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Alla ricerca di Fatima: Una storia palestinese
Alla ricerca di Fatima: Una storia palestinese
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E-book539 pagine12 ore

Alla ricerca di Fatima: Una storia palestinese

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Info su questo ebook

Narra la vita di Ghada Karmi, medico palestinese che trascorre l’infanzia in un sobborgo benestante di Gerusalemme con due fratelli, i genitori, affidata alle cure della domestica Fatima. Quando la famiglia è costretta a fuggire in Inghilterra a causa delle crescenti violenze nei confronti della popolazione araba, Ghada deve imparare a convivere con la perdita progressiva e definitiva del paese in cui è nata, sostituito da Israele. L’impatto con l’Inghilterra non è però traumatico: la scelta di privilegiare l’identità inglese è naturale e all’inizio risolutiva. Quando, ormai laureata in medicina, sceglie di sposare un inglese, Ghada è costretta a difendere il suo matrimonio agli occhi della famiglia tradizionalista, difendendo allo stesso tempo la fittizia identità inglese che ha attribuito a se stessa e rifiutando in toto quella araba. Ma ben presto le contraddizioni di una tale decisione esplodono in tutta la loro violenza: durante la guerra dei Sei giorni, farà i conti con l’indifferenza di tutti quelli che credeva vicini, marito incluso. Ghada si getta anima e corpo nell’impegno politico e inizia a lottare per far sentire la voce dimenticata degli esuli palestinesi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2013
ISBN9788865640906
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    Anteprima del libro

    Alla ricerca di Fatima - Ghada Karmi

    Fatima

    Alla ricerca di Fatima

    Una storia palestinese

    Alla ricerca di Fatima.

    Una storia palestinese

    Ghada Karmi

    Titolo originale

    In search of Fatima.

    A Palestinian story

    traduzione dall'inglese di Barbara Ronca

    © Ghada Karmi2002© Verso2009

    © Atmosphere libri 2013

    In memoria di mia madre

    e per sua nipote Lalla Salma

    Indice

    Ringraziamenti

    Nota dell’autore

    Introduzione

    Prologo

    Prima parte

    Palestina

    Seconda parte

    Inghilterra

    Terza parte

    In cerca di Fatima

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Questo libro non sarebbe mai stato scritto senza l’aiuto della mia famiglia, i cui ricordi degli eventi precedenti il 1948 sono stati indispensabili.  Desidero quindi ringraziare soprattutto mio padre e mia sorella Siham, ma anche mio fratello Ziyad e i miei cugini Zuhair e Aziza Karmi. Sono inoltre riconoscente alla signora Leila Mantoura e ai suoi familiari. Molte altre persone, sia parenti che amici, hanno contribuito ricostruendo per me alcuni episodi particolari, e a tutti loro devo un ringraziamento. Qualunque errore od omissione all’interno del testo sono da attribuirsi interamente a me.

    Ringrazio Iradj Bagherzade e Adel Kamal per aver corretto il mio manoscritto con professionalità e accuratezza, e Jane Hindle e tutti i membri della Verso Press per aver permesso a questo libro di diventare una realtà. Ho uno speciale debito di gratitudine con Tariq Ali, il cui interesse ed entusiasmo iniziali hanno dato il via a quest’avventura.

    Devo alla generosità incondizionata di diverse persone, tra le quali vorrei ricordare Karen Armstrong, George Joffe e Tim Llewellyn, il cui contributo si è rivelato inestimabile nelle ultime fasi della pubblicazione, il lavoro di critica e di correzione del testo, a cui devo moltissimo. Numerose persone mi hanno incoraggiata e sostenuta nelle molte difficoltà che ho incontrato scrivendo questo memoir: Gill Emberson, Cleeve e Barbara Mathews, Trevor Mostyn, Julia Hamilton, Alexandra Campbell, Siena Mills, Shelby Tucker e gli altri componenti del comitato di lettura. Senza la signora Maureen Elliott non avrei trovato la fiducia di cui avevo bisogno per dare il via all’impresa e sono grata a lei e ad Amy Henderson, che più avanti mi ha aiutata a mantenerla intatta.

    Vorrei inoltre ricordare gli sforzi di Hisham el Sol, Sami Alami e Bassam Aburdene per aver creduto in questo progetto e in me. Ringrazio Adel Kamal e Said Aburish per il loro aiuto e l’incoraggiamento.

    Edward Said occupa un posto molto speciale nella genesi di questo libro, perché è stato un amico straordinario e una grande fonte di ispirazione.

    Infine, devo moltissimo a mia figlia Salma, che col suo entusiasmo giovanile e la trepidazione con cui ha atteso l’uscita di questo volume mi ha aiutata a superare frustrazioni e momenti di sconforto.

    Nota dell’autore

    Tutti i personaggi di questo libro sono persone reali e perlopiù compaiono con il loro vero nome. Per evitare di interferire spiacevolmente con la vita personale o professionale di qualcuno, ho preferito però cambiarne alcuni.

    Introduzione

    Sono passati dieci anni dagli ultimi eventi narrati in In cerca di Fatima. Il libro si chiude nel 1998, l’anno del cinquantesimo anniversario della nascita di Israele e, allo stesso tempo, della distruzione della Palestina. In occasione di quell’anniversario, la speaker di una radio londinese mi telefonò raggiante per chiedermi un commento sulla ricorrenza per conto di un programma radiofonico ebraico. «Magnifico, no?» disse. «Le piacerebbe rilasciare una dichiarazione per il nostro programma e congratularsi con Israele?» Sconcertata dal fatto che, di tante persone a cui avrebbe potuto chiedere, si fosse rivolta proprio a me per applaudire il successo israeliano, feci rapidamente mente locale per trovare le parole adatte alla circostanza. «Ma certo» replicai. «Vorrei fare le mie congratulazioni a Israele per essersela cavata per tutto questo tempo: mi suscita la stessa ammirazione di Al Capone o dei banditi che assaltavano i treni postali del diciannovesimo secolo». Non so cos’abbia fatto della registrazione, ma dubito sia mai andata in onda.

