Otto anni di guerra in Gallia. De bello gallico riciclato
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Otto anni di guerra in Gallia. De bello gallico riciclato - Antero Reginelli
© Copyright 2015 by Antero Reginelli
Via Enrico Ferri 16
00046 Grottaferrata - Roma
e-mail: anteroreginelli@yahoo.it
Finito di scrivere a Marzo 2015
Gallia

INDICE DE BELLO GALLICO
UNO: Gli avvenimenti precedenti
DUE: Cesare in Gallia. La guerra contro gli Elvezi
TRE: Ora tocca ai Tedeschi
QUATTRO: A nord, per mettere le cose in chiaro
CINQUE: I luogotenenti di Cesare
SEI: Genti germaniche: gli Usipeti e i Tenteri
SETTE: L’attraversamento del Reno
OTTO: Truppe romane in Gran Bretagna
NOVE: La questione Treveri
DIECI: Dumnorige
UNDICI: La seconda spedizione in Britannia
DODICI: L’Eburone Ambiorige
TREDICI: Attacco a Quinto Cicerone
QUATTORDICI: Voreno e Pullone
QUINDICI: Arrivano i nostri
SEDICI: Di nuovo il Trevero Indutiomaro
DICIASSETTE: Severe punizioni
DICIOTTO: Impaurire e punire i Germani
DICIANNOVE: La caccia ad Ambiorige
VENTI: L’incursione dei Sigambri di Germania
VENTUNO: Il grande saccheggio
VENTIDUE: L’ascesa al potere di Vercingetorige
VENTITRE: L’imprevedibilità di Cesare
VENTIQUATTRO: Mosse rapide
VENTICINQUE: Provvedimenti estremi
VENTISEI: L’assedio di Avaricum (Bourges)
VENTISETTE: Nel campo di Vercingetorige
VENTOTTO: In marcia verso Gergovia
VENTINOVE: L’Eduo Litavicco
TRENTA: La battaglia di Gergovia
TRENTUNO: Finalmente l’estate
TRENTADUE: Labieno a Lutetia Parisorum
TRENTATRE: Tutti contro
TRENTAQUATTRO: Il primo serio scontro
TRENTACINQUE: L’assedio di Alesia
TRENTASEI: Le battaglie di Alesia
TRENTASETTE: Correo e Commio
TRENTOTTO: La battaglia di Lemonum (Poitiers)
TRENTANOVE: L’esempio di Uxellodunum
QUARANTA: La resistenza dell’Atrebate Commio
QUARANTUNO: L’anno scorso, nel 50 a.C.
Appendice 1: Notizie sui Galli e i Germani
Appendice 2: La foresta Ercinia
UNO - Gli avvenimenti precedenti
I Senatori, i nobili e gli altri della combriccola hanno letto con scrupolosa attenzione le relazioni ricevute da Cesare durante gli otto anni di guerra in Gallia: sanno bene come sono andate le cose. Per questo il racconto che faccio di quella campagna è destinato ai semplici cittadini, a chi è stato informato in modo approssimato o per sentito dire. Potrebbe interessare anche i giovani, i curiosi tra la plebe e qualche schiavo che vuole sapere. Certo, non è una narrazione di altissimo livello come il De Bello Gallico
del Divo Giulio, straordinaria opera per raffinatezza espressiva, ha il pregio, però, di contenere notizie di prima mano. C’ero e descrivo i fatti nudi e crudi e uso il vocabolario della gente, non degli Accademici.
Per meglio entrare in argomento, credo sia necessario riassumere, in quattro parole, la storia precedente, partendo da lontano, dalla fondazione della nostra città, leggendaria o storica che sia.
Il Natale di Roma è il 21 aprile dell’uno al quale facciamo riferimento per contare gli anni ab Urbe condita
(dalla fondazione della città, 753 anni prima della nascita di Cristo). Il Padre, e primo dei sette Re, fu Romolo, fratello gemello di Remo (e non Remolo come disse qualche anno fa un nostro Primo Ministro a un Vertice internazionale.
La Monarchia è andata avanti fino al 244 a.U.c. (oppure nel 509 a.C.) quando i patrizi, stanchi delle prepotenze di Tarquinio il Superbo, lo cacciarono. Tra l’altro, gli ultimi tre Re erano Etruschi e non romani.
