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Come uccidere mia moglie
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Come uccidere mia moglie

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About this ebook

La giovinezza viene una sola volta nella vita. Perché non godersela?
Cerca l’attimo. Cerchiamo l’attimo. Cerchiamo le opportunità, i frutti ed i fiori che la giovinezza ci offre. Nel cogliere i fiori potremo trovare delle spine ed alcuni frutti saranno acerbi, incerti e dubitativi saranno i nostri primi comportamenti, gli approcci alle cose ed alle persone, al mondo che ci circonda; tuttavia dobbiamo osare, fare un piccolo passo al di là della gamba, avere una grande fiducia in noi stessi consapevoli che ci sono più luci che ombre intorno a noi.
Illuminiamo la nostra vita!
“Afferriamo” i sapori ed annusiamo i profumi che essa ci offre.
Cerchiamo sempre ed in continuazione, giorno dopo giorno, ora dopo ora, motivazioni atte a soddisfare un desiderio mentre operiamo nella quotidianità.
Sbricioliamo la monotonia.
Disturbiamo gli altri e noi stessi. Siamo attivi.
La morte ci deve trovare vivi; ci deve bussare sulle spalle, chiedere il permesso di arrivare…
“Aspetta un secondo signora, devo fare un’ultima cosa, devo dare un calcio nel sedere al mio vicino di casa che mi è antipatico e permettimi di baciare quella rosa rossa, là in giardino, è sola e…” Così voglio morire; mentre sto baciando un fiore, annusando l’ultimo profumo della vita. Desidero raccontarvi una particolare storia d’amore… un feroce assassino… ed un colpevole solo all’ ultima pagina.
LanguageItaliano
Release dateOct 15, 2012
ISBN9788862596824
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    Come uccidere mia moglie - Adelindo Moriconi

    COME UCCIDERE MIA MOGLIE

    Adelindo Moriconi

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-682-4

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-563-6

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Copyright © Adelindo Moriconi

    Prima edizione cartacea ottobre 2012

    Prima edizione digitale ottobre 2012

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo riservati per tutti i paesi

    Cruciverba

    Vediamo se sei un buon investigatore.

    Risolvi il cruciverba qui sotto e troverai, nella colonna centrale in grassetto, la parola chiave che aprirà tante porte per aiutarti a scoprire il terribile assassino.

    Orizzontali

    1 - Una volta i giovani ci mettevano i fiori, 7 - Non credenti, 8 - Organizzazione Nazioni Unite; 10 - Serve anche a mangiare; 11 - Ai confini del Turkestan; 12 - Sigla di Imperia; 13 - I famosi quattro amici fiorentini; 14 - Nome corrente del Potassio; 16 - Sigla di Reggio Calabria; 17 - Associazione calcio; 18 - … et labora in latino; 20 - Due per tre; 22 - Sigla della città rivale di Lu - Li – Fi; 23 - Nonni, antenati; 26 - Città Toscana circondata da antiche mura; 28 - Sem ha perso la esse; 29 - Enorme. Smisurato.

    Verticali

    1 - Cameretta a bordo di una nave; 2 - E’ una famosa bomba; 3 - Famoso cantante italiano; 4 - In Inghilterra è prima del name; 5 - Assolutamente non positivo; 6 - Famosa squadra di calcio di Milano; 9 - E’ solo del suo genere; 15 - Ricava un piccolo vantaggio; 19 - Ass. Italiana Autotrasportatori; 21 - Servono a volare; 22 - Nuovo tipo di memoria per dispositivi mobili; 24 - Sigla di Venezia; 25 - Istituto Mobiliare Italiano; 27 - Sigla di Ancona.

    Una Poesia

    A mia moglie quando dormo

    Quando vado a letto

    ed ho chiuso la bombola del gas,

    spento la luce,

    spenta la televisione,

    penso a te amore mio,

    dopo ore finalmente dormo e sogno…

    sogno di te e tu mi svegli perché ho il respiro forte,

    sogno di te e tu mi svegli perché ho cominciato a russare,

    sogno di te e tu mi dici di girarmi dall’altra parte,

    sogno di te e tu mi svegli perché gesticolo e parlo…

    come vedi amore mio,

    anche nei sogni mi rompi i coglioni.