    Se penso agli anni successivi mi accorgo di aver continuato a sperare in un cambiamento che sollevasse le sorti della Palestina, disperate ormai dal 1948. Nutrivo poche speranze che l’interminabile e ormai vano processo di pace in corso tra i leader palestinesi e israeliani portasse a qualche risultato. Ma la sensazione che le cose sarebbero cambiate, che un giorno, magari vicino, un evento inaspettato e prodigioso avrebbe messo fine a questo tragico conflitto, rimaneva viva. Nel 1998 gli accordi di Oslo avevano appena cinque anni. Molti palestinesi confidavano ancora in una svolta positiva: il riconoscimento di uno stato palestinese nelle aree della vecchia Palestina ancora esistenti. La comunità internazionale incoraggiava questa convinzione. Quell’anno numerose associazioni e organizzazioni umanitarie sciamarono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per aiutare a mettere in piedi le istituzioni dello stato putativo. La gente parlava della Palestina non come di un luogo ormai perduto e dalla storia drammatica, ma come una realtà in procinto di avverarsi, un nuovo inizio, il primo passo verso la riconquista della nostra madre patria. Benché fossi scettica nei confronti degli accordi di Oslo, non potei evitare di essere contagiata dall’entusiasmo degli altri palestinesi e dai primi segnali dell’affermazione di una compagine statale che li inorgogliva tanto.

    Ma era tutto un inganno, come scoprimmo presto. Mi sono chiesta spesso se i paesi occidentali che con tanto entusiasmo chiesero alla popolazione dei territori occupati di credere alla imminente creazione di uno stato fossero coscienti di fare promesse vuote, o se anche loro fossero stati raggirati. Oggi la possibilità che nasca uno stato palestinese è più lontana che mai. Gli accordi di Oslo sono carta straccia. Le terre che avrebbero dovuto costituire la nazione sono state inglobate dai sempre più vasti insediamenti israeliani. Nel 2000 è scoppiata la seconda Intifada, l’espressione della rabbia dei palestinesi e della delusione per le loro speranze tradite.

    Da allora la repressione di ogni forma di resistenza da parte di Israele è divenuta la norma. Dopo essersi formalmente ritirato da Gaza nel 2005, il governo israeliano ha trasformato il territorio in una prigione, oggetto di ripetuti attacchi, assedi e blocchi.

    Un simile trattamento aveva reso la Cisgiordania una realtà passiva e immobile, ma Gaza ha assunto il ruolo di ultimo avamposto della resistenza. Per questo motivo la regione e i suoi abitanti hanno subito ogni sorta di ritorsione violenta tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; ritorsioni che hanno avuto come conseguenza la morte di 1400 persone e il ferimento di qualche altro migliaio. Israele ha distrutto le infrastrutture palestinesi, demolito le abitazioni e lasciato ovunque solo pura devastazione.

    Viene da chiedersi quando, ammesso che sia possibile, la popolazione di Gaza si riprenderà da un tale massacro, o come si potrà sbrogliare la matassa inestricabile in cui si sono trasformate le nostre vite.

    Quando scrissi In cerca di Fatima volevo presentare la situazione con umanità, in modo comprensibile a tutti, cercando in questo modo di allontanarmi dal linguaggio dei trattati politici, degli studi accademici, delle analisi economiche e dall’aridità della storiografia, che erano diventati ormai la norma quando si trattava di raccontare l’esperienza palestinese. Quei trattati non avrebbero mai potuto restituire il volto più intimo della vicenda, e quindi le emozioni, gli aneddoti, i pensieri e le aspirazioni delle persone coinvolte. Se gli altri fossero riusciti a vedere i palestinesi come esseri umani con un nome e una storia propri, piuttosto che come un’unica entità costituita alternativamente da rifugiati arabi, estremisti, terroristi musulmani, forse avrebbero iniziato a empatizzare con quelle persone, intrappolate in un vissuto di crudeltà inaudita. Sono cresciuta in un paese, l’Inghilterra, dove ogni bambino in età scolare conosce la storia ebraica e le persecuzioni dell’Olocausto. E quella conoscenza non è giunta attraverso i saggi accademici o i libri di scuola, ma attraverso la letteratura, le biografie, i film e le rappresentazioni teatrali. Quindi, ho pensato, anche la storia della Palestina dovrebbe essere illustrata così, se non altro perché dell’Olocausto e delle politiche dei nazisti è la diretta conseguenza, il seguito inevitabile e l’ultimo capitolo di una catastrofe iniziata in luoghi molto lontani dalle coste del Medio Oriente. In quest’ottica la storia palestinese appare inestricabilmente legata a quella ebraica; ne è la naturale e straziante eredità.

    Dalla  prima pubblicazione di questo volume, nel 2002, ho ricevuto molti riscontri da parte dei lettori: è stato commovente e gratificante scoprire che reagivano proprio come avevo sperato. Centinaia di persone mi hanno contattata per raccontarmi di essere cambiate dopo aver letto la mia biografia, o di avervi visto in qualche misura rispecchiata la propria. Sebbene abbia scritto questo memoir pensando a dei lettori occidentali, e per la precisione anglofoni, mi ha sorpreso il numero di lettori non occidentali che ne sono rimasti colpiti.

    Tra questi ci sono numerosi musulmani, che vi hanno riconosciuto la propria esperienza o quella dei loro figli, cresciuti in paesi dell’Occidente. Anche molti giovani palestinesi si sono identificati col racconto, e vi hanno inoltre trovato una fonte di informazioni utili sugli eventi avvenuti prima del 1948, un periodo – quello precedente alla creazione dello Stato di Israele – di cui sapevano pochissimo. Ma le voci che più mi hanno emozionato sono state quelle dei lettori ebrei, che hanno rivisto in questa storia di sradicamento e di ricerca di un luogo da chiamare casa la propria esperienza. Il grande intellettuale americano Noam Chomsky vi ha intravisto un’eco del passato della sua famiglia ebrea ortodossa, trasferitasi molti anni fa in America. Nel 2002, appena uscita la prima edizione, mi ha scritto: Il resoconto dell’esperienza della sua famiglia a Londra risveglia in me molti ricordi. Quelli di mia madre, ad esempio: avrebbe dovuto vedere come reagì al matrimonio del primo figlio maschio (io). Eppure ho sposato una brava ragazza ebrea. Se fosse stata araba… non oso neanche immaginare. Oppure di mio nonno, che visse per sessant’anni a Baltimora e non imparò mai una parola di inglese, né – ma questa è una mia impressione – seppe probabilmente mai di trovarsi negli Stati Uniti.

