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Il Domani dello Sviluppo
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Il Domani dello Sviluppo

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Al concetto di sviluppo se ne associano molti altri, spesso confondendoli, come: crescita, benessere, qualità della vita, evoluzione, miglioramento continuo. L’autore ci invita a riflettere sui riduzionismi che applichiamo a queste nozioni, specie nelle risposte date per affrontare il complesso contesto contemporaneo, segnato dai venti della crisi. Si indaga sui problemi di un ostentato “crescismo”, che vede nell’irriflessiva rincorsa all’incremento la panacea macroeconomica a tutti i mali. Un approccio cieco sull’inevitabilità dei limiti (sociali ed ecologici) intrinseci in ogni modello di sviluppo. Alla diagnosi di stringenti problemi l’autore contrappone una breve overview sulle possibili soluzioni, terreno fertile per immaginare cambiamenti che richiedono un enorme sforzo culturale, di cui è opportuno parlare per costruire consapevolezza e fare il domani.
LanguageItaliano
Release dateOct 28, 2014
ISBN9786050330151
Il Domani dello Sviluppo

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    Il Domani dello Sviluppo - Fabio Luffarelli

    Fl

    IL DOMANI DELLO SVILUPPO

    Fabio Luffarelli

    Copyright © 2013 Seconda revisione 2019

    Publisher: Fabio Luffarelli

    fabio.luffarelli@yahoo.it

    Standard Copyright license

    Mi siedo al margine della strada. Il guidatore cambia ruota. Non sono contento di dove vengo. Non sono contento di dove vado. Perché guardo il cambio della ruota con impazienza? (Bertolt Brecht)

    DIGRESSIONI INIZIALI

    lo stato di progresso è in realtà lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della società (Smith, 1776)

    Il massimo della civiltà non sta nel possedere, nell’accumulare sempre di più, ma nel ridurre e limitare i propri bisogni (Gandhi)

    Le generazioni future dovranno verosimilmente porsi queste domande: A cosa pensavano i nostri genitori? Perché non si sono svegliati quando potevano ancora farlo? Queste domande che i nostri figli ci faranno, è adesso che dobbiamo ascoltarle (Al Gore, 2006, dal film Una scomoda verità)

    Stretti tra due modelli diversi, di cui uno ha preso il sopravvento e di cui oggi siamo i massimi eredi: quello smithiano, figlio del progressismo, del positivismo, dell’antropocentrismo scientista e illuminista. Su di esso viviamo gli agi e le comodità contemporanee, ma quanto possiamo dire di viverne le speranze future che ci delinea? Abbiamo da più parti (dall’ecologico, al sociale, all’economico) segnali di rottura e instabilità, capaci di istillare minacce a ciò che in quel progressismo viene considerato come scontato, naturale, quindi giusto. Ma se anche si trattasse di un modello che fino ad oggi ha funzionato, può esso prospettarci continuità? Ecco, è su quest’ultimo punto che le aspettative vacillano.

    Quale domani augurarci se entrambi i modelli delle prime due citazioni ci parlano, in modi opposti, di sviluppo? Posti negli enigmi tra le glorie (e i pesanti lasciti) del passato e le incertezze sul futuro dovremmo interrogarci, adesso, su delle scomode verità (magari fosse solo una).

    INTRODUZIONE ALL’INTRODUCIBILE

    Abbiamo ottenuto tutto, ma la mia impressione è che quello che abbiamo ottenuto è una parodia di quello che avevamo sognato. (Krzysztof Kieślowski)

    Probabilmente il titolo di questo libro apparirà poco chiaro, principalmente perché non è immediato pensare a ciò che vuole dire la parola sviluppo. Sviluppo di cosa? Di quale sviluppo stiamo parlando? Non solo, riflettendoci un po’, parlando del domani dello sviluppo, sembra quasi di gettarsi nella fantascienza, un po’ come dire il domani del futuro.