    Anche per questo ho deciso di ucciderti.

    Primo incontro con mia moglie

    Blin blin, plam plam,

    pum pum, being being, bing bing, pong pong,

    bing, bang, bung, clock, clack, ten ten ten, tin tin,

    comincia a piovere. La pioggia ha colori e rumori diversi. Limita un po’ le libertà individuali e ti costringe a fermarti, a ripararti, a pensare, pensare, pensare, pensare…

    Pensavo di uccidere mia moglie un giorno di fine autunno mentre osservavo il cielo plumbeo e le foglie degli alberi del mio giardino che cadevano svolazzando, ultimo alito di vita prima di cadere a terra e sparire così nel nulla ritornando ad essere concime organico naturale delle stesse piante. Potessi anch’io staccarle la vita, la farei anche svolazzare un po’, come in un famoso quadro di Chagall, poi la seppellirei nella nuda terra diventando anch’essa concime naturale. Sicuramente sarebbe stata felice, lei amava tanto la natura… l’idea cominciava a piacermi. Un leggero sorriso si impadronì del mio viso. Sì, si può fare. Ma perché sono arrivato a questo punto? Perché questo oscuro pensiero?

    La pioggia ha sì mille rumori ma anche mille colori che rappresentano poi i colori della vita, della tua vita in quel momento preciso: ora sono grigi ma non sempre sono stati così…

    Mi ricordo di lei, in maniera decisa, da ragazzini: avevamo circa tredici anni e si giocava a rimpiattino. Il giuoco era semplice: a chi toccava, dopo la prima conta con le dita, con la testa rivolta al muro, senza guardare, doveva contare fino a cento, ad alta voce, in maniera che gli altri potevano andare a nascondersi.

    Il ragazzo rimasto al muro ci doveva cercare, scovare e poi di corsa via al muro della conta e chi arrivava per primo vinceva, chi perdeva doveva contare di nuovo.

    Avevo una tattica vincente. Poiché ero il migliore atleticamente, correvo più forte di tutti, andavo a nascondermi a circa cento-centicinquanta metri dal luogo di conta senza mai guardare o sbirciare da dietro al muro della casa dove mi ero nascosto.

    Poi quando, chi ti doveva cercare, si affacciava al muro e gridava il mio nome, perché questa era la regola, ingaggiavo una corsa veloce, all’ultimo fiato ed a forte velocità ed entrambi colpivamo il punto della conta. Vincevo sempre la gara, difatti ero l’ultimo ad essere cercato. Ma c’era l’obbligo della ricerca; perché se entro un’ora chi contava, non trovava l’ultimo concorrente, doveva ricontare.

    Un giorno… -Ade,- sentii chiamarmi.

    Era lei Flavia Bianchi una ragazzina minuta, bionda, con occhi celesti chiari, chiari che sembravano chicchi di menta celesti, i miei preferiti; chicchi di mille colori, che compravo a dieci lire, perché questa era la mia massima disponibilità economica, da Natalina, l’unico negozio di alimentari e bazar del paesino. Me ne dava circa una ventina di chicchi colorati che succhiavo lentamente uno dietro l’altro con enorme piacere.

    Aveva un vestitino rosa con delle margherite sul davanti, lungo fino sotto il ginocchio e degli zoccolini con la tomaia anch’essa rosa un po’ sbiadita dal tempo perché, purtroppo, tutte le cose dovevano durare moltissimo perché tutti eravamo poveri e si doveva per forza fare economia.

    A proposito dei miei zoccoli, poiché la tomaia nel punto in cui era fermata da grossi chiodi, si deteriorava, scorcia ed inchioda, scorcia ed inchioda, andava a finire che i piedi non mi entravano più nella tomaia e dovevo preoccuparmi a recuperare dell’altra pelle, che rubavo al ciabattino del paese, perché gli zoccoli dovevano durare un anno almeno.

    Erano ordini, non consigli dei genitori.