È nata, così, la Res Pubblica Populi Romani, però comandavano gli aristocratici, quelli che avevano più possibilità economiche, i ricchi. Per non correre il rischio di veder riaffiorare i misfatti dell’assolutismo, i nostri avi benestanti promulgarono delle leggi, tuttora vigenti, per dare delle regole molto severe alle Istituzioni. Spezzettarono il potere in tante funzioni pubbliche, affidate a Magistrati (Consoli, Pretori, Questori, Edili, Censori) che rimanevano in carica un solo anno ed erano rieleggibili allo stesso mandato soltanto dopo un decennio.
Inoltre, lo stesso ufficio veniva assegnato a due responsabili che lo gestivano in comune, e la carriera politica seguiva un cursus honorum (sequenza delle funzioni) in ordine graduale rigido, con nomine a incarichi via via di maggiore impegno.
Fin dall’inizio, la giovane Repubblica fu caratterizzata da un’eccellente organizzazione militare, unica nell’epoca, e dallo sviluppo di un ordinamento giuridico straordinario. Se la Grecia sarà ricordata per la filosofia, noi lo saremo per il diritto.
Nei primi anni del nuovo regime, Roma, città-stato, controllava a malapena i territori intorno alle mura, ma l’efficiente macchina da guerra, oliata alla perfezione, ci consentì, prima di resistere ai potenti popoli vicini, poi di soggiogarli. Non si parla di qualche anno, è storia di due, tre secoli: la mitica prima età repubblicana. Nonostante il saccheggio dei Galli Senoni di Brenno - era il 390 a.C., da quel giorno i Galli sono diventati il nostro spauracchio, un po’ come l’orco e il cane Cerbero per i bambini - e un lacerante conflitto tra i patrizi (i ricchi) e i plebei (i poveracci), sconfiggemmo gli Etruschi, i Latini, i Sabini, i Volsci, gli Equi e, soprattutto, dopo tre lunghe guerre, i Sanniti, un popolo ostinato, di testardi. Poi toccò ai Tarantini aiutati da Pirro, Re dell’Epiro. C’eravamo aperti la strada verso sud, vincemmo anche contro i Bruzi in Calabria e intorno al 270 a.C. avevamo assunto il controllo dell’Italia, da Reggio Calabria a Rimini. Un territorio vasto e con molti chilometri di costa, per cui imparammo l’arte della navigazione e, inevitabilmente, entrammo in conflitto con chi spadroneggiava nel Mediterraneo, i Cartaginesi.
Sono state necessarie tre guerre, cosiddette puniche, cento anni di ostilità, intervallati da lunghi periodi di pace, dal 246 a.C. al 146 a.C., per diventare il popolo egemone del Mare Nostrum.
Un riassunto brevissimo.
La prima guerra punica durò più di vent’anni: Roma e Messina contro Cartagine e Siracusa, prevalentemente combattuta in mare, in un campo dove non eravamo espertissimi. Rimediammo con l’inventiva; i nostri costruirono sulle proprie unità un ponte mobile che agganciava le navi avversarie e trasformava la battaglia navale in uno scontro corpo a corpo nel quale i nostri soldati, militari professionisti addestrati con regolarità, erano già i più forti al mondo. Vincemmo.
La seconda è la più nota, abbastanza lunga anch’essa (17 anni): interpreti principali Annibale e Scipione detto l’Africano. Dalla Spagna, attraverso i Pirenei e le Alpi, il cartaginese entrò in Italia con un esercito di 100.000 uomini e una quarantina di elefanti, ci sconfisse in quattro battaglie consecutive e fece tremare Roma con la conquista di Capua; arrivò quasi alle porte della città.
L’SPQR boccheggiava.
Ma gli antichi romani non avevano l’anello al naso, la sapevano lunga: Scipione spostò l’esercito in Tunisia e si accordò con un reuccio locale, Massinissa, pronto a colpire la Capitale nemica. Ad Annibale, che in Italia, invece, non aveva alleati e non riceveva più rinforzi e rifornimenti, non rimaneva che rientrare a proteggere la sua città.
Nel 202 a.C., a Zama, Scipione sbaragliò il cartaginese e la guerra finì.