    Da quando il libro è stato pubblicato sono morti molti grandi nomi della storia palestinese, persone di valore inestimabile. Che perdita, per un popolo che ha tanto bisogno di eroi! Nel 2003 Edward Said, intellettuale di grande levatura ma anche mio caro amico, a cui questo memoir era tanto piaciuto, è scomparso, seguito un anno dopo da Yasser Arafat, l’uomo simbolo della causa palestinese. Nel 2008 altre due gravi perdite ci hanno colpiti: quella dell’attivista e pensatore radicale George Habash, fondatore e guida del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina fin dal 1969; e il più noto e amato poeta palestinese, Mahmoud Darwish. Un anno prima, nel 2007, mi ero trovata ad affrontare un lutto personale, che ha esacerbato tutti gli altri. Mio padre, che si apprestava a compiere 102 anni e ormai avevo cominciato a ritenere immortale, se ne è andato lasciandosi dietro una ricca eredità di dieci dizionari inglese-arabo e ore e ore di registrazioni di programmi della BBC dedicati alla letteratura araba.

    Questi duri colpi non hanno affatto sminuito la mia determinazione, anzi: adesso documentare la storia della Palestina era necessario per preservarla dall’estinzione, e per riscattare il ricordo di chi aveva sofferto ed era morto senza poter vedere una soluzione. Palestina non è solo un nome, né è solo un paese: è un’ideale, un’aspirazione, e un simbolo per tutti coloro che hanno perso qualcosa e desiderano ardentemente una restituzione, una ricompensa.

    In cerca di Fatima è un monumento a quella speranza.

    Ghada Karmi

    Londra, marzo 2009

    Prologo

    Aprile 1948

    Uno schianto micidiale che scosse la casa. Qualcosa – una bomba, un mortaio, un deposito di artiglieria? – esplose con un boato devastante. La bambina se lo sentì riecheggiare in testa. Istintivamente si portò le mani alle orecchie e si gettò con gli altri sul pavimento freddo e ricoperto di piastrelle del liwan, come le era stato insegnato. E subito partirono gli spari, con i proiettili che fischiavano fuori dalle finestre e rimbalzavano contro i muri delle case vuote di fronte.

    «Presto! Presto!» La sensazione di pericolo nell’aria era palpabile.

    Il taxi aspettava fuori con le portiere aperte per condurli via, in un posto dove lei non voleva andare. La bambina voleva rimanere a casa con Fatima e Rex, a giocare in giardino, a scavalcare la staccionata per intrufolarsi a casa dei Muscovite, ad aspettare il ritorno dei suoi amici, addirittura a ricominciare la scuola, chiusa ormai da Natale. A fare tutte le cose solite, di cui era intessuta la trama della sua giovane vita. Non questa follia. Non l’abbandono di tutto ciò che conosceva e amava.

    «Sali in macchina! Sbrigati!» Un attimo di quiete nella sparatoria. Dovevano fare in fretta, e infilarsi tutti e otto, più due grosse valigie, nell’automobile. Il tassista continuava a gridare di far presto. Era terrorizzato e chiaramente ansioso di lasciare quella strada dove proiettili e rischi abbondavano. Rex non poteva andare con loro. Doveva rimanere a casa. La bambina strinse forte il suo corpo peloso e gli accarezzò le lunghe orecchie morbide. Avrebbe voluto dirgli: «Non preoccuparti. Staremo via solo una settimana. Me l’hanno detto loro. Te la caverai, e io tornerò presto».

    Ma in fondo sapeva che non era vero. A dispetto delle rassicurazioni dei genitori, una voce spaventosa dentro di lei le diceva il contrario.

    «Ghada! Vieni, vieni, per favore!» Rex dietro il cancello di ferro, lei dall’altra parte. La casa con l’ampia veranda chiusa a chiave, sbarrata, muta e già misteriosa, come se non avessero mai vissuto al suo interno e non fosse mai stata casa loro. Gli alberi da frutto che svettavano desolati contro il cielo mattutino.

    Ogni fibra del suo essere si ribellava contro quel destino, contro la crudeltà di una partenza che non era capace di evitare. Poggiò le mani sul cancello e Rex vi si scagliò contro abbaiando, convinto che lei stesse per entrare. La madre la trascinò via e la spinse sul sedile posteriore del taxi, in braccio a Fatima. Entrarono anche gli altri e Muhammad chiuse le portiere. Lei si voltò in ginocchio sul sedile e si sporse a guardare fuori, oltre il lunotto posteriore.

    Un’altra esplosione. Il taxi, che aveva visto giorni migliori, accelerò con un rombo e si allontanò. E attraverso il vetro uno spettacolo terribile che solo lei poté vedere. Rex era chissà come uscito dal cancello, e stava immobile in mezzo alla strada. Fermo, silenzioso, fissava l’automobile che si allontanava, la coda rigida, le orecchie puntate in avanti.

    In quel momento la bambina comprese, con assoluta certezza, che anche lui aveva intuito ciò che lei già sapeva: non si sarebbero visti mai più.

    Prima Parte

    Palestina

    Uno

    In una fredda giornata autunnale arrivai con mia madre, mia sorella e mio fratello all’aeroporto di Londra. All’epoca non si chiamava ancora Heathrow. Le uniche due parole inglesi che conoscevo erano Oscar Wilde, perché mio padre, che a sette anni mi aveva insegnato a leggere l’alfabeto latino, aveva in biblioteca un libro con quel titolo.

    Era il settembre del 1949 e io avevo nove anni. Non sapevo con precisione perché fossimo venuti a Londra, né quanto vi saremmo rimasti. In effetti sapevo pochissimo di molte cose. Mio padre doveva venire a prenderci, e io immaginai fosse lui il motivo per cui eravamo partiti: per rivederlo. Il quadrimotore della BOAC con cui eravamo arrivati aveva impiegato tutta la notte, con una tappa a Malta, per volare da Damasco a Londra. Per me, che non avevo mai viaggiato, quei posti e quell’esperienza erano nuovi e sorprendenti. L’aeroporto era un luogo piuttosto triste; aveva sale gigantesche con pavimenti lucidati in vinile e legno, la cosa più strana di tutte. In Palestina i pavimenti erano rivestiti di mattonelle o di pietra. E poi c’era una tale calca, decine di persone che camminavano, si affrettavano, si spintonavano. Fino ad allora non mi ero mai trovata, in tutta la mia vita, in un posto in cui non conoscessi assolutamente nessuno. Anche durante la visita all’enorme suq di Damasco, la cosa più simile all’aeroporto di Londra che avessi mai visto, eravamo con il resto della famiglia e addirittura qualche vicino. La gente qui sembrava diversa da quella a cui ero abituata: erano tutti più alti, più grossi e più pallidi. Gli uomini non portavano i baffi e mi chiesi come mai non ci fossero in giro donne gravide; non si scorgevano pancioni da nessuna parte, non certo come in Palestina.