    Solitamente, nella corsa verso il punto della conta al giuoco del rimpiattino, prendevo gli zoccoli in mano e, a piedi nudi, nel ghiaino, nei sassi, sulla nuda terra, ingaggiavo delle corse incredibili.

    A pensarci ora mi vengono i brividi.

    -Ade…- a proposito mi chiamo Adelindo Fambrini ed ero a quel tempo definito un ragazzo simpatico, attraente, interessante. Un VIP della gioventù del paese.

    -Adelindo… vieni,- disse Flavia, -andiamo a nasconderci in questa capanna al piano superiore; sai c’è del fieno e della paglia possiamo così nasconderci meglio.-

    Sinceramente non ero molto attratto da questa iniziativa perché la ritenevo perdente e le manifestai le mie perplessità. Ma lei, prendendomi per mano, sorridendo, mi disse: -dai stupido, fidati di me. Aiutami a salire.-

    Fidati, è questa la parola chiave. Mi sono fidato tante volte di lei ma i risultati… vediamo.

    Le misi le mani sul sederino e l’aiutai a salire nella capanna al piano superiore.

    Potevamo far questo poiché era una capanna vecchia, aperta completamente sul davanti e sconnessa, rimasta così forse a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale e mai rifatta dai proprietari.

    Nell’ultima rampa, per scavalcare, nell’allungare il piede destro, Flavia tirò su il vestitino e mi fece vedere le sue mutandine bianche.

    Lei si accorse di questo e mi disse: -ti piacciano? Ora ne parliamo.-

    Parlare di mutandine bianche, dissi fra me, ma che me ne frega!

    La capanna era aperta sul davanti ma lateralmente aveva le cosiddette mandolate. Sono costruzioni tipiche dell’edilizia lucchese ora considerate patrimonio edile da salvare. Sono fatte in mattoni ed in più file. In una prima fila, il mattone, di un colore rosso scuro, viene posto orizzontalmente per tutta la lunghezza del muro, poi sopra ci si mura un mattone in verticale e subito, a breve distanza, due mattoni in verticale ma a cuneo, poi un’altro mattone in verticale e così via…

    Questa struttura permetteva di vedere bene dal dentro il fuori, poco o nulla da fuori il dentro.

    La ragione vera probabilmente era che questo sistema permetteva una grande aerazione della stanza con ottimi risultati sulla conservazione naturale di molti prodotti.

    -Vieni,- mi disse Flavia, -nascondiamoci in fondo alla stanza, qui sul fieno, dietro queste balle di paglia. Vedrai non ci vedranno.- Si sdraiò sul fieno ed io con molta delicatezza mi coricai vicino a lei.

    -Eccolo, ecco Mario!- Mi sussurrò e mi strinse a sé fortemente. Rimanemmo alcuni minuti abbracciati, in silenzio, poi, con un filino di voce, le sussurrai in un orecchio: -che facciamo ora Flavia?-

    -Uffa, non lo so, giochiamo ai dottori mentre aspettiamo, ti va Ade?-

    -Non ho mai giocato ai dottori, com’è?-

    -Io mi spoglio nuda e tu mi visiti; poi ti spogli anche tu ed io ti visito.-

    Si levò il vestitino con delicatezza, molto lentamente e lo depositò accuratamente e con garbo di fianco, poi rapidamente si levò le mutandine bianche e le gettò più distanti.

    Per la prima volta in vita mia vidi come era l’altro sesso. Un taglietto, un buchino senza peli fra le gambe. Ma non mi fece grande effetto, ero preoccupato che arrivasse Mario quello che ci doveva scovare al rimpiattino. Questa era la cosa importante!

    -Dottor Adelindo, mi fa male il seno me lo vuoi visitare per favore?-

    -Si, certo, che devo fare?-

    Flavia mi aveva coinvolto in questo suo strano gioco ed io, solo per curiosità, accettai di partecipare.

    -Prendi in bocca il capezzolino e vediamo se esce il latte. Se esce vuol dire che sto bene, se no sto male.-

    Mi avvicinai al suo seno, piccolo, appena pronunciato e cominciai a succhiare.

