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A tempo di donna
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A tempo di donna

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About this ebook

Inesorabile. Questo è senz’altro il primo aggettivo che si associa alla parola “tempo”. Perché è quello che fa: passa, inesorabile e implacabile. Anche nella sonnacchiosa e immota Trieste il tempo scorre inflessibile giorno dopo giorno: sul mare, sull’imponente piazza, sui tetti, tra i vicoli delle case e sulle alture del Carso. Ma per quattro donne la sua velocità è diversa: in nove mesi il ritmo del tempo per Maria Rosa, Sara, Grazia e Anna assume una dilatazione differente. Le vite di queste quattro donne non hanno apparentemente niente in comune, si sfiorano, quasi inconsapevoli, ma il loro denominatore è il medesimo: il tempo, vero padrone della vita.

Maria Rosa, meridionale di mezza età trapiantata al nord al seguito di un marito “padre e padrone”, paga sulla propria pelle le violenze troppo a lungo subite diventando a sua volta carnefice.
Chiusa nella prigione del matrimonio, scoprirà tra le quattro mura del carcere il significato della parola libertà. Nei nove mesi che dovrà attendere per avere un verdetto, Rosa imparerà ad apprezzare se stessa e la vita, fatta di piccole ma irrinunciabili cose e costruirà nella cella il suo nido.

Sara, trentenne avviluppata su se stessa, troppo ansiosa e ordinata per contemplare l’imprevisto, sarà sorpresa da una gravidanza inattesa. Conscia di non avere motivi seri per non mettersi alla prova e crescere, vivrà quest’esperienza prima con timore, e mano a mano, con sempre maggior fiducia in se stessa e nelle proprie capacità, cogliendo l’occasione che la vita le offre di prendere in mano il proprio destino.

Grazia, distinta insegnante di quasi sessant’anni, algida, amata e ancora bella, ha avuto una vita buona, serena, trascorsa lieta su binari ben conosciuti. Settembre segna per lei l’inizio di un lungo inverno senza luce, dove le giornate che si accorciano sono il simbolo della sua vita che si spegne. Il tempo per lei corre veloce, troppo, vorrebbe fermarlo e chiedergli tregua, avere il conforto di una pausa, ma le lancette spietate si muovono verso la fine.

Anna, diciassette anni, unico tempo possibile: indicativo presente. Vola in Canada per l’anno all’estero e vive, vive, ebbra di prime scoperte. Spensierata e lieta Anna tratta il tempo come se questo non esistesse e fosse un eterno suddito ai suoi piedi. Lo scorrere della vita è infatti un concetto che Anna non possiede ancora impegnata com’è a cercare sempre di più, senza mai interrogarsi, se il futuro le possa riservare invece qualcosa in meno.


“A tempo di donna” segna l’esordio digitale di Cristiana Dalla Zonca. Dopo il successo del suo primo libro Amore Chiama, Amore Risponde (Giunti Editore), l’autrice triestina torna a raccontare storie di donne dei nostri tempi, figure femminili complesse, fatte di pensieri, paure, dubbi, incertezze ma che, di fronte alle avversità della vita, trovano sempre il coraggio di volgere lo sguardo verso il futuro, anche quando può essere inesistente.
LanguageItaliano
Release dateNov 20, 2014
ISBN9786050337617
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    A tempo di donna - Cristiana Dalla Zonca

    Copyright 2014 © Cristiana dalla Zonca

    cristiana@tempodonna.it

    www.tempodonna.it

    Realizzazione eBook: CreaLibro

    Progetto grafico e illustrazione di copertina: Carin Marzaro – www.enjoykerin.com

    Editing: Davide Moroni

    Ufficio Stampa: Claudia Ronchi Communications

    Realizzazione dei materiali digitali: Ideo

    Cristiana dalla Zonca

    A tempo di donna

    Indice

    Prologo

    Nove mesi

    Settembre

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Ottobre

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Novembre

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Dicembre

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Gennaio

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Febbraio

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Marzo

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Aprile

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Maggio

    Maria Rosa

    Sara

    Grazia

    Anna

    Epilogo

    Giugno

    Prologo

    Rifletti. Quante volte hai camminato davanti al tempo, voltandoti indietro e incitandolo con le mani, perché sembrava immobile e tu avevi fretta. E quante gli sei corso appresso fino a sentir scoppiare il cuore, con i muscoli che bruciavano, e nonostante i tuoi sforzi, ti sei dovuto arrendere, in ginocchio, guardandolo andare talmente veloce che sembrava volasse.

