ed io la faccio immediatamente accomodare. E’ una giovane donna marchigiana presumo del basso maceratese, desumo che dall’età superi la trentina. E’di media altezza, ha capelli neri e ricci lunghi sino alle spalle. E’ pure un po' irsuta, difatti una lieve peluria si nota ombrarle il labbro superiore. Non è particolarmente avvenente, ha il viso allungato, un naso insignificante, però può piacere. Sebbene il suo lavoro non lo si possa considerare in sintonia con le istituzioni, alla mia presenza è venuta abbigliata con sobrietà, di codesto, se si può chiamare mestiere si svela persona educata, quasi fine, soprattutto denota che sta attenta alle regole. Quando le chiedo informazioni sul marinaio Calibano Cencioni scoppia a piangere. Aspetto pazientemente che si sfoghi, una volta ripresasi le chiedo se gradisce un te o un caffè, insomma qualsiasi cosa. Mi ringrazia sorpresa della mia cortesia ma rifiuta categoricamente, si soffia ancora una volta il naso e lo fa voltandosi educatamente dall’altra parte. Riconosco che sia una mestierante atipica, comunque sono ancora in attesa che mi risponda, finalmente si comincia. Testimonianza agli atti di Genuflessa Lonzoni. So che qui devo dire tutta la verità e nient’altro che la verità. Or dunque, frequentavo il povero Calibano da circa sei mesi, era un ragazzo buono, comprensivo ed aperto al dialogo. Mi creda, mi capitano raramente clienti così a modo, viene naturale che ci trovassimo bene, che fossimo in sintonia. Lui era un chiacchierone ma di argomenti seri ed io a stare con un giovane così interessante e carino, ogni volta che tornava, beh, con lui mi prestavo sempre con maggior piacere. Eccellenza mi creda, con questo povero ragazzo non mi sono mai montata la testa, e come avrei potuto. Di tredici anni più vecchia di lui e, per la vita che faccio mi considero io stessa per quello che sono. L’unica cosa che professionalmente mi sono permessa ma, non me ne pento, consiste nel fatto che dopo la seconda volta non gli ho più fatto pagare la marchetta. Cosa vuole, sono un essere umano anch’io e vederlo, frequentarlo, ritrovarlo, anche se solo in quel frangente, insomma mi faceva stare così bene. Negli appuntamenti salivamo lo scalone di quel quartiere chiamato Pantano che conduce ai prati fin sotto il pendio della base militare. I borghigiani ci osservavano passare, ogni tanto una strana donna ridacchiando ci scherniva, comunque non ci badavamo, noi due avevamo altro a cui pensare. Ci piaceva sdraiarci sul terreno erboso, scosceso e da lì guardare il mare, il cielo stellato, si parlava, si rideva e poi si faceva all’amore. E con lui lo giuro, per me era affetto, quello vero. Eccellenza anche noi donnacce abbiamo un cuore, anche noi siamo esseri umani e possiamo voler bene. Interruzione del p.m. Porioni. Signora Lonzoni, apprezzo la confidente spiegazione concernente il vostro tenero rapporto, però io vorrei proseguire con l’indagine, vorrei conoscere certuni dettagli utili all’inchiesta. Vorrei capire se il marinaio Cencioni prima dell’epilogo, insomma fosse rattristato o peggio depresso a tal punto di gettarsi dalla rupe. Oppure se avesse qualche nemico. Dal momento che asserisce di dire la verità, tutta la verità, asserendola come se fossimo nel telefilm di Perry Mason, dunque la tiri fuori ora tutta questa verità e nient’altro che la verità. Dica se nella tragedia c’è di mezzo quel ruffiano, quell’esecrabile personaggio che poco fa l’accompagnava sin qui sotto. Allora ci metto poco a carcerarlo. E l’assicuro che ci si troverà talmente bene nell’Hotel a cinque stelle: Casa Circondariale Santa Palazzia, che il giorno che ne uscirà fuori si terrà per sempre alla larga da lei. L’espressione della donna si fece lì per lì cupa, significante di preoccupazione. Agli occhi di chiunque si capiva che qualcosa la tormentava, ma peggio, la spaventava. Poi d’un tratto sollevò lo sguardo in alto e ripensando a quel giovane, carpito a soli vent’anni della vita, prese un respiro e decisa parlò. Un giorno mentre io e Calibano stavamo appartandoci in camporella spunta dalle fratte un sergente, seppi poi da Calibano che questo odioso tizio non lo sopportava nessuno, lui mi disse che era soprannominato Accio, un tipo veramente insoffribile. Costui s’avvicina e con supponenza