    -Mi dispiace, sei malata, il latte non esce.-

    -Dai stupido, devi provare di più, starci di più.- Succhia, succhia, ma il latte non usciva e lei non mi sembrava malata anzi pareva che gli facesse piacere. Vai a capire le donne, pensai.

    -Ora, - mi prese la mano e la mise sul suo sesso, -mi metti il dito mignolo dentro e senti se è calda o fredda? Piano con delicatezza,- così fanno i dottori.

    Ma è un mestieraccio il medico, pensai.

    Mi avvicinai, lei mi prese la mano e gli ficcai il dito mignolo dentro.

    -Senti caldo?-

    -Sì,- gli risposi

    -Vuol dire che sto bene. Oro proviamo con te. Spogliati. -

    Mi levai la camicia e abbassai solo i pantaloncini e le mutandine. Se veniva Mario ero quasi pronto ad ingaggiare la corsa.

    -Ora,- disse Flavia, -facciamo come fanno mio padre e mia madre. Ti sdrai qui, io ti vengo sopra e cerco di mettere il tuo pisellino qui dentro ed indicò il suo sesso. E’ piacevole perché mamma l’ho vista urlare di gioia, mi devi credere. Lo fanno spesso, quasi tutte le sere!-

    -Brava, così Mario ci scova subito,- dissi io. -No davvero, non ci penso proprio.-

    Lei non sentì ragioni, cercò di saltarmi addosso ed ingaggiammo una piccola lotta.

    -Pietra!- Si usava dire così, -per Adelindo e Flavia.- Era Mario che sentendo rumori e voci era salito, piano piano, in capanna e ci aveva individuato.

    Mario era stato un cavaliere, perché dicendo il mio nome per primo, toccava a me contare ed era per la prima volta nella mia vita.

    Fu la prima sconfitta ed un grande smacco per un grande capo.

    Sì, perché io ero il capo di tutti i ragazzi coetanei di quasi tutto il mio paese: S. Maria a Colle, un paesino a sette chilometri da Lucca, bellissima città medioevale, circondata da mura antiche, in Toscana.

    C’era, in effetti, una frazione, un gruppo di case, su una bassa collina, ai confini del paese, Colle alto si chiamava, ne era fuori dal mio controllo.

    Comandava un certo Giampiero. Ma eravamo nemici se c’era la guerra, amici in caso di pace, tant’è che tutti insieme si andava a fare frutta e verdura gratis la sera.

    Si rapinavano scientificamente ciliegie e meloni ed altra frutta di stagione specialmente a quei contadini che si incavolavano e facevano la guardia anche di sera alle loro proprietà. Questo era un nostro divertimento.

    La tattica era semplice: si faceva finta di farci la guerra: alcuni si posizionavano con dei bastoni sotto i meli o i ciliegi in collina, altri alcuni metri di sotto. Gli sparavamo, a voce chiaramente e chi era sotto l’albero da frutta nel morire, nel fare il gesto del morire, alzava le braccia al cielo e dava una bastonata ai rami o lanciava il bastone sull’albero e, nonostante la presenza dei contadini, le frutta cadevano giù, rotolavano dove noi eravamo e si faceva il pieno senza che nessuno se ne accorgesse e protestasse. Giocavamo.

    Mario apri bocca e disse a tutti che stavamo per baciarci e nonostante il mio diniego ed una ferrea opposizione, Flavia era diventata la fidanzatina ufficiale del capo, perché lei non negò nulla anzi fece alcune velate ammissioni dicendo che è ormai da tanto tempo che ci incontravamo segretamente.

    E così cominciammo a frequentarci. Anzi era lei a frequentarmi. Più passava il tempo più lei mi era vicina.

    Mi faceva centomila domande al giorno:

    perché sei il capo?

    Perché esci la sera con gli amici?

    Perché vai al bar?

    Perché giochi a carte?

    Perché la tua nonna ti da i soldi?

    Perché freghi la camera d’aria alle biciclette?

    Perché sorridi sempre e sei felice?

    Perché vai al fiume a pescare e poi non mangi i pesci?