    Poi ci sono state volte in cui avete trascorso la notte assieme, a bere e ricordare, mentre aspettavi rassegnato un’alba inevitabile. E una volta sola in cui l’hai deriso, beffato e, presuntuoso, hai deciso di ignorarlo. Ce n’era talmente tanto che l’avevi confuso con il mare; per quanti secchi riempissi restava sempre pieno. E così hai continuato a vivere, ridendo, come se fosse un tuo diritto.

    Nove mesi

    Non era accaduto nulla di particolare in quei nove mesi. Trieste aveva continuato a dormire sul suo golfo, come un’attrice di teatro avanti con gli anni che ancora vuole apparire bella e lo fa usando molto trucco, mantenendo quell’atteggiamento altero, da gran signora, che appartiene un po’ ad altri tempi.

    La bora era stata clemente, aveva soffiato poco, senza dare mostra di sé. Non c’erano state automobili rovesciate in mare, alberi spezzati, anziani riversi nelle ripide discese attrezzate di paletti per sostenersi.

    La pioggia, invece, era stata il tormento dell’inverno; l’umidità, come una cappa che avvolgeva e immobilizzava tutto, portava a riva gli escrementi del mare, senza il conforto purificatore del vento.

    Siamo in un quartiere vicino al centro, ma non troppo, uno di quei posti che esistono solo in questa città, dove ville e appartamenti di lusso convivono vicino alla media borghesia, con i suoi brutti palazzi degli anni Settanta, e a case popolari in equo canone, e nessuno ci fa caso o sembra darci peso, perché Trieste è troppo snob per considerare importanti le differenze sociali. Proprio in questo perimetro limitato che si erge più alto sul mare, la vita di quattro donne aveva subito dei mutamenti importanti. Loro sì che avevano notato le differenze e si erano accorte del passare del tempo, anche se in modo diverso.

    Settembre

    Maria Rosa

    Seduta a terra, le mani a cingere le ginocchia, fissa il muro. Le scritte incise, ragnatele più chiare, si confondono davanti ai suoi occhi vitrei, bui. Sono ventiquattro ore che non dorme.

    Il tessuto ruvido le punge la pelle, sente freddo ma non si muove.

    La luce entra dalla grata e solleva un pulviscolo opaco; tutto è opaco qui dentro, grigio. Anche lei.

    Incredula, ripercorre le ultime ore a casa, pensa a se stessa in terza persona, come se fosse un’altra Rosa, un’altra storia. Non riesce a credere di aver avuto il coraggio.

    Si era svegliata alle 5 del mattino per preparare la torta di Lea. Si sarebbe sposata quel sabato e, anche se era invitata, sapeva che Mimmo non l’avrebbe lasciata andare: non approvava le sue amicizie sul lavoro e in più Lea era di colore, era negra, come avrebbe detto lui, quindi non glielo aveva nemmeno chiesto. Ma era una sua amica e con le altre ragazze dell’ipermercato avevano deciso di organizzare una piccola festa dopo il turno, quel venerdì. Così le avevano assegnato il compito di preparare il dolce e lei voleva che fosse speciale, perché Lea era una sua amica e le voleva bene. Era l’unica ad accorgersi quando Rosa stava male; un giorno, scostandole i capelli e vedendo il livido sul collo, l’aveva guardata con quei suoi occhi, così neri e così dolci, ed era rimasta in silenzio, facendole solo una carezza. Queste cose Rosa le ricordava e voleva che la sua torta fosse quasi un dolce nuziale.

    Così, la notte non aveva dormito per paura di non svegliarsi, si era agitata nel letto pensando a tutti i dolci che avrebbe potuto preparare, e quanti ne conosceva! Da bambina al paese la nonna le permetteva sempre di aiutarla in cucina. Non poteva mettere la sveglia – mamma mia quanto si sarebbe arrabbiato Mimmo se lo avesse svegliato con quel trillo assordante – e così era stata ferma, ad aspettare l’alba e pensare agli ingredienti, a come li avrebbe mescolati e alla gioia della festa che l’aspettava.

