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Era solo un giocatore
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Era solo un giocatore

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«Gli dicevano che quella era la celebrità, gli dicevano di godersela. Lui, più che altro, non potendo evitarla, se la rimirava come un oggetto prezioso davanti al quale rimaneva attonito, terrorizzato e intrigato al tempo stesso, spaventato e ammaliato. Era questo ciò che aveva sempre sognato quando da bambino
immaginava di diventare una stella del calcio?»
"Era solo un giocatore" è il romanzo d’esordio di Gloria Danisi, un romanzo inaspettatamente acuto e attento a cogliere le sfumature psicologiche più sottili di un mestiere e di un mondo tanto sognato quanto segnato da inevitabili cliché.
Una prosa limpida e avveduta nei tecnicismi; una brillante scelta narratologica capace di avvincere il lettore, calandolo letteralmente
nella mente e nella pelle del giocatore. La storia di una parabola su cui i punti ascendenti fanno sempre il paio con quelli discendenti senza tuttavia equilibrarsi mai.
LanguageItaliano
PublisherGloria D.
Release dateNov 10, 2014
ISBN9786050332612
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    Era solo un giocatore - Gloria D.

    Farm

    Capitolo I

    L’immagine era fissa nei suoi occhi, imprigionata dalla trama delle ciglia folte e nere. Se solo avesse potuto cancellarla, con un dito o con un bacio, ora il suo ricordo non starebbe riempendo la sua mente come un film che aveva montato e rimontato un unico fotogramma.

    Anche mentre assisteva alla partita dalla panchina, con un occhio al campo e uno ai suoi pensieri, in attesa di essere chiamato, magari, ed entrare sul terreno di gioco, il giocatore non riusciva ad allontanare dalla memoria l’ultima scena con lei all’aeroporto, prima di imbarcarsi su quel volo che l’avrebbe portato lontano, e le parole non dette che erano rimaste in bocca con un sapore vagamente aspro e i gesti di un addio inconfessato, definitivo e non desiderato. Soprattutto gli era rimasto indelebile il ricordo dello sguardo di lei, trincerato nell’orgoglio di decisioni prese che non potevano essere cambiate, scelte che avevano ferito entrambi con una violenza incalcolabile.

    «Attoma riscaldati!» secco, spezzò il filo dei suoi ricordi. Il giocatore scattò in piedi e si mise a ripetere gli esercizi di riscaldamento che conosceva a memoria. Aveva smesso di pensare a lei, adesso, e cercava solo di studiare la partita, gli schemi di gioco e la tattica avversaria, ma se fosse sceso in campo avrebbe giocato secondo il suo solito, buttandosi su ogni pallone, provando in ogni modo a tirarlo dentro o a mettere qualche suo compagno nella condizione adatta per segnare.

    «Attoma vieni qua!» gridò ancora l’allenatore dall’estremità della panchina «Siamo sotto di un goal ma possiamo ancora recuperare. Mi fido di te, ora vai dentro, mettiti dietro le punte, raccogli più palle che puoi a centrocampo e filtrale in avanti. So che questo non è il tuo ruolo, ma è ciò di cui abbiamo bisogno e se poi ti riesce anche di segnare, tanto meglio! Coraggio figliolo, fa’ vedere chi sei, e in bocca al lupo!»

    Gli fu grato per il paterno incitamento, ma non lo disse; con lo sguardo fisso sul campo, si liberò della tuta e si avvicinò alla linea della rimessa laterale, in attesa che la sostituzione fosse segnalata e gli fosse consentito l’ingresso sul campo di gioco. Come fosse un gesto propiziatorio, si tolse di bocca la gomma che aveva masticato durante tutto il tempo della panchina e la appiccicò al terreno insieme a tutte le sue ansie.

    Il compagno sostituito gli sfilò accanto senza dirgli una parola, senza uno sguardo o un gesto d’incoraggiamento; quelli in campo, invece, gli appuntarono addosso sguardi infastiditi, alcuni addirittura diffidenti, altri indifferenti, qualche occhiata curiosa da parte degli avversari. Il pubblico sugli spalti rumoreggiava impaziente. Ma non gli importava.