    Lo sviluppo, nell’accezione più generalista e comune che possiamo riscontrare, è un passaggio qualitativo che un sistema compie in termini evolutivi: un miglioramento. In ambito socioeconomico la parola crescita aiuta a definirsi e a definire lo sviluppo. Se quest’ultimo designa un miglioramento sistemico e strutturale di un processo, piuttosto che di un sistema, la crescita è il più semplice ingrandirsi di un insieme o, appunto, l’incrementarsi di un prodotto legato a un processo. La qualità e la quantità definiscono così le proprietà di cui vivono gli interi sistemi. In un contesto socioeconomico (quindi né solo sociale, né solo economico) sviluppo e crescita spesso vanno di pari passo, per cui non possiamo assistere a miglioramenti di processi fino a quando i processi stessi non sono cresciuti in termini quantitativi; viceversa, cambiare le logiche di sviluppo significa impattare sulle grandezze di crescita.

    Ho qui preferito utilizzare la parola sviluppo, più che crescita, perché per il senso comune è un po’ come se questa nozione contenesse anche l’altra. Ed è qui l’ambivalenza a cui si assiste riflettendo in modo incrociato su queste parole, perché pur essendo distinte vengono utilizzate spesso e volentieri come sinonimi. Non è da sottovalutare il senso comune, soprattutto nella società dell’informazione e dell’altrettanta superficialità che si dedica alla sua attenzione (quest’ultima infatti è inversamente proporzionale alla quantità della prima). Allora deve essere l’analisi critica del senso comune a guidarci, per poter diagnosticare ciò che caratterizza la contemporaneità.

    Sviluppo e crescita quindi sono teoricamente due parole diverse ma usate come sinonimi. Le curiosità non finiscono qui sulla densità dei due termini, perché la parola sviluppo, soprattutto a partire dagli anni novanta parlando di indici alternativi al PIL, ha assunto valenze meno economiche, riferendosi più a istruzione, sanità, diritti civili e politici. Tant’è che si è parlato di ISU (Indice di sviluppo umano) nel programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). Allora, com’è possibile che una più recente interpretazione della parola sviluppo non si sia affermata, tanto, al contrario, da elevarsi a senso comune la sua sinonimia con la nozione di crescita? Forse perché ci sono volte (la maggior parte) in cui è semplicemente inutile filosofare sulle differenze concettuali di due termini affini, dato che ciò che conta è la crescita economica in senso stretto. Nei pilastri dell’economia classica, quando tutti iniziano a vendere e comprare facendo girare (con la mano invisibile smithiana) l’intero pianeta del commercio, il sistema è lanciato per non fermarsi. Altre volte invece capita di assistere alle sconfitte del capitalismo ortodosso, specie se esportato nei paesi del terzo mondo, per cui si deve trovare il modo di aggirare il problema, cambiando l’interpretazione di un concetto che nelle società avanzate non si vuole mettere in discussione. In fondo, è più facile cambiare il significato di un termine che portare a buon fine le politiche internazionali di sviluppo. Questo successe a ridosso di quello che, appunto, è stato definito il decennio perso dello sviluppo (anni ‘80), ovvero gli anni in cui ci si rese conto che proprio lì dove si stava cercando di importare il progresso aumentava la povertà. Perché allora non cogliere quell’opportunità per svincolarsi dal riduzionismo economicista e ridefinire le politiche economiche e di convivenza tout court? Sicuramente non c’era interesse nel farlo, visto che proprio grazie alla caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda si stava assistendo a una profonda globalizzazione, convinti che il suo liberismo avrebbe portato vantaggi per tutti (quelli che contavano).