    La crema era già pronta, ce n’era abbastanza e la consistenza era buona, né troppo fluida né troppo compatta. La frutta tagliata a fettine regolari era disposta sui piatti, in ordine sopra i fuochi, i colori accesi già da soli bastavano a metterle allegria.

    Ora era la volta di stendere la pasta frolla, fare quattro infornate per i quattro rettangoli che servivano a fare una torta bella grande che avrebbe assemblato nel retro del supermercato, legandoli con i riccioli di panna, in modo da creare anche un bel decoro.

    Aveva alzato la testa per asciugare il sudore dalla fronte, la cucina era esposta a est e il mattino era già inondata di sole; a settembre era anche piacevole, ma nei mesi estivi era quasi una sofferenza. Si era resa conto con stupore che erano già le sette del mattino, Mimmo si sarebbe alzato a momenti e guai se la colazione non era in tavola, così aveva abbandonato a malincuore la pasta gialla e si era adoperata a mettere su la moka e a sbattere le uova.

    Che fai? Non eri a letto, me ne sono accorto sai? La tua parte era fredda. Perché ti sei alzata prima? Cos’è, un giorno speciale?

    Non avevo più sonno, mi sono destata e sono venuta a sbrigare le faccende.

    Lo sguardo abbassato, Rosa sbatteva le uova, aggiungendoci piano un po’ di latte e un pizzico di sale, per farle morbide, come piacevano a lui.

    E le faccende sono la frutta e la crema? Non sono faccende di casa queste. Solo se lavori per questa casa ti puoi alzare prima, altrimenti si sta a letto con il proprio marito, è chiaro? E per chi è questa torta che fai? Sentiamo, per chi devo pagare? Perché la pago io questa frutta, lo sai, vero? E guardami negli occhi quando ti parlo!

    Ma niente, c’è una piccola festa al lavoro, così mi è sembrato carino partecipare anch’io.

    Ma tu non puoi, Rosa, primo perché dopo il lavoro devi tornare a casa, devi pulire, non vedi che schifo ‘sta cucina, è piena di polvere e non mi va bene vivere in un porcile, siamo d’accordo? E poi quelli non sono tuoi amici, ti sfruttano, ti fanno lavorare per una paga da fame che devi spendere per comprare la frutta per loro; non va bene, credi a me, sei sempre la solita ingenua.

    Può darsi, Mimmuzzo, ma mi fa piacere, che male c’è ogni tanto a farsi qualche amico? Su, mangia, l’uovo si fredda, guarda che bel sole.

    Un sole che mi farà sudare come un maiale in quel cesso di cantiere. A questo serve, il tuo sole. Comunque la torta la puoi portare perché sono generoso, ma alla festa non ci stai, te ne torni subito indietro, Rosa, e voglio che mi chiami quando esci e appena arrivi a casa, così controllo, ultimamente ti prendi troppe libertà e non vorrei che iniziassi a mentire come la moglie di Vincenzo, che diceva di essere al lavoro e invece aveva l’amante.

    Ma che amante vuoi che abbia, Mimmo? Sto sempre qua.

    Rosa aveva cominciato a stendere la pasta, il mattarello scivolava bene, era di quelli col cilindro in marmo, di una volta, fatti per braccia forti e poca farina. Guardava Mimmo che mangiava con i gomiti sul tavolo, quegli avambracci pieni di peli, le mani callose, lo sguardo basso, cattivo, la nuca con un principio di stempiatura, la fronte abbronzata e i capelli neri che cominciavano a indebolirsi, a diventare più fini.

    Certo che non hai l’amante tu, brutta che sei, ma guardati, nemmeno una donna sembri più, secca, grigia, una vecchia buona solo a far da mangiare. Dovrei trovarmela io l’amante, ma una donna stavolta, una donna vera, e sì che un tempo mi sembravi carina. Comunque, alle quattro a casa.

    Ed era stato lì che aveva commesso l’errore, perché le lacrime le erano salite agli occhi e l’emotività aveva avuto il sopravvento. Intuiva sempre quando lei teneva a qualcosa e così la rovinava, perché era un uomo meschino.

    Ma c’è la festa per Lea, ci tengo stavolta.