    La sua prima partita in serie A. Come tutte le attese, era stata sognata, dipinta dalle emozioni più vive, dai sentimenti più intensi, immaginata con sfumature diverse, più dense o più rade a seconda dei suoi stati d’animo, anche guastata da un naturale nervosismo a volte. Ma non c’era niente di ciò che lui aveva vagheggiato, adesso, nei suoi movimenti, nella lucidità con cui leggeva le intenzioni dell’avversario e le anticipava, nella scioltezza delle sue giocate, nell’abilità dei passaggi; nessuna emozione nel controllo della palla, nell’intesa con i compagni, nessun nervosismo nell’eleganza dei disimpegni e nella potenza del tiro in rete: GOAL! Rimase impassibile persino all’esultanza del pubblico e agli abbracci e alle congratulazioni degli altri della sua squadra. Sorrise a tutti con cortesia e tornò a concentrarsi sul resto della gara.

    Con gli occhi seguiva la palla nel suo girovagare per il campo, mentre i suoi piedi erano pronti ad artigliarla non appena la vedevano rotolare vicino; scartava, dribblava, saltava i difensori rivali sempre con la palla attaccata al piede, come se l’uno non esistesse senza l’altra, e intanto la porta si allargava nel suo orizzonte, si spalancava nel suo futuro di secondi, le braccia tese del portiere che non riuscivano a trattenere il pallone furibondo dopo il suo tiro: GOAL! Decisamente era quello il suo mestiere. Si girò a guardare la panchina e scambiò un’espressiva occhiata d’intesa con l’allenatore.

    Il suo sorriso si aprì di poco questa volta, ma sembrava già più contento; gli applausi, i cori, si trattennero più a lungo nel suo orecchio, prima di sciogliersi in un’altra attesa, quella del fischio finale. Un fischio che fu come una liberazione, quando giunse alla fine, triplice come la Santissima Trinità che sapeva di dover ringraziare per quell’esordio che neanche in sogno era stato tanto perfetto.

    Alzò le braccia al cielo, fece il segno della croce per dovuta riconoscenza, e senza badare ai ragazzini piovuti da chissà dove sul terreno per chiedergli un autografo, una stretta di mano, un pezzo della sua maglia, incurante delle felicitazioni dei compagni e dell’allenatore, delle imboscate dei giornalisti, corse negli spogliatoi, recuperò il suo cellulare dentro il borsone, lo accese e compose quel numero. Sentì sette squilli amplificarsi nelle orecchie, dilatarsi in pensieri che diventavano ogni volta più oscuri: lei vedeva il numero, probabilmente, e stava decidendo se rispondere oppure no.

    Dopo l’ottavo squillo, la sua voce stanca, rassegnata:

    «Sì?»

    Ma quanto gli piaceva sentirla!

    «Amore, sono io»

    «Ti prego Flavio non chiamarmi amore, » una preghiera, contrita e dolorosa.

    «Come vuoi, anche se come ti chiamo non cambia quello che sento. Hai visto la partita?»

    «L’ho vista. Bravo, hai giocato bene. Devi esserne soddisfatto…»

    «Lo sarei di più se tu fossi qui con me»

    «Non ricominciare, per favore. Non pensare più a me, pensa solo alla squadra e al campionato»

    «L’ho fatto, ed è per questo che ti ho persa»

    «No, Flavio. Non mi hai persa. Tu non perdi mai. Tu vinci sempre, » disse, la voce sempre più monotona e opaca, e poi riattaccò. Un clic, lieve come una lacrima non versata, ma che arrivò pesante e stonato nell’armonia di suoni gioiosi del dopopartita del giocatore.

    Quelli che seguirono furono per il giocatore giorni da campione. Fervidi, febbrili, formidabili, abbacinanti di titoli di giornali e di dibattiti televisivi, ingordi del suo tempo ma spietati con i suoi pensieri, che erano sempre un passo dietro le quinte del suo imprevisto successo, a meditare, osservare, analizzare quei giorni che nella sua vita aprivano come uno squarcio, un abisso tra ciò che era stato e ciò che doveva essere ancora. Era stata sufficiente una sola partita e un paio di goal per farlo balzare agli onori della cronaca, per diffondere il suo nome e il suo volto in tutto il paese, annientando definitivamente il suo tranquillo anonimato. Adesso, quando parlava al telefono con i suoi genitori, o con lei, persino quando rispondeva alle domande dei giornalisti, tutti gli chiedevano come questo lo facesse sentire e lui continuava ad assicurare di non essere cambiato, di essere sempre lo stesso ragazzo di quando era partito. Ma mentiva, e lo sapeva. Solo non sapeva spiegare che non era lui a essere diverso, ma la sua vita a riempirsi di novità che esigevano da lui un cambiamento radicale.