    Perché corri tanto a piedi e di corsa?

    Perché alleni Flavio a fare a cazzotti?

    Flavio era il nostro campione di boxe e lotta libera. Quando c’erano le sfide con i paesi vicini eravamo già civilizzati perché non si faceva mai una cazzottata generale, solo i campioni reciproci combattevano. Chi perdeva subiva penitenza e canzonatura naturalmente fino alla prossima cazzottata. Ecco perché bisognava allenarlo e tenerlo in forma, doveva vincere.

    Perché fai gli scherzi a Filomena?

    Filomena era una vecchietta, zitella, che abitava nella corte Casabianchi dove anch’io abitavo. Spesso mi chiedeva l’ora esatta.

    -Adelindo che ore sono per favore?-

    -Tra un quarto d’ora manca 25 minuti alle 6- le rispondevo.

    -Grazie.-

    Filomena andava in casa a fare i conti. Poi si riaffacciava e mi diceva : -allora Adelindo sono le 5 e 20?-

    -No, sono le 5 e 25,- perché nel frattempo erano passati cinque minuti. E così per tutta la vita finché un giorno ci lasciò. Forse le ho abbreviato la vita o gliel’ho resa più interessante. Mah.!

    Perché ti fai levare i denti da Armida e non dal dentista?

    Primo, perché Armida, una vecchietta di settanta anni, era il dentista ufficiale della corte.

    Secondo, chi ce li aveva i soldi per pagare un vero dentista?

    Quindi con le mani ed un fazzoletto Armida ti faceva l’operazione e per di più gratis.

    Armida era anche l’esorcista del paese.

    Un giorno, lei e la mia nonna Antonietta, mi videro un po’ triste. Confabularono un po’, poi mi presero, mi portarono in casa, mi fecero sedere su un panchetto di legno di castagno scuro vicino al caminetto di casa pieno di fuliggine nera, spalle al muro e mi misero in testa una padella piena d’acqua ed in mano una candela accesa.

    -Guarda avanti, Adelindo,- disse Armida, -quando ti dico di trattenere il fiato trattienilo. Non respirare.

    Pronti: ora!-

    Trattennni il fiato ed Armida schiacciò un uovo nella padella piena d’acqua e ci gettò con un dito una goccia d’olio. Osservò il tutto e pomposamente dichiarò:

    -Come pensavo, Adelindo ha il malocchio, cara Antonietta, bisogna intervenire subito.-

    -Interveniamo,- disse mia nonna.

    Intervennero subito.

    Se stavo buono la mia nonna mi avrebbe dato 100 lire sufficienti per andare al cinema a Ponte S. Pietro, dal Nannini che dava films di cow boys ed indiani i miei favoriti.

    Mi bendarono la testa, compreso gli occhi, perché diceva Armida non dovevo vedere il male o il diavolo che scappava, potevo impaurirmi.

    Mi misero un pentolone in testa pieno d’acqua o di brodo di gallina, sentivo che ci gettava dentro qualcosa e gridando, pregando, urlando: -Satana vattene via, malefico vattene via, Gesù e Maria aiutate questa anima pia,- percuotevano la pentola con forza con dei grossi bastoni di legno. Durò circa un’ora l’operazione; poi, stanche ma felici per il risultato ottimo ottenuto, mi dissero che probabilmente il malocchio era stato debellato. Fecero la riprova definitiva: Armida inzuppò un dito in una ciotolina piena d’olio d’oliva, lasciò cadere la goccia nel brodo di gallina; se la goccia evaporava subito il malocchio non c’era più; ma se la goccia rimaneva intatta voleva dire che il malocchio c’era e c’era qualcuno che me lo faceva. La goccia, per fortuna, sparì.

    Sparì il malocchio ma a me cominciò il mal di testa.

    Era usanza, si diceva che, quando si debellava un malocchio, la persona che te lo aveva dato, imposto, ne soffriva moltissimo e si ammalava.

    Le due donne, nei giorni successivi, stettero molto attente a chi soffriva o stava male nel paese e si scoprì che Ubaldina detta la megera era malata e stava soffrendo di atroci mal di testa.