    Allora è questo, è per quella negra, per quei bastardi morti di fame che vengono nel nostro Paese a rubarci il lavoro, a creare delinquenza, a portare via soldi nostri. Non farmi bestemmiare, Rosa, che San Michele ci guarda! Sai che ti dico? Non ci vai proprio al lavoro oggi, ora telefoni e ti dai malata, e lo fai subito, Rosa, o sono guai per te. E con un colpo secco aveva ribaltato la frutta a terra, rompendo tutto con un frastuono insopportabile, e le fettine tagliate con tanta cura si erano mischiate alle schegge della ceramica, sparsa sul pavimento; un arcobaleno di colori che non avrebbe più potuto usare.

    Era stato un istante, di follia o forse di lucidità; gli anni di soprusi, umiliazioni, insulti le erano piombati addosso tutti insieme, sopraffacendola, e non si era nemmeno accorta di aver sollevato il mattarello, colpendo, più volte, quante? Dieci, venti, cento? Non avrebbe saputo dirlo: lanciava il mattarello alla cieca su quella testa troppo tonda per essere umana.

    Potevano essere passati minuti, ore, pochi istanti, la mente era chiusa in un’altra dimensione. Solo quando aveva visto colare un serpentello grigio, denso, che si era mescolato con l’uovo strapazzato, come fosse un albume marcio aggiunto dopo, e il sangue che appiccicava i capelli, dove prima c’era una tempia liscia. Solo quando aveva visto il buco, la testa reclinata immobile in una posizione innaturale, il caffè rovesciato sulla tavola imbandita. Solo allora aveva sentito il silenzio.

    Così aveva chiamato il 113 e con voce mite aveva chiesto se potevano mandare una pattuglia, perché non era sicura, ma forse aveva fatto del male a suo marito. Quando l’agente le aveva gentilmente chiesto le generalità aveva dato nome, cognome, indirizzo. Non tocchi niente le aveva raccomandato, chiamiamo noi l’ambulanza.

    Vi aspetto, aveva mormorato.

    Poi si era seduta a guardare fuori, a sentire i rumori della città, la signora del terzo piano che ricordava la merenda al figlio che andava a scuola, un cane che abbaiava.

    Che cosa penseranno i carabinieri di questo disordine, si era chiesta; che non so nemmeno tenere una casa. Ma le avevano detto di non toccare nulla, doveva sforzarsi di non riordinare.

    Però un caffè glielo posso preparare, aveva ragionato, in fondo non sono nemmeno le otto del mattino, gli farà piacere un bel caffè forte, appena fatto.

    Aveva tirato fuori la caffettiera grande, quella per otto, e preparato il vassoio, con le tazzine belle, regalo di nozze di zia Maria, quelle che tenevano nella vetrinetta in salotto, e scelto i cucchiaini tutti uguali. Aspettando, mentre piegava i tovagliolini con una R e una D ricamate sopra, si era tolta il grembiule e rassettata le pieghe della vestaglia da casa, poi si era passata le mani tra i capelli, ricomponendoli nella crocchia; voleva essere in ordine all’arrivo dei carabinieri. In tutto questo Mimmo era lì, immobile, finalmente in silenzio.

    Ora di mezzogiorno Maria Rosa Favia, nata a Spinazzola, provincia di Barletta-Andria-Trani (BT) il 15 ottobre 1968, varcava l’ingresso della Casa Circondariale per aver ucciso il marito, Domenico Rizzi detto Mimmo, con una serie ripetuta di colpi contundenti inferti con un mattarello di marmo e legno del peso di oltre tre chili; almeno così recitava il verbale dei carabinieri che avevano proceduto all’arresto.

    Sara

    Apri questa porta, Sara, ti avverto, sto perdendo la pazienza! La voce di Luca di là dal muro è imperiosa e la maniglia si muove su e giù come mossa da una forza propria.

    Lasciami in pace! grido arrabbiata afferrando un asciugamano e stringendomelo attorno al corpo nudo; nella fretta e per la rabbia non ho preso nemmeno la maglietta. Tre mesi, Luca, ho sospeso la pillola solamente per tre mesi! E lo sapevi! Cazzo, non sei capace di controllarti, come un quindicenne alla prima scopata!

    Sara, non essere ridicola, può succedere di perdere il controllo.

    Cosa significa? Che dovrei sentirmi lusingata?

    Ma è stato un attimo, me ne sono accorto subito, è impossibile che tu sia incinta! E poi non ti sono finite le mestruazioni ieri? L’hai detto tu che le avevi ancora.