    Non vedevamo mio padre da oltre un anno, da quando ci aveva lasciati a Damasco, a casa del nonno. All’inizio mi mancava da morire. Poi, in un certo senso, avevo iniziato a dimenticarmi di lui. La situazione a Damasco era molto strana. Non avevamo mai vissuto in quella città, e sebbene mia madre vi fosse nata e cresciuta a malapena conoscevamo i miei nonni. Ma non credo che la mamma fosse mai stata felice laggiù, e immagino fu contenta di trasferirsi in Palestina dopo il matrimonio. «Non avrei mai pensato che prima o poi sarei stata sollevata all’idea di tornare in questo posto» aveva detto non appena rimesso piede lì. «Non so proprio come avremmo fatto in questo periodo terribile, se non avessimo avuto i miei genitori». Quello appena concluso era stato davvero un periodo terribile, tanto terribile da spingermi ad annientare i ricordi più dolorosi eliminandoli dalla memoria. I problemi in Palestina erano iniziati ancor prima della mia nascita: quindi la mia infanzia (come anche quella dei miei fratelli, entrambi più grandi di me) era stata offuscata dai grandi eventi politici che sconvolgevano il nostro paese e quelli confinanti. Per lungo tempo non fummo in grado di comprenderne la portata, né il motivo per cui noi, oscura popolazione mediorientale, e la nostra nazione arretrata e depressa fossimo stati scelti per giocare un ruolo tanto fondamentale in delicate questioni di interesse globale.

    Io nacqui appena un paio di mesi dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Più tardi mia madre avrebbe aggiunto questa congiuntura storica alla lista di ragioni per cui, in quel momento, avrebbe preferito che io (o, se è per quello, qualunque altro bambino) non nascessi. Molte donne palestinesi si trovavano ad affrontare la sua stessa situazione. Private dell’accesso ai metodi contraccettivi o alla pratica dell’aborto, finivano per pregare di non dover aggiungere un’altra bocca da sfamare alle loro famiglie già numerose. Ma nel caso di mia madre non fu la povertà a determinare quella condotta: c’era un’altra ragione. La vita in Palestina era difficilissima in quegli anni, diceva sempre; non era il luogo adatto per far crescere un bambino. Non passava giorno senza che si diffondessero notizie di sparatorie in città o imboscate in qualche angolo del paese. Nessuno si sentiva al sicuro. «Se non ci tormentavano gli ebrei, lo facevano gli inglesi, o addirittura altri palestinesi».

    Nonostante le sue resistenze, vidi infine la luce nel reparto ostetricia-ginecologia dell’Ospedale governativo di Gerusalemme con l’aiuto del dottor Hajjar, il ginecologo della mamma.

    «Su, Um Ziyad» le disse lui. «Si rallegri. Questo momento non durerà per sempre e presto torneremo alla normalità». Come lui, molti la chiamavano Um Ziyad. Letteralmente significa madre di Ziyad, dal nome del primo figlio maschio, mio fratello Ziyad, e riprende una consuetudine tipica del Levante: le donne che hanno partorito un maschietto vengono appellate in questo modo, e secondo lo stesso principio mio padre veniva chiamato Abu Ziyad, padre di Ziyad.

    Sono nata probabilmente il 19 novembre 1939. Dico probabilmente perché la data esatta non è nota. Mia madre conserva un ricordo molto vago dell’evento («Era inverno, di questo sono sicura»). Una tale dimenticanza non è strana quanto potrebbe sembrare, perché nel mondo arabo i compleanni rivestono un’importanza relativa. In genere non vengono celebrati, e comunque non con feste o regali acquistati per l’occasione. Solo in anni recenti, e con l’avvento dell’occidentalizzazione, l’atteggiamento è cambiato e abbiamo mutuato le usanze straniere (assieme alla canzoncina Tanti auguri a te, in un’assurda variante araba con melodia originale e approssimativa traduzione del testo.) Nemmeno i miei genitori conoscono le loro date di nascita esatte, mai registrate in via ufficiale. Eppure avrebbero dovuto esserlo, perché le autorità ottomane, che controllavano il paese quando entrambi nacquero, richiedevano che tutte la nascite fossero certificate. Ma la popolazione non era abituata e i miei nonni non si presero la briga di adeguarsi. La cosa poteva essere un vantaggio, visto che avrebbe permesso a mia madre di dichiarare meno anni di quanti ne avesse in realtà senza timore di essere smentita. Le autorità inglesi, succedute a quelle ottomane, registrarono invece le nascite mia e dei miei fratelli con scrupolosa precisione. Quando uscì dall’ospedale mia madre ottenne un certificato dove il mio nome era indicato in inglese, arabo ed ebraico (le tre lingue ufficiali della Palestina, come decretato dal mandato britannico): Ghada Hasan Karmi, ovvero una parziale ripresa del nome di mio padre, secondo l’usanza araba. Il documento, stampato su un foglio azzurro, finì nel cassetto della scrivania di mio padre in salotto, dove si trovava anche un album contenente alcune foto di noi figli appena nati e ai tempi della scuola. Mia madre pensava che lì quelle carte sarebbero state al sicuro, ma nell’agitazione e nel caos della fuga da Gerusalemme si dimenticò di portarle con sé. «Come avrei potuto ricordarmene?» ripeté spesso dopo, rosa dai sensi di colpa. «Riuscivo solo a pensare a preparare le valigie con i vestiti di tutti e cinque».

    E lì, immagino, quei documenti rimasero finché la famiglia ebrea a cui le autorità israeliane avevano assegnato la nostra casa ormai disabitata li trovò e, per quanto ne so, li gettò via. Quindi non ho mai avuto l’opportunità di vedere il mio certificato di nascita, né di verificarne la data, e neppure di sfogliare le fotografie che mi ritraevano da piccola. Per molto tempo la mia prima foto fu quella scattata dopo l’abbandono della Palestina e l’arrivo in Siria, risalente a quando avevo otto anni (anche se molto più tardi, chissà come, mio zio Taleb riuscì a recuperarne alcune più vecchie). Raffigurava me, mia sorella, mio fratello, nostra madre e zio Taleb, tutti ordinati e in posa davanti all’obiettivo. Quando la guardavo, da bambina, pensavo sempre che la mia vita vera fosse iniziata con quello scatto. Tutto ciò che era accaduto prima non aveva lasciato alcuna traccia, e non esisteva se non nei miei sogni.