    -Sicuramente è stata lei,- disse Armida.

    -Cara Antonietta, dobbiamo combatterla. Diciamo subito un Ave Maria ed un Pater Nostro poi domani la vado a trovare e ci parlo io ma non gli dico una preghiera, se non la smette gli do una bastonata nella testa.-

    Secondo me bastava che la mia nonna mi desse 100 lire per riavere la felicità.

    Punti di vista.

    Prime esperienze sessuali

    Perché vai a puttana? Perché ?

    Nel 1964, epoca a cui mi riferisco, mica era come oggi, adesso. No, no, non c’era la libertà sessuale, le opportunità, i mezzi e la psicologia dell’epoca attuale. C’era la famiglia patriarcale, il padre comandava, la madre comandava più del padre ed i nonni dicevano la loro: "guarda lì, questi giovani non hanno il senso della casa e della famiglia. Non vogliono più andare a Messa il pomeriggio e la sera vogliono tornare a casa alle dieci ed avere cento lire in tasca tutti i giorni e spenderli senza pensieri. Non sanno il sudore che ci vuole per guadagnare cento lire!

    Gioventù allo sbando. Ai nostri tempi queste cose non succedevano. Noi, alzando la voce ed il petto e la mano destra con il dito indice esposto, noi ubbidivamo ai nostri genitori cari Adelindo e Francesco.

    Francesco era mio fratello più piccolo di circa tre anni.

    Ascoltavamo testa china, in silenzio, queste litanie non riuscendo a comprendere il male di queste accuse. E così pompavano tutte le sere, tutti i santi giorni, mia madre e mio padre.

    Fermalo, dagli una educazione. Mandalo alla Messa ed al Vespro che era una specie di santa Messa del pomeriggio, particolarmente odiata dalla gioventù perché c’erano i sermoni dei frati francescani invitati tutte le domeniche dal nostro parroco.

    Mi ricordo… perché in chiesa mi sedevo in una lunga vecchia panca di legno proprio sotto il pulpito delle prediche, il gesticolare del frate francescano; non lo vedevo in faccia, scorgevo solo le braccia, i movimenti, le rotazioni di quella tonica marrone scuro e quella mano, la destra, col dito indice steso, dritto, che, accompagnata ad una verbalità tragica, teatrale, ci incuteva timore anziché redimerci. Che omelie incredibili, drammatiche! Paura, sì, avevo paura, in molti avevamo paura; probabilmente era questo che il nostro parroco voleva ed istruiva questi francescani alla esagerazione tragica dell’omelia.

    Timore e reverenza uguale credenza, la pensava così don Pio Serafini, il nostro parroco.

    Talvolta, i cicchetti dei miei nonni, venivano rinforzati e giustificati dall’intervento di Armida e Filomena, alle quali, per più ragioni, o gli si spaccava un vetro giocando a calcio nel cortile, o si prendevano in giro, si sentivano autorizzate a dire la loro.

    Si, eravamo, per costoro, tutti sull’orlo per diventare dilinguenti (così diceva mia madre).

    Le case non erano chiuse. Non si chiudeva mai a chiave, neppure la notte. Non c’erano ladri né roba da rubare. Quindi, se c’era da intervenire in una discussione perché riguardava un proprio interesse, si apriva la porta, si entrava senza chiedere permesso e si parlava e nessuno si meravigliava. Questa era la regola.

    Perciò, per tre anni insieme a Paolino, altro disgraziato, abbiamo servito la santa Messa, diretta ed eseguita da don Pio, in latino, quindi non si capiva nulla; si sentiva solo brontolare questo enorme sacerdote che, spalle al popolo, di fronte all’antico altare, celebrava la funzione ogni mattina alle sei precise.