La terza ebbe inizio nel 149 a.C., terminò tre anni dopo, quando Cartagine fu rasa al suolo: sparì per sempre dalla storia.
E siamo al 146 a.C., avoglia (ce ne vuole) ad arrivare al 58 a.C. ma faremo presto. Intanto, nello stesso anno anche la Grecia era diventata Provincia. Ormai controllavamo l’intera area del Mediterraneo: Roma era diventata una super-potenza, aveva acquisito grandi ricchezze. Prospera, non assillata da grossi grattacapi internazionali, presero il sopravvento i problemi interni: l’eterna lotta tra chi non mangia e chi mangia e beve. Fu l’epoca dei Gracchi, i fratelli Tiberio e Caio, figli di Cornelia, figlia del Grande Scipione l’Africano (una grande pure lei. Vi ricordate? Alle matrone romane che ostentavano costosi ornamenti in pietre preziose e oro e la rimproveravano di non agghindarsi come loro, disse: Eccoli i miei gioielli
indicando i figli Tiberio e Caio).
Prima uno, poi l’altro tentarono di far approvare leggi per la ridistribuzione alla plebe di parte delle terre concentrate negli immensi latifondi in mano a pochi. Vennero entrambi fatti fuori. Quando si toccano i portafogli gonfi di soldi, succedono sempre le peggiori cose.
Tiberio fu eliminato nel 133 a.C., Caio Gracco si uccise, o fu ucciso, insieme a tremila cittadini, nel 121, durante i disordini scoppiati negli scontri tra opposti estremismi
.
La solita storia.
Vi sembra un periodaccio? Dopo andò peggio. I Gracchi avevano lasciato il segno, la loro scomparsa non aveva messo il titolo fine
alla lotta tra gli aristocratici e i popolari, anzi. In più, le istituzioni, nate per governare una città-stato e non un impero diventato troppo grande, avevano bisogno di essere adeguate alla nuova realtà. Ce n’era di carne al fuoco perché i partiti litigassero, e pure di brutto.
In un contesto già abbastanza turbolento, salirono alla ribalta due galletti non proprio teneri: Caio Mario, leader dei popolari, l'uomo nuovo, il vincitore di Giugurta in Africa e dei Cimbri e dei Teutoni (tedeschi terribili che avevano massacrato un nostro esercito in Gallia) e il campione dei conservatori, Lucio Cornelio Silla, ex collaboratore dello stesso Mario.
Il capitolo Mario e Silla
è molto sgradevole: troppe crudeltà gratuite. I contrasti tra le due fazioni si trasformarono in guerra civile nel 88 a.C., quando il Senato decise di affidare a Silla il comando della spedizione militare contro il Re del Ponto, Mitridate Eupatore e Mario riuscì a sottrarglielo. Silla, imbufalito, marciò verso la città con l’esercito e varcò il pomerium (il limite sacro dell’Urbe) commettendo sacrilegio.
Lucio Cornelio se ne sbatteva di legge e religione. Ormai aveva compiuto il passo oltre il punto di non ritorno, tanto valeva fare un bel ripulisti. Ammazzò un sacco di nemici, sistemò qualche altra bega e partì per la guerra in Asia credendo di aver aggiustato le cose. Aveva toppato; svoltato l’angolo, ricominciarono i disordini. I Mariani rientrarono, ripristinarono il loro ordine e alla fine riconsegnarono il potere nelle mani di Mario, zio di Caio G. Cesare. Anche lui non fu soft. Pianificò sanguinose rappresaglie: l’eliminazione sistematica dei patrizi più pericolosi. Eppoi, li perseguitò anche economicamente: a molti confiscò le proprietà e, tanto per fare il perbene, le distribuì agli amici e agli amici degli amici. Solo nel 86 a.C., con la sua improvvisa morte, finirono le prepotenze.
Passarono un paio d’anni così e così, nel frattempo Silla aveva sconfitto Mitridate Eupatore. Con il ritorno in Italia del vincitore, diventato ancora più potente, le due fazioni ripresero a darsele di santa ragione: un conflitto disastroso.