    La vigilia di Natale dell’anno in cui nacqui, quando avevo poche settimane, una notizia sconcertante irruppe nelle nostre vite mentre mia madre mi allattava. Il maggiore dei miei zii, Mahmoud, che aveva solo cinquant’anni e ben otto figli, era stato ucciso a colpi d’arma da fuoco a Beirut. Ritornava a casa, di sera, quando un uomo col volto coperto era sbucato da sotto la rampa di scale che portava al suo appartamento. Le luci non funzionavano ed era molto buio. «Sei Mahmoud?» gli aveva chiesto lo sconosciuto. «Sì» aveva risposto lui senza alcun sospetto. L’uomo gli aveva quindi sparato due colpi in petto. Nessuno aveva sentito nulla, perché lo zio viveva ai piani alti, ma la polizia aveva arrestato l’assassino e la sua confessione aveva permesso di identificare come mandante dell’omicidio Haj Amin al-Husseini, le cui idee politiche incontravano l’ostilità dello zio; ostilità di cui peraltro lui, giornalista senza peli sulla lingua, non faceva mistero.[1] Già una volta, nel 1937, quando viveva con la famiglia a Nablus, gli scagnozzi di Haj Amin erano andati a cercarlo. Lo zio era riuscito a fuggire appena in tempo, lasciando il figlio maggiore, mio cugino Zuhair, a capo della famiglia. «Quindi mi hanno rapito!» raccontò Zuhair. «Avevo solo quattordici anni, ma non gli interessava. Ti prendiamo in ostaggio per arrivare a tuo padre. Mi costrinsero a salire a cavallo dietro uno di loro e mi condussero in un accampamento appena fuori città. Ero terrorizzato, ma mi resi conto quasi subito che si trattava solo di una massa di contadinotti, come quelli che si trovavano a Tulkarm, e smisi di avere paura. Mi tennero prigioniero per due giorni, e ho l’impressione che fossero dispiaciuti per quello che erano costretti a fare».

    Un altro dei miei zii, Abdul-Ghani, anche lui giornalista e anche lui avverso alle idee di Haj Amin, che aveva apertamente accusato di essere una spia inglese, era sfuggito per un pelo a un attentato pochi mesi prima. Al suo posto era stato ucciso per sbaglio qualcun altro, e lo zio si era trasferito a Tel Aviv, dove i sicari del Mufti non avrebbero potuto raggiungerlo. «Perché non combattono gli ebrei invece che l’uno contro l’altro?» piangeva mia madre. «Dio non voglia che tu debba essere il prossimo. Non credere che abbia dimenticato quello che è successo l’anno scorso» aggiungeva rivolta a mio padre. Un anno prima che io nascessi un uomo si era presentato a casa nostra. Ad aprire era andata lei: era più sicuro, perché nessuno aveva interesse a fare del male a una donna. Lo sconosciuto, con un tono di voce strano, aveva chiesto di parlare con mio padre. Mia madre aveva notato il suo aspetto non certo elegante, e quando era venuto alla luce aveva visto che a tracolla indossava una cartuccera. Prima che lei potesse reagire papà si era fatto avanti e lui gli aveva rivolto la parola: «Mi manda qui Haj Amin al-Husseini. Dovrei ammazzarti ma, che Allah mi perdoni, non ho il coraggio di andare fino in fondo. Non hai niente da temere».

    Questa rassicurazione non era stata sufficiente per mio padre, che era rimasto profondamente turbato.

    Quella notte se ne era andato di casa, lasciando mia madre, mia sorella e mio fratello per rifugiarsi al YMCA. L’ostello si trovava più vicino al suo ufficio, a Jaffa Road nel Russian Compound, e quindi avrebbe trovato facilmente riparo all’occorrenza.

    «Per un po’» raccontò mia madre «non poté nemmeno venire a casa a salutarci, perché sapeva che lo aspettavano». Per riuscire  a incontrarsi la mia famiglia si dava appuntamento nella casa di Qatamon di Muhammad Kamal, il cugino di mio padre, a distanza di sicurezza dalla zona controllata da Haj Amin. Mia madre portava lì i miei fratelli Siham e Ziyad ogni sera.

    Era una donna coraggiosa e capace, ma questi incontri clandestini e il pericolo che incombeva sul marito la privavano di ogni energia. All’epoca non ci si aspettava certo che una donna provvedesse da sola a se stessa: non c’erano genitori single nella nostra società e ben presto la mamma cominciò ad accusare quella situazione, sentendosi sempre più sconfortata e insicura. A volte si chiedeva se sarebbe mai finita.

    Perché se è vero che la vita in Palestina era turbolenta al momento della mia nascita, lo era stata senza dubbio ancora di più negli anni immediatamente precedenti. Dal 1936 al 1939 la protesta palestinese contro la linea politica seguita dalle autorità del mandato britannico che governavano il paese era ormai inarrestabile. La sommossa ebbe origine con lo sciopero generale indetto per mettere un freno all’immigrazione degli ebrei, che aveva ormai raggiunto proporzioni allarmanti. L’intero paese rimase bloccato per sei mesi. Gli inglesi posero fine allo sciopero con la forza. I leader del movimento di protesta furono giustiziati e centinaia di simpatizzanti arrestati. Ma le contestazioni e le violenze non si fermarono, e quello che era nato come uno sciopero si trasformò in una rivolta in piena regola. Oltre tremila palestinesi furono uccisi nell’arco di tre anni. Anche dopo alcuni decenni mio padre riusciva a  malapena ad accennare a quel periodo. Tutti pensavano di sapere quale fosse lo scopo degli inglesi. Sembravano determinati a lasciar entrare il maggior numero possibile di ebrei nel paese e a soffocare ogni resistenza palestinese. La popolazione era terrorizzata, ma i capi della rivolta non riuscirono ad accordarsi su una strategia comune per sconfiggere l’avanzata ebraica né tantomeno gli inglesi. La ribellione comportò enormi sacrifici per tutti; la gente moriva letteralmente di fame. Ma alla fine non ottenemmo nulla. L’immigrazione ebraica proseguì indisturbata, e così, forse a causa della profonda frustrazione, le autorità palestinesi finirono per aggredirsi a vicenda, e furono le persone comuni come i miei genitori a farne le spese.