    Don Pio era il fratello gemello di Mussolini: un duce, un generale, comandava a bacchetta non solo noi due poveri chierichetti, ma tutto il paese. Era il sindaco - sacerdote a cui tutto era concesso, si permetteva anche di non assolvere i fedeli che andavano a confessarsi. Mi è successo un paio di volte che mi ha sbattuto in faccia lo sportellino del confessionale non assolvendomi perché non miglioravo, non progredivo, commettevo sempre gli stessi peccati: bestemmiavo, dicevo bugie, mi masturbavo, non ubbidivo ai genitori, rubavo la frutta e le camera d’aria (ci facevamo la fionda, la nostra arma preferita) così che, da buon cristiano, la domenica non potevo fare la comunione perché non ero confessato, non ero stato assolto dai miei peccati ed a mia madre questo non potevo assolutamente dirlo. Dovevo allora trovare una scusa per non andare alla Messa.

    La fantasia galoppava: mamma non vado alla Messa perché mi sente la testa; ho la diarrea con un forte mal di pancia, pensa sono andato al bagno 10 volte stanotte, quindi non mi sento bene, sto a casa.

    Chiamalo bagno, uno sgabuzzino in mattoni rossi, con un buco centrale, tra l’altro non molto largo ed una finestrina lato destro di cm 10 per cm. 20 di altezza che penzolava sul vuoto della casa a cinque metri da terra. Molto sobrio, non c’erano specchi né lavabo, non c’era neanche la carta igienica, c’erano pezzi di carta di giornale o di una carta gialla, molto ruvida, attaccati ad un chiodo. Per pulire si utilizzava un secchio di metallo, una specie di latta fine, pieno di acqua e si gettava il contenuto, parzialmente o totalmente, a seconda dei casi, nel buco del bagno quando ci si ricordava di farlo. Le mani me le lavavo la sera, prima di cena, perché mia madre me lo imponeva. Non pensavo all’igiene. I microbi non li avevo mai visti, ne sentivo solo parlare.

    -Sì,- diceva la mamma, - va bene; però, se sei malato, stai a casa tutto il giorno.-

    Capito che casini mi creava don Pio! Proprio non l’amavo.

    Come era duro stare a casa la domenica! Il problema era come trascorrere il tempo.

    Non c’erano né televisione, né radio, né computer, né donne che ti venivano a trovare. Mica potevo leggere un libro; tranne quelli di scuola non c’era neppure quello.

    Ed allora preparavo le armi: la spada di legno, la fionda di riserva, il fucile di legno con il gancino di legno da panni sopra; caricandolo con dei gommini, talvolta doppi e lasciandolo andare diventava un’arma micidiale.

    Mi rendevo utile alla famiglia perché con questo fucile cacciavo le mosche di casa: ne sterminavo a centinaia, ma non finivano mai. Mi allenavo a sparare e che mira avevo acquisito.

    Certe volte mi ponevo una domanda: ma se non facevo queste stragi ma con quante mosche si conviveva? Mah!

    Per forza si andava a puttana. Generalmente con una ragazza, diciamo normale, prima del fidanzamento ci si baciava e basta, poi da fidanzati si lavorava manualmente e finalmente, da sposati, potevamo consumare il tutto. Questa era la prassi generalizzata. Quindi…

    Quindi la sera si partiva, in quattro o cinque, su una vecchia 1100 Fiat di proprietà di Sandrone, il vecchio del gruppo, aveva compiuto 18 anni e lavorava come elettricista, al comune di Massarosa. Sandrone era soprannominato il Pescio: in effetti sembrava un luccio, un pesce che viveva nel fiume Serchio, il fiume che passa vicino al nostro paese. Ora credo che i lucci non ce ne siano nel fiume. Sono stati sterminati perché, si diceva, a loro volta sterminavano gli altri pesci. Erano cacciatori straordinari: puntavano la preda e con uno scatto fulmineo la catturavano e la divoravano in un attimo.

    Sandrone, un ragazzone alto e magro, aveva una particolare espressione del viso.

    Aveva le labbra spostate in avanti più del normale e dava l’idea, l’espressione di un pesce predatore.