    Gli dicevano che quella era la celebrità, gli dicevano di godersela. Lui, più che altro, non potendo evitarla, se la rimirava come un oggetto prezioso davanti al quale rimaneva attonito, terrorizzato e intrigato al tempo stesso, spaventato e ammaliato. Era questo ciò che aveva sempre sognato quando da bambino immaginava di diventare una stella del calcio? Le domande si rincorrevano spietate nella sua mente, affollata da punti interrogativi quando lui necessitava invece solo di esclamativi, forti, decisi, e soprattutto di punti fermi, definitivi. Ma quello che per anni era stato il suo punto fermo, lei, era venuto meno con quell’inaspettato addio all’aeroporto, cancellato da un vigoroso tratto di gomma, e al suo posto ora si allungava la verbosità di una frase incongrua e disordinata che adesso descriveva la sua vita. Dov’era chi poteva mettere il punto, dare respiro, chiudere un paragrafo e passare ordinatamente all’altro? Dov’era lei?

    Doveva essere un momento felice per la sua vita, la realizzazione di un sogno. Ma lui non sapeva viverlo il sogno, triste e nervoso per le conseguenze che portava con sé.

    Capitolo II

    All’arrivo nella nuova città, il giocatore aveva preso alloggio in un albergo, nemmeno troppo lussuoso, poco distante dal centro pregno di storia patria e di arte solenne. Per lui quella era stata una sistemazione conveniente: il fatto di abitare in una camera d’albergo gli aveva dato, inizialmente, un senso di incerto, come se fosse solo di passaggio, magari in vacanza, e i tre anni scritti nero su bianco sul contratto che aveva firmato non fossero invece definitivi. Aveva usato questo espediente per restare aggrappato all’idea del suo passato, per non abituarsi al pensiero della sua nuova vita da campione, per allontanarsi dall’assolutezza di quella lontananza che in quei primi, convulsi, giorni premeva dolorosamente dentro sé. 

    Non era pentito della scelta che aveva fatto, anche se la storia si stava sviluppando secondo una direzione nettamente differente rispetto a quanto lui aveva immaginato, o desiderato, ma il giocatore badava essenzialmente a non perdere di vista lo scopo reale: giocare a calcio in un grande club.

    Tuttavia, il suo prodigioso esordio aveva spinto i dirigenti della sua squadra a cercare di inchiodare il suo futuro su un piano più stabile, proponendogli un prolungamento del contratto e regalandogli un appartamento in un lussuoso quartiere residenziale. Aveva accettato perché sapeva che doveva farlo, perché quella era l’occasione di tutta una vita e sarebbe stato stupido rifiutare, ma aveva pensato a lei mentre accettava, mentre diceva un sì che avrebbe voluto sentir pronunciare da un’altra voce e che ritornava invece nelle sue orecchie sotto le spoglie di un no secco, massiccio, in cui era addensato un intero discorso gridato tra i ricordi di una memoria troppo attiva in quei giorni.

    Nella casa nuova, vuota, bianca, occupata solo dalle angolose geometrie della luce densa di un mattino autunnale e dai suoi pensieri, il giocatore camminava avanti e indietro mosso dal vento delle parole che gli giravano in testa, come le foglie che vedeva oltre il vetro della finestra disperdersi nell’aria secondo il capriccio di una brezza incostante, dopo che per mesi erano rimaste saldate ai rami nodosi dello stesso albero. Sarebbe stato così anche per gli affetti del suo passato, spazzati, allontanati da lui dal soffio energico del futuro? 

    L’idea di possedere una casa tutta sua – la prima della sua vita – era in sé affascinante, ma guardando quei muri ancora spogli si rendeva conto che erano lontanissimi dall’idea di casa che aveva sempre nutrito lui. Era la prima volta che andava a vivere da solo, e tutte le volte che aveva pensato a un’abitazione tutta sua aveva sempre, e forse ingenuamente, immaginato la casa in cui sarebbe andato a vivere dopo il suo matrimonio con lei. Perciò quella che aveva in mente era la casa di una futura famiglia, arredata insieme alla sua futura moglie con l’entusiasmo tipico delle giovani coppie. Non c’era entusiasmo alcuno, invece, nel borbottare le sue preferenze per il colore delle tinteggiature a un’arredatrice efficiente come una macchina ma sciocca, ancora meno ce n’era nella prospettiva di dover gestire la sua vita con le sue sole forze, senza guide, senza appigli. Era solo, per la prima volta nel breve corso della sua esistenza. Era lontano da tutte le persone che amava, lottava senza tregua per non modificare gli aspetti basilari della sua vita; passeggiava avanti e indietro in uno spazio oscenamente deserto e grande, monologava con se stesso per non sentire il terrorizzante suono del silenzio. Si fermò, e guardò nuovamente fuori dalla finestra la luce giallastra e farinosa dei prodromi di un temporale diffondersi compatta sulle case alte e grigie, sulle strade pullulanti di costose macchine sportive.