    Allo scopo di tenere la situazione sotto controllo, gli inglesi introdussero in Palestina il temutissimo tatwiq (retata). Si trattava di una malaugurata pratica messa in atto dalle autorità e volta a individuare i combattenti della resistenza palestinese e scovare armi nascoste. Secondo mia madre fu tra gli episodi più dolorosi di quel periodo. «Facevano delle retate senza preavviso e arrestavano chiunque fosse sospettato di irregolarità». In quel periodo la nostra famiglia viveva nella Città Vecchia, vicino al Museo Archeologico. «I soldati bussavano coi fucili e piombavano in casa in cerca degli uomini. Non gli importava se fossero innocenti o colpevoli, li trascinavano fuori e li radunavano come bestie. Poi li trascinavano via per interrogarli». Un giorno quel trattamento toccò anche a mio padre, e quando mia madre protestò sulla soglia, il capo della squadriglia le abbaiò contro di star zitta.

    Mio padre non disse mai una parola sull’umiliazione e la vergogna che questi incidenti suscitarono in lui. Che tristezza, mi venne da pensare quando sentii questa storia: le medesime brutalità rivivono, ripugnanti, sotto ogni regime di occupazione militare, e proprio così vengono trattati oggi i palestinesi dalle autorità israeliane. E quanto era strano, quasi incredibile, sentir dire che certe pratiche ignobili erano attuate dagli inglesi, un popolo che ho imparato ad amare e rispettare quando sono andata a vivere in Gran Bretagna.

    Mia sorella Siham imparò a temere i soldati inglesi fin da piccola. Nell’estate del 1935, quando aveva appena quattro anni, lei e nostra madre, incinta di Ziyad, videro dei soldati arrivare in una camionetta militare e affollarsi nel giardino della casa di fronte alla nostra coi fucili spianati. La mamma lasciò Siham dov’era e si precipitò in strada, dove lanciò un’occhiata spaventata a quegli uomini armati fino ai denti che correvano verso la porta dei vicini calpestando le aiuole: avevano circondato, come si accorse ben presto, l’intera abitazione. Erano venuti per arrestare Talaat al-Seifi, un buon amico di mio padre. Quando capì cosa stava succedendo la mamma cercò di raggiungerli, ma uno dei soldati si voltò e la respinse: la minacciò di colpirla in faccia col calcio del fucile e lei tornò, tremante e impaurita, verso casa. Per anni giurò che lo spavento terribile di quell’esperienza era la causa del brutto eczema che aveva tormentato Ziyad per tutta l’infanzia.

    Quando Siham compì sette anni, i soldati tornarono nella nostra via. Radunarono ogni adulto che riuscirono a rintracciare, inclusa nostra madre, e isolarono il gruppo dietro un cordone alla fine della strada. Mio padre era al lavoro e mia sorella rimase sola a casa. Quando i soldati la costrinsero a uscire la mamma le gridò di dir loro che non avevamo nulla, solo libri. Lo fece perché in quelle occasioni a volte i soldati si intrufolavano nelle abitazioni e buttavano tutto all’aria, prendendo a calci i mobili. Se la prendevano in particolare con le dispense, dove tenevamo le provviste non deperibili come farina, zucchero, olio. Dopo una visita dell’esercito non era infrequente ritrovarsi la cucina disseminata di pozze appiccicose di farina e riso che nuotavano nell’olio. Mia madre viveva nel terrore che potesse accadere anche a noi. Ogni anno impiegava molto tempo e una gran quantità di denaro per preparare e stivare le provviste per l’inverno. Essere costretti a guardare ammutoliti i soldati che devastavano tutto con i loro scarponi era un incubo che molti amici avevano già vissuto e che lei desiderava a tutti i costi evitare.

    Mio padre era già allora un avido lettore e collezionista di libri, che teneva in grosse cassapanche. In un soldato in cerca di armi nascoste certo quelle casse avrebbero destato dei sospetti, e infatti quello che entrò in casa nostra smise subito di camminare e ne esaminò una toccandola con l’arma. Siham balbettò terrorizzata che lì dentro c’erano solo libri inglesi. Sottolineò la parola inglesi sperando di calmarlo. Lui parlava un po’ d’arabo e sembrò capirla. Cercò di darle un buffetto in testa, ma lei arretrò spaventatissima. Lui si strinse nelle spalle e si voltò per andarsene; per poco non si scontrò con mia madre, che era sgusciata via superando il cordone di militari e si era precipitata a casa urlando, nel terrore che Siham fosse stata uccisa. Aveva afferrato un altro soldato per la giacca dell’uniforme, completamente immemore del fatto che lui fosse armato, e piangeva farfugliando le poche parole inglesi che conosceva: «Baby! My baby!» e indicando la casa. L’uomo se la scrollò di dosso e in poche falcate fu all’interno. Vide mia sorella e scoppiò a ridere: «Santo cielo, signora! E quella la chiama baby

    Mia madre si lasciò andare a un profondo sospiro, al ricordo di quell’episodio. «Ti sembra strano che non volessi mettere al mondo un altro bambino, in un mondo simile?»

    ***

    Il corpo dello zio fu portato da Beirut a Tulkarm, in Palestina, per essere sepolto. La mia famiglia era originaria di quella zona, e da lì deriva il nostro cognome, Karmi (non è infrequente che i cognomi arabi siano ricavati dai luoghi di provenienza delle famiglie). All’epoca Tulkarm era una cittadina molto piccola e si trovava nella Palestina centrale, a metà strada tra Lydda e Haifa, a nord-ovest di Gerusalemme (ora si trova nell’attuale Cisgiordania, e dal 1967 al 1995 è stata sottoposta all’occupazione militare israeliana).