    Tutti in macchina e via. Si poteva perché il gasolio non costava caro: trenta lire il litro e l’atto sessuale cinquecento lire, poi passò a mille lire. Quindi il problema era capitalizzare le mille lire. Non avevo una paghetta da mia madre, ma per fortuna c’era la mia nonnetta Antonietta che mi sganciava, per vari motivi da me illustrati settimanalmente, tutti gravi ed impellenti, i soldi necessari. Povera donna, al venti del mese aveva, per colpa mia, già finito la misera pensione di casalinga che percepiva. Chiedeva dei prestiti, un po’ qua e un po’ là, da parenti e conoscenti ma come poi li pagava non l’ho mai capito.

    In macchina era una festa, una gioia infinita.

    Si cantavano l’osterie.

    Osteria n. 1, in casin ‘un c’è nessuno, ci sono solo suore e frati che si inculano beati, dammela a me biondina dammela a me biondàà.

    Osteria n. 20 se la topa avesse i denti quanti cazzi all’ospedale e quante tope in tribunale, dammela a me biondina dammela a me biondàà, … e così via.

    Si parlava di donne, di scherzi fatti e ricevuti, di pettegolezzi: Marina la moglie del postino la dà al macellaio per un chilo di carne; Alvaro, il falegname, è finocchio, la sera si veste da donna e va a battere alle Cascine di Firenze; dice di essere una donna, alza la sottana, mette giacomino all’indietro, stringe le cosce ed all’occasionale cliente gli grida: c’ho la fica, guarda qui; la famiglia di Paolo, nostro coetaneo, è talmente tirchia e povera da far paura, economizzano su tutto: pensa passano i topi in casa con le lacrime agli occhi…

    Torniamo alle cose serie.

    Ragazzi, si diceva, non andiamo subito con la prima che ci piace, facciamo prima un giro di perlustrazione e poi… vai, dai giù, arruèèèè! Passammare arruèèèè!!, si urlava a squarciagola.

    Non succedeva mai così, la prima lucciola che ci piaceva era subito vista e presa.

    Nasceva il problema di chi ci andava per primo. Andarci per primi era più piacevole, sembrava una tua reale conquista. Il problema si risolveva prima di partire: ce lo giocavamo a carte al bar del paese. Che briscolate tirate ed avvincenti!

    Andavamo in auto in un posto appartato ed in un quarto d’ora tutto e tutti eravamo sistemati. Ma non finiva qui. Il raid continuava perché ad alcuni componenti come Fedele, un tipo un po’ strano considerato mezzo pazzo, in senso buono, una scopata non bastava, voleva raddoppiare. Non era detto che gli altri componenti non avrebbero voluto raddoppiare, non si poteva, mancava la materia prima: i soldi.

    L’altro elemento indispensabile c’era, eccome!

    Ci avvicinavamo ad altre lucciole a finestrini abbassati, cantando a squarciagola: ollallì, ollallà, faccela vedè, faccela toccà… e con la radio a tutto volume si chiedeva:

    -quanto vuoi, bella? 1.000? Esagerata! I pompini li fai?-

    Renzo un altro del gruppo chiedeva sempre gentilmente e con educazione: -buona sera, senta signora, il culo lo da?-

    -Scusa- gli dicevamo: -chiedi loro se ti danno il culo e poi se ti dicono di si tu non ci vai. Perché?-

    -E’ una domanda culturale, una mia curiosità, tengo delle statistiche veramente interessanti sull’argomento.-

    Mah! Vai a capirlo.

    In effetti Renzo era un po’ timido e riservato, quando era il suo turno dovevamo allontanarci dall’auto. Voleva riservatezza altrimenti non ci riusciva. Un tipo fuori dalla norma a quel tempo dove, in effetti, con gli altri si scommetteva chi durava di più e si cronometrava l’inizio e la fine dall’atto sessuale. Osservavamo tutti molto attentamente il rapporto sessuale del compagno. Questo era amore!

    Il Capo, un mio parente più anziano, era considerato in paese e nei paesi limitrofi, un play boy. Faceva l’infermiere all’ospedale psichiatrico del paese, ma in giro si faceva chiamare dottor Fambrini e, con mille sacrifici aveva comprato un’Alfa Romeo usata, a due posti, una Giulietta, col tettino apribile e di uno splendido colore celeste. L’auto era bellissima, un sogno, ancora la ricordo e ricordo l’invidia che avevo

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