    A quel punto c’era una sola cosa da fare e la fece. Prese il cellulare e la chiamò. Al negozio, per essere sicuro che rispondesse.

    «Stai lavorando?» le chiese, più per scalfire la crosta di ghiaccio di cui lei permeava tutte le loro conversazioni che per reale interesse.

    «É una giornata fiacca. Il pieno ci sarà solo a Natale, come al solito» quel tono sempre così atono, spento, lo avviliva e nello stesso tempo lo esaltava, perché era rimasto l’unica cosa tangibile di lei.

    «Mi hanno regalato un appartamento, sai?»

    «Sì, lo so. Me l’ha detto tua madre ieri quando l’ho incontrata in piazza»

    «È enorme, ed io mi sento così solo…»

    «Verranno i tuoi a trovarti…»

    «E tu?»

    «No Flavio, io no»

    «Perché?»

    «Perché quella è la tua vita e non la mia»

    «Ma noi potremmo avere una vita insieme se lo volessimo, e sarebbe sia tua che mia…»

    «É entrato un cliente. Non posso più stare al telefono. Addio»

    Perché lei doveva essere sempre così drastica, così definitiva in ogni sua parola, in ogni suo gesto? Perché non poteva dire a dopo o arrivederci o semplicemente ciao quando chiudeva le loro conversazioni telefoniche? Perché gli aveva detto addio? Il giocatore ci stava pensando, il telefonino ancora in mano, ancora sintonizzato sul laconico bip di quel dialogo interrotto, mentre teneva lo sguardo fisso sui forellini del microfono per cercare di vedere se dall’altra parte era davvero entrato un cliente.

    L’unico anello di congiunzione tra le due vite del giocatore era proprio il calcio. Era cambiato quasi tutto nel giro di pochi mesi, tranne il suo amore per quello sport, la passione autentica, quasi carnale, per la palla. Si allenava con accanimento, tutti i giorni. Con furia, con rabbia, come se ogni calcio al pallone fosse un calcio dato agli ostacoli sulla sua strada, ogni contrasto vinto un problema superato, ogni goal un sogno realizzato. Non gli interessava essere il migliore, solo fare del suo meglio; non gli importava neanche di vincere, in realtà, ma solo poter giocare. Adesso più di prima. Perché la domenica, in campo, potevano esserci dieci o sessantamila tifosi sugli spalti, poteva essere ripreso dalle telecamere di decine di paesi diversi, poteva avere di fronte una squadra di dilettanti o una di campioni, poteva esserci tutto e poteva non esserci niente, ma era solo uno sfondo, la cornice di un quadro che non sarebbe mai stata più preziosa del suo contenuto. E comunque ogni cosa svaniva al fischio d’inizio. Restavano solo un rettangolo erboso e altri ventuno ragazzi come lui, più un arbitro. E si divertiva. Ecco cosa era realmente rimasto immutato rispetto ai tempi delle squadre cadette, o quelli delle partitelle tra amici, da ragazzino, sui terreni sgangherati della scuola o sui marciapiedi stretti delle viuzze del suo paese: ovunque si trovasse a poter toccare un pallone, lui era contento.

    A poco più di due mesi dall’inizio del campionato, la sua squadra era insperatamente in vetta alla classifica – non solo per merito suo, questo non l’avrebbe mai detto, ma la sua media impressionante di un goal a partita certo aveva contribuito non poco – e il giocatore era l’idolo della tifoseria, il centro dell’adorazione mediatica, coccolato e vezzeggiato da tutti come un preziosissimo panda.

    Uno dei pochi ad aver preso le distanze dalla giostra di entusiasmo che gli girava attorno era il suo allenatore che, partita dopo partita, aveva iniziato a osservarlo sempre più silenzioso e sempre più ombroso. Non era certo persona dal carattere particolarmente spiccato: preciso, diretto, serio ma non duro, severo ma ragionevole, un uomo a metà strada tra le sponde opposte di una personalità che non stava mai completamente su nessuno dei due versanti.