dice: Cencioni questa indiscutibile verginella adesso me la zifono io, tu stavolta favorirai eventualmente dopo di me, non puoi farci niente. Rassegnati ed obbedisci al grado. Se avesse visto come rideva mentre lo diceva. Invece Calibano gli rispose di togliersi dai piedi giacché qui non eravamo in caserma e che suoi ordini se li poteva infilare nel di dietro. Allora questo Accio comincia ad insultarlo dicendogli d’essere il più comprovato becco di tutta la Marina Militare, comprese le marinerie francese, inglese e statunitense. Poi si rivolge a me dandomi della misera porca più costosa di quel che valgo. A quel punto Calibano parte per menarlo, lui si spaventa e gli grida. Se mi tocchi anche fuori dalla base, non cambia niente, finisci sempre in galera. Dai, su, perché non ci provi, suvvia che Gaeta t’aspetta e, per quanto riguarda quel budello che ti sollazzi, beh, sappi che m’è passata la voglia di farmela. Giorni a seguire Calibano mi confidò che da quella volta, beh alla base la vita gli divenne dura, si fece veramente grama. E così questo degenerato non lo fece più vivere facendogli patire una serie di angherie, finché una sera incontro per via Marconi, dove purtroppo svolgo questo marcio lavoro, questo insopportabile Accio. D’un tratto costui mi prende per un braccio, mi strattona e sogghigna Deianira, gran benefattrice degli arrapati, femmina di scambio, andiamo a godere, voglio proprio levarmi sta soddisfazione di cornificare anch’io, come cent’altri scopatori il tuo tenero fidanzato. Allora mi metto a gridare d’andarsene, urlo come un’ossessa, due passanti notturni si voltano preoccupati, contemporaneamente s’aprono delle finestre, alcuni inquilini cominciano ad affacciarsi. A quel punto interviene Grifagno. Qui interrompe il p.m. Porioni. Chi sarebbe questo Grifagno, è sempre quello squallido cowboy che le ronzava accanto qua sotto. Si eccellenza proprio lui, il mio pappone, è quell’ipocrita, petecchiale, parassita che vorrei tanto levarmi di dosso. Nel viso del magistrato emerse l’indignazione pertanto scuro in volto l’esortò. Prosegua, la faccenda si fa interessante. Con enfasi concitata la donna riprese. A quel punto Grifagno si precipita verso il mio molestatore, sappia che lui è parecchio manesco e sta per aggredire quel tipaccio del sergente, quando costui gli dice: Che mignotta è mai questa che si rifiuta di stare con me?, giusto perché non vuole cornificare il suo grande amore! Questa lucciola s’intende con un marinaio sotto il mio comando. Pensi eccellenza, da quel momento i due cominciano a parlottare, poi si appartano, addirittura dirigono in un localaccio qui appresso. Bevono dal guercio, è un malfamato, occulto bar posto in un vicolo dell’angiporto. Mi hanno detto che si ritrovano quei pochi delinquenti locali: ladri, strozzini e magnacci come quel petecchiale che mi schiavizza. Ebbene i due si parlano, e Grifagno in effetti da tempo sospettava di me, poiché mi vedeva frequentare un certo marinaio, sempre lo stesso. Era preoccupato che con Calibano ci fosse una prestazione diversa, allora cominciò ad interrogarmi, mi conteggiava i guadagni sempre più sospettoso, pensava se per caso avessi concesso la prestazione in favore. Pensi eccellenza, così io per non insospettirlo, beh ci rimettevo i soldi miei. Si proprio così, pagavo di tasca mia il tempo in cui frequentavo Calibano. Se lo immagina oltre che mantenere quella sanguisuga dovevo fargli capire che Calibano non veniva con me gratis. Però m’ero resa conto che il parassita aveva oramai mangiato la foglia. Dunque non gli stava bene vedermelo accanto e da qualche tempo adocchiava di malocchio la faccenda. Temeva che avessi voluto cambiare vita, prevedeva che abbandonassi il marciapiede. Un giorno, addirittura mi minacciò che se avessi smesso di battere m’avrebbe sistemata per le feste, ed avrebbe fatto altrettanto con lui. Dio mio sono frastornata, non so più cosa pensare. E così concludendo, l’infelice riprese mestamente a piangere, tirò ancora fuori dalla borsetta il fazzoletto, si voltò ancora da una parte e si risoffiò il naso. Egli la calmò e infondendole fiducia le sussurrò Per adesso firmi la deposizione, poi, mi ascolti attentamente, quando sarà fuori di qui,

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1