    Mia madre non voleva andare al funerale perché ancora mi allattava e non avrebbe potuto portarmi con sé. E poi da qualche tempo aveva messo gli occhi su una camera da letto in vendita in un negozio di Jaffa Road, nella zona commerciale di Gerusalemme. Il proprietario era un ebreo tedesco immigrato da poco in Palestina, che non se la passava troppo bene: la cosa era piuttosto strana perché molti degli ebrei che venivano a vivere qui ricevevano sostanziosi aiuti economici dal governo del mandato britannico, motivo per cui erano più che benestanti. Un funzionario inglese del Dipartimento dove lavorava mio padre riassunse così la situazione: «Gli ebrei dicevano di voler venire qui per aiutare i loro confratelli. Ma per come la vedo, quelli che fanno del bene al prossimo sono molti di meno di quelli che fanno il proprio!» Questa battuta, mi raccontò mio padre, rispecchiava alla perfezione un certo antisemitismo allora molto diffuso tra i funzionari britannici impiegati in Palestina.

    Mia madre era riuscita a convincere il negoziante a mantenere un prezzo di trenta sterline per la camera e stava per portargli il denaro e concludere l’affare. Ma mio padre decise che avrebbe dovuto fare il suo dovere e seguirlo a Tulkarm per il funerale. Quindi lei fu costretta a lasciare me e la camera, e quando tornò a Gerusalemme quella era stata ormai venduta.

    Durante la sua assenza mi fecero bere latte di mucca diluito, con l’aggiunta di semi di anice per renderlo più digeribile. Il medico di famiglia aveva consigliato alla mamma di farmi abituare al latte vaccino prima possibile: in quegli anni difficili, ci spiegò, il latte in polvere poteva scarseggiare all’improvviso. Mia madre non aveva nessuno a cui affidarci, perché i suoi parenti di Damasco non potevano certo venire fino a Gerusalemme né poteva farlo nessuno da Tulkarm, visto che tutti dovevano presenziare al funerale dello zio. Quindi ci lasciò a Fatima per tutta la settimana: «Fu un’esperienza meravigliosa» raccontò Siham anni dopo «perché volevamo bene a Fatima, e poi potevamo fare tutto quello che ci pareva. Tu piangevi sempre, una bella scocciatura. Un giorno Ziyad propose addirittura di rimandarti indietro all’ospedale. Ma eravamo felici comunque».

    Fatima metteva il latte per me in una bottiglia curva con una tettarella di gomma a ciascuna estremità, che scaldava su una lampada a spirito. Quanto sembrerebbe antiquato al giorno d’oggi un oggetto simile! Ma al tempo non esisteva nulla di meglio. Fatima non viveva stabilmente con noi, ma in occasioni come quella, in cui i nostri genitori stavano via qualche giorno a Tulkarm, si trasferiva a casa nostra. Ovviamente all’epoca non sapevo ancora cosa Fatima avrebbe rappresentato per noi bambini, e cosa sarebbe arrivata a significare per me personalmente, quando dopo il 1948 i preziosi ricordi di lei si sarebbero fusi in modo inestricabile con gli altri della mia infanzia ormai perduta. Mia madre la riteneva poco più di una donna di fatica, una signora di campagna che puliva la casa e le dava una mano in cucina. Era consuetudine nelle famiglie palestinesi benestanti assumere un domestico o una domestica provenienti dalle campagne (i cosiddetti fellahin) per svolgere le faccende. Mia madre, di origini piuttosto modeste, era cresciuta ritenendo l’idea di avere dei servitori impensabile. Ma adesso che aveva sposato un uomo con una buona posizione e ottime prospettive di carriera poteva godere di tutti i vantaggi del suo nuovo status.

    Fatima al-Basha, questo era il suo nome per intero, viveva nel piccolo centro di Maliha, meno di cinque chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. Appena adolescente aveva sposato un uomo che la maltrattava, e da cui ben presto era fuggita tornando a vivere dai genitori. Il marito le diede due bambine prima di morire o sparire nel nulla: non abbiamo mai saputo cosa fosse davvero successo. Quando venne a lavorare per noi aveva una quarantina d’anni e viveva con le figlie a poca distanza dal fratello Muhammad. A lui mio padre trovò un impiego come custode alla scuola di Ziyad,  la Umariyya. Ogni giorno, dopo il lavoro, veniva a casa nostra per occuparsi del giardino e fare altri piccoli lavoretti. 

    L’altro fratello di Fatima si era trasferito in Sud America per unirsi alla crescente comunità di palestinesi e siriani emigrati laggiù fin dalla fine del diciannovesimo secolo. Molti erano cristiani che si erano trasferiti perché non ritenevano possibile continuare a professare la loro fede negli ultimi turbolenti anni dell’Impero Ottomano. Con l’avvento del mandato britannico l’indipendenza dei palestinesi, invece di avvicinarsi, si fece sempre più remota, poiché gli inglesi cominciarono a incoraggiare l’immigrazione degli ebrei nel paese, e i tumulti sembrarono quindi destinati a continuare.

    Così quelli che potevano permettersi di portare la propria famiglia con sé, oppure gli uomini soli come il fratello di Fatima, partirono per costruirsi una nuova vita. Quell’uomo era, come il resto della sua famiglia, poverissimo e senza alcuna istruzione; Fatima non ci disse mai come se la cavasse nel suo nuovo paese.

    All’inizio mia madre aveva bisogno di aiuto solo una paio di volte a settimana. Ma quando ci trasferimmo a Qatamon, dove rimanemmo finché fummo costretti a lasciare Gerusalemme, Fatima cominciò a venire tutti i giorni. Noi avremmo voluto che rimanesse anche la notte, e la imploravamo di restare, ma lei era irremovibile, e ogni sera tornava a casa sua. Poi, la mattina dopo, rifaceva a piedi il tragitto, quasi un’ora di cammino. A metà strada c’era una grossa quercia sotto cui si fermava a riposare prima di proseguire. Anche noi conoscevamo bene quell’albero, perché ogni tanto andavamo a trovarla a Maliha. Ci piaceva da morire andare da Fatima – «Dio solo sa perché» commentava mia madre – e quando partivamo da Gerusalemme con lei e il fratello eravamo sempre impazienti di arrivare. Visto che io e Ziyad eravamo ancora molto piccoli, lei e Muhammad ci tenevano sulle spalle. Ogni tanto chiedevamo di scendere e camminare da soli, ma ci stancavamo presto e quasi subito chiedevamo di essere portati di nuovo. E proprio quando non sopportavamo più il caldo e la sete compariva quella bellissima quercia, col grosso tronco nodoso e i rami carichi di foglie. Quando la vedevamo tiravamo tutti un sospiro di sollievo e correvamo a riposarci sulla zolla di terra fresca ombreggiata dalla sua chioma.