I populares potevano contare su centomila uomini, nonostante ciò Silla attraversò la Penisola ottenendo facili vittorie, tra le sue fila si mise in luce un giovane generale, un certo Gneo Pompeo. Arrivò con l’esercito sotto le mura, presso Porta Collina (una porta delle mura serviane, in un tratto tuttora in piedi tra via Goito e via XX Settembre, dalle parti della Stazione Termini). Lì aristocratici contro popolari, conservatori contro democratici, destra contro sinistra, cani contro gatti, ingaggiarono battaglia, quella decisiva. I Mariani furono battuti, Mario il Giovane, figlio di Caio Mario, preferì uccidersi piuttosto che cadere tra le grinfie degli aristocratici.
Nel 82 a.C., Silla entrò di nuovo in città con le armi in pugno. Aveva vinto, era il padrone della Repubblica e, da signore assoluto, terrorizzò mezzo mondo. Uccise una marea di oppositori politici, esiliò i sopravvissuti e mise all'asta a prezzi irrisori i loro beni che finirono ai Sillani. Parecchi diventarono ricchi, alcuni arcimiliardari. Una vendetta spietata, disumana.
Nell’epurazione, Cesare, diciottenne parente di Mario, rischiava di brutto, addirittura di essere giustiziato. Un momentaccio per Giulio. Prima prese il largo, scappò in Sabina cambiando nascondiglio ogni notte per sfuggire ai sicari, poi riuscì a cavarsela grazie all'intercessione di alcuni amici influenti. Pare che Silla non fosse troppo convinto di risparmiarlo, tanto da dire: Ve la do vinta, tenetevelo pure! Un giorno vi accorgerete che chi volete salvo a tutti i costi sarà fatale agli aristocratici. In questo sbarbatello multos Marios inesse! (ci sono molti Marii!)
.
Tra i suoi capolavori
, le cosiddette liste di proscrizione
, elenchi di persone vive ma considerate morte: chiunque poteva ucciderle senza commettere reato.
Lucio Cornelio Silla è stato proprio uno strano personaggio: nel 79 a.C., sorprendendo tutti, fece un passo indietro, decise di abbandonare la dittatura e la politica. Si ritirò nella propria villa di campagna.
Ritornato a essere un privato cittadino, si dice che, attraversando una strada pubblica molto affollata, fu insultato da un passante, con durezza. Lì per lì non spiccicò parola, dopo un po’, però, non smentendo il suo carattere - oltre che spietato era anche ironico - confidò a uno dei suoi accompagnatori: Che imbecille quell’uomo! Dopo un gesto simile, non ci saranno più dittatori al mondo disposti a lasciare il potere
.
Previsione talmente azzeccata da essere valida, addirittura, per chiunque gestisca qualsiasi potere, di portata pure minima, così piccola da comprendere perfino un microcosmo abitato da due persone. Chi lo possiede non lo molla, cascasse il mondo. Rare le eccezioni.
Frequentatore fin da ragazzo di prostitute, gay, marchettari, saltimbanchi, attorucoli, mimi e cantanti, se ne circondò sempre, anche, e soprattutto, quando fu al potere. Per forza, altrimenti che dittatore sarebbe stato. Fra gli intimissimi c’era un certo Metrobio, conosciuto da pischello, famoso attore che sosteneva abitualmente parti femminili. Nel suo ultimo appassionato discorso al Senato, Silla confessò la propria passione per quel ragazzo, ora non più giovane, suo amante da sempre.
Ogni giorno in compagnia della sua particolare, quanto scombinata, cricca, morì nel 78 a.C., forse di cancro o di una rara forma di verminosi.
La scomparsa di Silla non risolse granché, la Repubblica continuò a essere asfissiata da profonde crisi politiche ed economiche. Catilina organizzò, addirittura, una pericolosa congiura per sovvertire lo Stato: fu eliminato. Nel 60 a.C., in quel casino, una testa tricefala prese in mano le redini delle Istituzioni. E siamo arrivati al cosiddetto Primo Triumvirato
tra Cesare, il nuovo capo dei popolari, Pompeo Magno, il generalissimo e Crasso, il ricchissimo: un patto d’acciaio per governare Roma.