    Scuoto la testa, proprio non ci arriva. Lo so anch’io che è improbabile, non è questo il punto. È che tu non pensi! E io sono stufa di farlo per due.

    Sara, è mezzanotte, vieni a letto. Mi dispiace, tesoro, non succederà più, non ti toccherò nemmeno con un dito fino a che non ricomincerai la pillola, lo giuro. Ma ora vieni, ti assicuro che non può essere successo niente. Sono un medico, puoi fidarti di me.

    Intanto non sei un medico, ma un tecnico radiologo, il che conferma la tua idiozia e poca preparazione in materia; secondo, a letto non vengo, ti odio e non voglio stare con te!

    Come vuoi, io vado a dormire, buonanotte.

    Sento i suoi passi allontanarsi, Ci teneva proprio, eh?!, mormoro furiosa. Lo so anch’io che le probabilità di essere rimasta incinta sono irrisorie, ma non sopporto la sua superficialità: se dobbiamo stare attenti, stiamo attenti, porco cane! È che Luca è sempre così, lui fa le cose e alle conseguenze ci pensa dopo. Non che ci saranno conseguenze, stavolta lo so anch’io, ma è una questione di principio.

    Scivolo sulla parete e mi accuccio sul pavimento stringendomi le ginocchia tra le braccia. La verità è che sono stanca. Vivere insieme è bello, ma molto faticoso. Per far fronte alle spese ho trovato un lavoro part-time a termine in un call center assicurativo: quattro ore in cuffia a stilare preventivi e stipulare polizze, senza pausa. Al pomeriggio il tirocinio, mi mancano ancora duecento ore e poi grazie al cielo sarà finito e potrò cominciare a studiare per l’esame di Stato. Luca ha avuto tutto facile, non si rende conto della fatica che sto facendo io. Le persone che frequentano il centro di accoglienza hanno sempre tanti problemi e a volte, davanti al loro sconforto, mi sento così inutile. Vedo i tutor che cercano di parlare in maniera sensata, propositiva, ma non c’è molto da fare se si ha il marito disoccupato, i figli che hanno preso una cattiva strada e il mutuo da pagare. Io so di essere fortunata. Luca ha un lavoro sicuro; la casa, così come l’abbiamo messa su, è proprio carina e per due più che sufficiente. La zona poi è bellissima, dalla finestra della cucina vedo uno scorcio di mare.

    Quando avrò superato l’esame e mi sarò finalmente iscritta all’albo, potrò cominciare a esercitare; spero che ci sia un concorso comunale che mi confermi al centro di assistenza familiare, ma se così non fosse ci sono altre opportunità, e in ogni caso la libera professione. Mi piace fare la psicologa, mi aiuta a capire gli altri, ma anche me stessa. In fondo era quello che desideravo e sto riuscendo a ottenerlo.

    Mi passo le dita tra i capelli, m’innervosiscono per quanto sono lisci e fini, mai lunghi come vorrei, e mi alzo per sciacquarmi la faccia.

    Come ogni volta che piango, mi è comparsa una chiazza rossa in mezzo alla fronte e le labbra si sono gonfiate. Tiro indietro i capelli in una coda e mi bagno ripetutamente con l’acqua fredda. Dovrò andare a fare le mèches, almeno la riga, altrimenti con la ricrescita spunta il color topo, altro che cenere come dicono i parrucchieri. Anche se sono stata al mare sono sempre pallida, mi arrosso appena e dopo pochi giorni, voilà, di nuovo bianca. Che palle.

    Stringo la bocca sottile in una linea dura giudicando me stessa. La verità è che ho sempre bisogno di tenere le cose sotto controllo. Una ragioniera, ecco quello che sono, altro che psicologa, dal mio mestiere si dovrebbe almeno imparare un po’ di flessibilità. Ma io non ce l’ho, zero. Odio l’imprevisto, mi fa tremare. In ogni istante della giornata devo sapere esattamente cosa sto facendo e quale sarà il passo successivo. Un programma serrato, rigido. Il lunedì la ginnastica, giovedì la lavatrice, sabato mattina la spesa. Ogni settimana, tutto l’anno. Ferie decise e prenotate con mesi di anticipo, a me non succede di cambiare idea o perdere un aereo. Pranzi e cene organizzati in freezer, con poca fantasia ma sempre pronti all’ora giusta. Programmi televisivi a cadenza settimanale, un libro al mese sul comodino. L’auto pulita, i tagliandi fatti.