    Oggi che il sistema scricchiola molti parlano di crisi del capitalismo, altri di decrescita e di alternative radicali possibili; è curioso poi notare che importanti riviste economiche, come l’Economist (si veda per esempio lo speciale sul numero di ottobre 2012), parlano addirittura dell’esigenza di rinnovarsi attraverso un True Progressivism, a danno dell’eccessiva inuguaglianza che si è venuta a creare nei nostri sistemi, capace perfino di penalizzare la crescita. Il ragionamento è semplice e, come al solito, incentrato sulla crescita (più che su una connotazione meno riduzionista di sviluppo): l’inuguaglianza, una delle conseguenze primarie del liberismo economico, ha preso talmente il sopravvento da offuscare le sue manifestazioni positive (come la meritocrazia) e anzi da essere un danno per la stessa crescita, fatta ormai di speculazione e monopoli. La cosa interessante da notare a riguardo è che anche quando si porta avanti una critica agli eccessi dell’economia contemporanea, ciò che si salva è comunque e sempre la crescita, per cui si continua a offrire come soluzione proprio l’ideologia che ci porta a parlare di crisi. Il problema sulla crescita è in sostanza uno: quello di pensare che crescere permette di migliorare comunque la nostra condizione, di aumentare il benessere, senza però chiederci a che prezzo e fino a che punto ciò accade. Si possono sostenere le battaglie più dignitose che ci sono contro inuguaglianze e speculazioni, ma la crescita è un presupposto religioso che non può essere messo in discussione, su cui ruota tutto il sistema e gli interventi che vengono presi per sanarne le disfunzioni. Allora, dopo questo lungo preambolo, ecco sorgere la riflessione su dove ci stia portando questo crescismo, come esso si relazioni con il gemello sviluppo. Nel senso comune delle opinioni si coglie di certo (…ci mancherebbe) una sfumatura tra la crescita (legata all’aumento del prodotto, del PIL, in senso lato dell’economia) e lo sviluppo (legato a un miglioramento della qualità della vita e dei processi); ma con l’uguagliare la crescita economica con lo sviluppo della società e degli stili di vita, non si rischia di generare un mostro? Attraverso questa progressiva uguaglianza non si rischia di perdere delle opportunità diverse di costruzione del sociale?

    Ecco, sono affascinato dall’impronta culturale della questione, dal fatto che non è sempre esistita quest’uguaglianza, che è il segno di questi tempi. D’altra parte è la miopia religiosa a cui si assiste in quest’uguaglianza economicista (dogma centrale del crescismo) a spingere la critica del sistema. Aldilà delle crisi economico-finanziarie che vanno e vengono, e che hanno cause molteplici (lungi infatti dal voler rispondere al riduzionismo con altrettanto riduzionismo), è l’irrazionalità (o, che sia, il cieco interesse di una o più lobbies) travestita da scienza a essere poco sopportabile. Non solo, come a ogni religione nel corso della storia si lega una ricerca di senso, così ai dogmi contemporanei si legano altrettanti significati esistenziali, che molto spesso trovano nel lavoro, quindi nella sua efficienza profittevole, il culto e il perno. Senza lavoro non c’è crescita, senza quest’ultima non c’è sviluppo; o viceversa. Un teleologismo che si giustifica in eterno, uccidendo qualsiasi prospettiva di lungo periodo che cerchi d’immaginare il domani dello sviluppo. D’altra parte il crescismo è socialmente legittimato dal lavoro; perché pensare ai limiti di un sistema quando questo ci permette (oggi) di mantenere il benessere? Così il paradosso si perpetua: un rimando infinito allo sviluppo (futuro), senza vederne i limiti, perché si pensa il domani come un eterno oggi, a cui appartengono sempre le stesse logiche…Ma, come fa un sistema di per sé in perenne evoluzione, perché è evoluzione, quindi miglioramento di fronte a se stesso, a non cambiare lungo il suo corso regole del gioco, presupposti, logiche? Non rivedere quest’ultime è contraddire il carattere in itinere del senso sviluppista che si vuole dare all’intero sistema.

    Vorrei qui brevemente sbrogliare tali paradossi, queste impasse di dinamiche e nozioni che soprattutto oggi incidono così tanto sulla vita delle persone. Ci sono innumerevoli modi di affrontare la questione sulla crescita, ma qui, aldilà di vederne le problematiche reali in termini demografici, ambientali, economici e sociali, mi interessa più affrontare la questione in termini antropologici, andando a interpretare il problema come credenza, dando una caratterizzazione del mito intangibile dei nostri tempi. Privilegiata chiave di lettura della storia recente ma soprattutto di ciò che sarà.

    PROBLEMI

    La crescita, per il capitalismo, è una necessità sistemica totalmente indipendente dalla e indifferente alla realtà materiale di ciò che crea. Essa risponde ad un bisogno del capitale. (Gorz A., 2007)

    UNA SUPERIDEOLOGIA

    Vi sono due tragedie nella vita. Una consiste nel non ottenere ciò che il vostro cuore desidera. L’altra nell’ottenerlo (Shaw)