    Fatima viveva in una casa piccola e squadrata con le pareti di fango e il tetto di legno che stava, come vuole la consuetudine palestinese, in mezzo a un grappolo di altre abitazioni simili. Si riduceva a un’unica stanza dove si mangiava, si dormiva, ci si sedeva e si svolgeva in genere qualunque affare. Contro una delle pareti stava poggiata in verticale una piattaforma, o un ripiano, dove si riponevano i materassi e le coperte per la notte. Mentre Fatima cucinava noi ce ne stavamo seduti a terra nel centro della stanza. Mangiavamo semplici stufati di verdure, perché la carne, per lei come per gli altri abitanti del posto, era un lusso. A volte ci offriva anche un piattino contenente olio d’oliva e timo tritato, olive verdi schiacciate e cipolle fresche, tutti prodotti tipici della tradizione contadina palestinese. Noi mangiavamo qualunque cosa ci preparasse, comprese le pagnotte basse e tonde che impastava lei stessa, come se si trattasse dei piatti più prelibati che avessimo mai assaggiato. Dopo mangiato andavamo con le sue figlie fino alle sorgenti che zampillavano appena fuori del centro abitato. La fonte riforniva tutto il villaggio, e poco distante si trovava un abbeveratoio per gli animali, immancabilmente circondato da greggi di capre che si ammassavano e spingevano per bere per prime. Le figlie di Fatima riempivano una grossa caraffa di coccio ciascuna dalla bocca della sorgente e poi se le sistemavano sulla testa. Riuscivano, così appesantite, a camminare dritte, in perfetto equilibrio, anche con una certa grazia, senza che mai una volta le caraffe cadessero a terra.

    Fin dall’inizio considerai Fatima come mia madre. Sapevo, naturalmente, che non era lei la mia vera madre, ma nutrivo un affetto così profondo che Ziyad e Siham presero a canzonarmi dicendo che ero una campagnola. «Non sei mica nostra sorella» dicevano. «Ti abbiamo trovata in giardino. I tuoi veri genitori sono contadini come Fatima, e vengono dallo stesso posto. Prima o poi ti rimandiamo da loro». Quegli scherzi mi angosciavano, e al solo sentirli piangevo disperata. «Lasciatela in pace!» li rimproverava mia madre. Ma il mio strazio era solo in parte dovuto al fatto di non voler essere considerata una reietta nella mia stessa famiglia. In maggior misura mi turbava l’idea di essere associata ai contadini. Anche se ero ancora piccola avevo già assimilato la tripartizione usuale della società palestinese: in fondo alla scala c’era la gente di campagna, poi i proprietari terrieri e in cima gli abitanti delle città. Questa divisione era una forma di snobismo ingiustificato, visto che i fellahin rappresentavano la maggioranza della popolazione e la colonna portante della nazione. La Palestina era in gran parte un paese agricolo, e le prime industrie presero piede solo nel ventesimo secolo. Le élite urbane erano sempre esistite, almeno fino a un certo punto, nelle principali aree metropolitane, ma conobbero una reale crescita solo a partire dalla fine dell’Ottocento. Le tradizioni e le consuetudini che distinguono la Palestina dai paesi confinanti non nascono in seno a questa classe urbanizzata, ma derivano dalla tradizione rurale. Le arti manufatturiere tipiche del paese, come la produzione del vetro di Hebron, le stoffe di Majdal, le ceramiche, ma anche la musica, le danze folcloristiche come la dabka, i ricami preziosi, derivano tutti dalla sapienza contadina.

    Eppure il pregiudizio continuava, e le classi più abbienti non potevano evitare di considerare i loro vicini come inferiori. Persino il termine che li indica aveva una sfumatura dispregiativa. Chiamare qualcuno fellah o fellaha – la variante femminile – implicava, in una certa misura, che quella persona fosse rozza e ineducata. Mio padre aveva il suo metodo infallibile per scovare i contadini che avevano fatto un salto di classe e cercavano di spacciarsi per persone di origini più nobili. «Quel tizio potrà pure definirsi docente universitario, ma dai retta a me, non è niente altro che un campagnolo» diceva. «E come lo sai?» «Guardagli i pantaloni» rispondeva lui. «Sono gonfi». Poiché i contadini indossavano tradizionalmente dei calzoni molto larghi e morbidi non erano abituati a portare abiti da città, e quindi, secondo mio padre, non erano capaci di stirarli a dovere. Come mai avesse sviluppato questa convinzione non l’abbiamo mai saputo, anche perché nessuno di noi ha mai visto pantaloni con la piega incriminata. Ma sentirlo dire cose del genere irritava profondamente mia madre.

    «Come se la tua famiglia fosse tanto meglio!» lo scherniva. A dire il vero la sua reazione era un tantino esagerata. Benché la famiglia di mio padre fosse per lo più dedita all’agricoltura, mio nonno era un famoso studioso e qadi e, come se non bastasse, un giudice nel tribunale della shari’a (l’istituzione religiosa che regolamenta, da un punto di vista legale, la vita dei musulmani). La sua reputazione come uomo di cultura si era diffusa ben oltre i confini di Tulkarm.

    Ma il nonno era anche un possidente terriero e aveva una vasta proprietà nei dintorni del villaggio (che fu in seguito confiscata da Israele) che affidò ai suoi fratelli perché la gestissero per conto della famiglia. Lui non si dedicò mai all’agricoltura, ma preferì occuparsi di letteratura, poesia e giurisprudenza. Mio padre diceva sempre che fu il suo esempio a spingere lui e mio zio a interessarsi di letteratura. Comunque mia madre, sebbene avesse origini molto più umili, era una figlia di Damasco, una delle capitali più importanti del mondo arabo. Non se ne dimenticava mai, e di tanto in tanto prendeva in giro mio padre per la sua famiglia, che veniva da quello che, ai suoi occhi, non era che un grosso villaggio.

    Tulkarm era in effetti un piccolo centro agricolo con una popolazione di poche migliaia di abitanti all’epoca di mio nonno. Ma la gente del posto era fiera del fatto che le autorità ottomane le avessero concesso, attorno al 1850, lo status di qaimmaqamiyya. Si trattava di una peculiarità amministrativa che rendeva Tulkarm una municipalità a sé stante, riconoscendole alcuni privilegi rispetto ad altri

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