    Scuoto il capo, che persona noiosa sono. Ma non riesco a cambiare. L’ordine mi conforta e mi motiva. Solo che ultimamente ho preso tantissimi impegni, perché un altro problema per me è avere la giornata sempre piena. La mia cronica incapacità di rilassarmi e gestire i tempi vuoti è stata oggetto di lunghi studi quando il soggetto della psicoterapia sono stata io: autodifesa. Intellettualizzo troppo, non so stare sola con me stessa, di base mi amo poco e sono insicura. E quindi? Non è una sorpresa né per Luca né per me. Però mi devo scusare, la scenata che ho fatto è stata eccessiva.

    Rientro in camera piano, nel buio mi avvicino a Luca, che dorme con il viso contratto.

    Scusa, mormoro al nulla accarezzandoli i capelli, ho esagerato.

    Sei sempre nevrastenica.

    No, è che lo sai che mi piace avere tutto sotto controllo.

    Il sesso è mancanza di controllo, Sara, o almeno dovrebbe. Ma il tuo cervello lavora sempre. Rilassati, no? Avevamo passato una bella serata, devi sempre rovinare tutto.

    Ti ho chiesto scusa.

    Mi hai chiesto scusa.

    Nell’immobilità che segue aspetto un gesto; solitamente allungherebbe un braccio per stringermi a sé, il viso nel suo collo, ma stanotte è immobile.

    Luca...

    Sono stanco.

    Non sopporto che non sia tutto a posto tra di noi, mi fa star male, mi toglie il respiro.

    Piango piano, ma neanche troppo, perché voglio che mi senta, e sussulto con la pancia.

    Smettila di muovere quella pancia, non riesco a dormire se mi stai addosso.

    Singhiozzo più forte.

    Sara, cos’è che vuoi? Si mette a sedere esasperato. Sono stanco, ho la sveglia tra cinque ore, non sono arrabbiato, voglio solo pace, ok?

    Annuisco con le mani sugli occhi.

    Vieni qui, dai. Mi prende tra le braccia. Sei una rompicoglioni, lo sai, vero?

    ammetto con voce flebile. Non so perché lo faccio, ma mi viene il panico. Odio non avere il pieno comando su tutto, lo so che è un mio difetto, cercherò di cambiare. Sono anche tanto stanca. Lavoro tutto il giorno, tra uno spostamento e l’altro esco al mattino alle sette e mezza e prima di dodici ore non sono a casa. E non finirà, perché dopo il tirocinio ci sarà lo studio, e poi l’esame e poi il lavoro...

    Mi zittisce con un bacio. E poi i figli, e poi la scuola, e poi il mutuo, e poi e poi e poi... Vivi, Sara! Non lo puoi sapere sempre il poi, nemmeno tu. Se sei stanca prenditi tempo, alla fine del tirocinio fai una pausa.

    Non posso, ancora lacrime, perché cosa faccio a casa tutto il giorno? Divento pazza. Ho il terrore delle ore vuote. Non è semplice, Luca, lo sai, ho quasi trent’anni, sono precaria in un call center, se non mi do una mossa comincerò a esercitare all’età della pensione.

    Sempre drammatica. Mi scuote, mi bacia, mi fa ridere. Ora dormi però, hai tutti gli occhi gonfi, basta piangere, non è successo niente di grave.

    Mi accoccolo accanto a lui, infilo i piedi tra le sue cosce e cerco di rilassarmi mentre lo sento prendere sonno.

    Perché non riesco a rendermi le cose un po’ più facili? È vero che sono sempre di corsa, come se la mia vita dovesse sempre correre su una giostra, come se tutte le giornate dovessero portare qualcosa, avere un fine. Vorrei saper godere il tempo, lasciarlo scorrere e liberarmi dai pensieri.

    Nel buio mi mangio le mani. Mi pento. Accendo la luce e metto lo smalto amaro. Anche alle due del mattino devo fare qualcosa di utile. Tanto sono così brutte, poco cambia se le unghie sono mangiate, penso mentre le osservo, piccole, tozze, corte e

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