    Se il progresso corrisponde a un momento, per carità desiderabile, necessario, delle società umane, non occorre dimenticarsi che esiste anche la fase dell’equilibrio. Equilibrio non vuol dire necessariamente miglioramento continuo, magari essere posti sempre in una situazione sfidante per essere stimolati; vuol dire piuttosto sapere quando e quanto spingersi fino al limite, così come riconoscere e rispettare i confini. Analogamente, vincere non vuol dire sempre conseguire l’obiettivo che ci si era posti ma anche capire quando è il momento di saper rinunciare. In senso lato migliorare non è detto che sia sempre giusto e desiderabile, alle volte è più importante focalizzarsi sul consolidamento, la stabilità (che comporta sicurezza). A tal proposito è interessante recuperare un po’ di quella circolarità a cui si riconducono soprattutto molte tradizioni filosofiche orientali, più che ridurre i processi a un costante evoluzionismo lineare frutto positivista della filosofia moderna. Questa saggezza non crede che superare e superarsi sia sempre buono e giusto, bensì è pronta per definizione a mettersi in discussione e a valutarsi in base alla circostanza. Queste condizioni servono da premessa per tornare ad appropriarci della nozione di limite, associata non all’antitesi negativa con sviluppo, crescita, miglioramento; piuttosto è parte della stessa medaglia. Concretamente ciò ci porta a riconoscere il punto di rottura tra evoluzione (miglioramento) e qualità della vita; la direzione che diamo alle cose. Se vi è stata una certa deriva efficentista è perché andava a sostegno dello spiccato produttivismo, nato a sua volta da un antropocentrismo teso a volersi impossessare delle cose (la natura, per esempio), piuttosto che vagliare anche l’ipotesi di costruire con esse relazioni di equilibrio. Ciò che ci deve guidare, più che un generico (perché aprioristico) miglioramento continuo, dovrebbe essere: miglioramento di cosa? Per cosa e chi? A quali condizioni? Senza tali precisazioni assumere come attitudine l’orizzonte perenne dell’ottimizzazione può essere pericoloso, oltre che senza senso. In questo panorama la formula toyotista del Kaizen ha solo dato voce a delle tensioni presenti ben prima nel positivismo moderno. Allo stesso modo più recenti tormentoni come l’Empowerment (che non a caso ha trovato ancora una volta terreno fertile nei contesti organizzativi / lavorativi) riflettono la medesima sterilità concettuale di ridurre qualsiasi trasformazione a una crescita. Si ha la sensazione che se non si lotta per questo eterno obiettivo decade ogni ragione di azione. In tali vene circola il crescismo. Ma la cosa interessante è che quest’ultimo è più di una classica ideologia, è una superideologia, proprio perché si tratta di un suo potenziamento (tanto per rimanere su questi termini miglioranti). La ragione è semplice e determinante rispetto alle classiche ideologie: crescere o svilupparsi sono visti come un fenomeno naturale nell’ordine positivo delle cose. Alle classiche convinzioni fideistiche se ne riconosce spesso il carattere artificiale, umano, per cui anche nella moltitudine del senso comune vi possono essere pareri contrastanti sulla sua correttezza; ma quando si innesta la naturalità in certi fenomeni si pensa che non può essere altrimenti. L’ideologia religiosa è sorretta dalla fede nel soprannaturale; all’ideologia politica fa da sfondo il fanatismo, l’indottrinamento, non di rado la violenza; la superideologia è ancora più coercitiva poiché è molto più sottile: si fa forte della scienza (tramutata ormai in tecnica), creando così il legame di ovvietà con la natura. In questo modo il paradigma che lega crescimo e tecnica, fondendoli assieme, li rafforza reciprocamente. Allora, dietro il supercapitalismo (si veda la diagnosi contemporanea di Robert Reich) deve esserci, per l’appunto, una superideologia, caratterizzata dalla naturalità. Evoluzione e crescita sono due cose da non confondere. La nozione di sviluppo (così come quella di miglioramento) investe entrambi i concetti, nel primo caso in qualità di risposta a un contesto mutato, nel secondo in qualità di un riduzionismo capace di associare l’accumulo di ricchezza con il benessere. Se confutiamo questi legami aprioristici crescere non vuol dire necessariamente sviluppo, così come miglioramento, tantomeno si tratta di un processo evolutivo. L’appiattimento crescista consiste proprio nel ricondurre tutto, perfino la natura, a se stesso.