    Se lo tirò da parte, un giorno, dopo un’altra grande vittoria, sottraendolo a fatica all’assalto dei microfoni e delle telecamere, e mentre il resto della squadra si disperdeva fuori tra giornalisti, amici e fidanzate, lui si chiuse nello spogliatoio col giocatore. Il ragazzo seduto sulla panca sotto gli armadietti e lui che ciondolava in su e in giù per la stanza.

    «Attoma, » incominciò, non aveva ancora la confidenza necessaria per chiamarlo per nome, e forse non l’avrebbe mai acquisita «sei un bravo giocatore. Quando ho chiesto di acquistarti sapevo che eri in gamba e che saresti diventato un campione, ma pensavo ci avresti messo più tempo. E invece eccoti qui, il numero uno della squadra in pochissimi giorni. Ieri ho parlato con l’allenatore della nazionale e dice che è intenzionato a convocarti per la prossima amichevole. E questo è l’anno dei mondiali…»

    Il giocatore non disse nulla. Non tutte le parole che aveva in mente in quel momento potevano essere espresse a voce. Era più che altro confuso; quella notizia l’aveva attesa sin dal giorno in cui aveva deciso di diventare un calciatore, ma la sua volontà di rispondere ora si sfaldava contro i nodi che gli ingarbugliavano la gola impedendo alle parole di uscire. Rimase perciò in silenzio, timido e scombussolato, a lasciare che il suo sguardo commosso ringraziasse con tutta la sincerità del suo cristallino candore.

    L’allenatore invece si aspettò per qualche secondo che lui dicesse qualcosa, sorpreso da quello strano e partecipe mutismo, poi continuò:

    «Attoma, tu sei giovane. Immagino che tutta quest’ attenzione che ti si è appuntata addosso possa averti confuso le idee. So che sei un bravo ragazzo, ma questa situazione sarebbe rischiosa per chiunque. Ci sono stati parecchi cambiamenti nella tua vita ultimamente, hai dovuto lasciare il tuo paese, la tua famiglia, i tuoi amici. Non avevi mai giocato lontano dai tuoi prima d’ora, vero?»

    «No, signore. Da quando sono diventato un professionista ho sempre giocato nella squadra del mio paese»

    «E qui come ti trovi?»

    «La città è un po’ caotica, non mi ci sono ancora abituato del tutto. Talvolta se giro da solo in macchina mi perdo, perciò preferisco il taxi, altrimenti non riuscirei mai a ritrovare la strada di casa»

    «E con i compagni come va? In campo c’è affiatamento, lo vedo, ma fuori?»

    «Sono tutti bravi ragazzi, stiamo imparando a conoscerci»

    «Il tuo nuovo appartamento ti piace?»

    «È molto grande, signore. Forse troppo»

    «La tua famiglia è già venuta a trovarti?»

    «Non ancora, ma hanno promesso di essere qui il prossimo fine settimana»

    «E hai anche una fidanzata?»

    Di nuovo il giocatore non rispose e abbassò gli occhi. Ma questa volta il suo silenzio era il risultato di un incastro sbagliato tra due parole, e no, che si erano sovrapposte e confuse sulla lingua togliendosi la voce a vicenda.

    Il colloquio con l’allenatore aveva amplificato l’eco della sua ansia, suonandogli nella testa come una oscura profezia. Quando andava agli allenamenti, gli sembrava di essere trasparente, come se tutti i suoi dubbi si fossero stampati sulla faccia, macchiandola delle sue paure. Finiva col sentirsi sempre a disagio, quando non aveva la palla al piede. 

    Intanto si guardava intorno, studiava la sicurezza dei suoi compagni e si chiedeva se anche per loro era venuto quel freddo tempo di incertezza, se la serenità di cui gli parevano l’icona era il frutto di scelte giuste o sbagliate. Ma come avrebbe fatto lui a distinguere tra le due cose? 

    Capitolo III

    Alessandro Bulli era stato l’idolo dei tifosi prima dell’arrivo del giocatore, l’asso della squadra, l’uomo immagine della società. Lo era ancora, solo in misura leggermente attenuata dalla sua comparsa all’orizzonte. Anche lui era un calciatore di talento, un ragazzo prodigio che aveva esordito nella massima serie a soli sedici anni ritrovandosi in nazionale già a diciassette, più o meno all’epoca in cui il giocatore

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