DUE - Cesare in Gallia. La guerra contro gli Elvezi
Come previsto dall’accordo tra i tre big, Cesare fu eletto Console nel 59 a.C., insieme a Bibulo, un conservatore ottuso, un perdente nato. A fine mandato gli venne affidato per cinque anni il proconsolato della Gallia cosiddetta togata (la Gallia Cisalpina - l’Italia settentrionale, l’Emilia Romagna e parte delle Marche - e la Gallia Narbonense, il sud della Francia) e, anche, dell’Illiria. Tra i Triumviri, il vero riformista era Giulio, aveva in mente un razionale progetto politico per modernizzare le Istituzioni, non più adeguate ad amministrare uno Stato diventato troppo esteso ma doveva vincere una guerra in modo da accrescere, attraverso uno strepitoso successo, il suo peso politico all’interno della vita pubblica romana e, soprattutto, il conto in banca, da anni in rosso. Mise nel mirino la Gallia chiomata (così detta per gli abitanti zazzeruti, ancora non romanizzati).
Gallia est omnis divisa in partes tres (La Gallia nel suo insieme è divisa in tre parti), tre grandi blocchi, i Belgi, gli Aquitani e i Galli veri e propri, chiamati in lingua locale Celti. In sostanza il territorio della Francia, Svizzera, Belgio, il sud dell’Olanda e un pezzo di Germania, abitato da un’insalatona di popoli, sempre in lotta tra loro.
Da Proconsole della Gallia togata (i cittadini indossavano la toga, erano stati civilizzati) e dell’Illiria, Caio Giulio Cesare comandava, in autonomia, le legioni che le presidiavano, aveva, quindi, le risorse per puntare alla conquista di quel grande paese da secoli nostro incubo. Con una vittoria avrebbe reso sicure le frontiere della Cisalpina ed eliminato la minaccia d’incursioni da nord, compreso lo spettro rappresentato dai pericolosi Germani Svevi che da un po’ di tempo si erano insediati oltre il Reno.
Aveva, però, bisogno di un pretesto per scatenare la guerra.
Ed eccoli gli Svizzeri a offrirglielo su un piatto d’argento: volevano emigrare a ovest passando per la Narbonense senza chiedere il permesso al Senato. Ai primi di marzo del 58 a.C. si stavano radunando dalle parti di Ginevra, a inizio aprile intendevano attraversare il Rodano; erano quasi quattrocentomila, abbastanza selvaggi, un viaggio lungo, avrebbero devastato la Provincia.
CGC non poteva fare lo gnorri.
Quando venne informato della cosa dall’efficiente servizio di spionaggio, non aspettò un attimo, partì sparato da Roma insieme a Tito Labieno (allora era il suo fidato braccio destro, sapete bene come poi è andata a finire) e il 28/03/58 a.C., a tempo di record (otto giorni), arrivò a Ginevra. Mille chilometri e le Alpi d’attraversare, mica una gita fuori porta: facevo parte della mini spedizione perché avevo accettato la proposta di dargli una mano, per amicizia, anche se avrei preferito restarmene a casa: non sono un tipo particolarmente portato a soffrire, ad affrontare i sacrifici di una campagna militare.
Sul posto, CGC si mise subito al lavoro: reclutare nuovi soldati, tagliare il ponte sul Rodano, unico punto da quelle parti per attraversarlo, fortificarne le sponde per impedirne il guado.
Un fastidio inaspettato per gli Elvezi: avrebbero dovuto trattare e non con dei provinciali, con la super potenza romana e con un Proconsole tosto. Erano consapevoli che sarebbe stato difficile spuntarla.
E così fu.
Caio G. Cesare portò abilmente avanti il negoziato per due settimane al solo scopo di potenziare le strutture per bloccare i passaggi verso la Narbonense.
Alla fine, il 13/04/58 a.C., gli ambasciatori Svizzeri si beccarono la brutta notizia: le tradizioni e le leggi del popolo romano non consentivano a Cesare di autorizzare gente armata ad attraversare la Provincia. I Celti, idrofobi, cercarono di passare lo stesso, con la forza. Provarono a guadare il fiume a ovest di Ginevra, dove era meno profondo: toppa. Tentarono con zattere e barconi legati insieme: un buco nell’acqua. Non gli rimaneva che valicare le montagne del Giura, un percorso accidentato, tra gole strette, pieno d’ostacoli e nel territorio dei Sequani, non proprio amici. Poiché pochi uomini avrebbero potuto impedirgli il passaggio, dovevano accordarsi con i confinanti.
Un negoziato, anche questo, lungo e dall’esito incerto. Infatti, durò settimane,