    Come detto, sebbene la propensione naturale dell’essere umano sia quella di volere e sperare in qualsiasi miglioramento (delle positività), non va dimenticato che, come ricordava Kant, dietro alla promessa di felicità che accompagna ogni desiderio, vi si nasconde quella della sua distruzione: "Date pure a uomo tutto ciò che desidera, ma appena lo avrà sentirà che tutto non è tutto". L’utopia ci guida letteralmente nel bene e nel male. La spinta positiva del non avere limiti cela la tensione negativa dell’infelicità, la condanna all’insoddisfazione permanente. È del tutto naturale pensare a una società in costante miglioramento ed esserne altrettanto delusi quando se ne parla. La questione però è di autoconsapevolezza e misure: capire di volta in volta le aspettative che ci guidano, cosa intendiamo per miglioramento e come possiamo gestirlo. Studiare un po’ meglio le dimensioni della delusione sottesa alle scelte che facciamo ci permette non di evitarla ma di essere più consapevoli. D’altra parte se ciò accade per il singolo vale anche per le società, lì dove la felicità è strettamente connessa alle aspettative, è sempre bene saper misurare queste ultime per salvaguardare la prima:

    Il mondo che sto tentando di indagare in questo saggio è quello in cui gli individui pensano di desiderare una cosa, ma poi, non appena l’hanno ottenuta, scoprono con costernazione di non desiderarla affatto quanto pensavano o di non desiderarla per nulla, e che ciò che ora desiderano realmente è qualcos’altro, qualcosa di cui in precedenza erano ben poco coscienti. Noi non agiamo mai in relazione ad un’ampia gerarchia di desideri stabilita da qualche psicologo intento ad esaminare i molteplici obiettivi o bisogni dell’umanità, ma invece, in ogni momento della nostra esistenza reale – e questo è spesso vero anche per le società intere – perseguiamo alcuni obiettivi che poi sostituiamo con altri. (Hirschmn, Albert O., 1983, pag. 39)

    Ebbene, ecco i desideri moderni: crescere per svilupparsi, migliorare e progredire, sono tutti automatismi concettuali e nozioni che associamo generalmente alle cose senza darvi una reale direzione, a parte il fatto di vivere il tutto come delle cose buone e giuste in ogni caso, poiché queste costituiscono genericamente la direzione da seguire. A partire da questi presupposti l’affermarsi dell’uomo non può e non deve conoscere limiti, poiché egli si è ormai svincolato dalla soggezione dell’ambiente. Una volta controllato e dominato a proprio piacimento quest’ultimo tutto è possibile, in ogni campo del sapere e del fare. Tale antropocentrismo, che ha i suoi albori in Cartesio, è la giusta condizione per la nascita e il prosperare dell’interesse economico, il primo per definizione a non trovare limiti. Si gettano in questo modo le basi della scienza moderna, apportando di fatto un notevole passo in avanti nel sistema di pensiero. Tuttavia, nel dirompente fiume delle idee positive, si nascondono dei germi crescisti che saranno destinati a trovare terreno fertile. Siamo però sicuri che ciò che fino a poco tempo fa ci ha guidato verso un concreto benessere e felici idee di futuro, non possa essere la stessa cosa che minaccia ciò in cui speriamo? Occorre allora indagare quale idea di futuro ci guida, attraverso un ritorno alla storia delle idee.

    FUTURI FRAINTESI

    Oggi possiamo tranquillamente dire che gli economisti classici del XIX secolo sbagliarono le loro profezie in merito ai profondi mutamenti che stavano osservando nella nascente società industriale. Per primo non può che venirci in mente Malthus e le preoccupazioni legate all’incremento del fattore demografico, il quale sarebbe stato la causa di diffuse carestie, vista l’incapacità di sostenere la produzione per un fabbisogno sempre più grande. L’unica alternativa al rischio sovrappopolazione diventa il controllo della natalità. Cosa direbbe oggi Malthus vedendo il numero degli abitanti presenti sul pianeta? Anzi, cosa direbbe nel momento in cui, in alcune parti del mondo, siamo perfino arrivati a un eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda? Che dire poi di Ricardo, il quale un paio di decenni dopo il Saggio (1798) malthusiano pubblica i Principi dell’economia politica e dell’imposta (1817), in cui esprime tutta la paura a lungo termine riguardo alla rendita fondiaria e il prezzo della terra. Secondo questa visione la terra sarebbe diventata un bene sempre più raro nel momento in cui, anche

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