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Pensieri su Gesù Cristo
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Pensieri su Gesù Cristo

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Un breve saggio che, dal punto di vista psicologico umano ed esistenziale, cerca di illuminare e conoscere più profondamente la persona di Gesù Cristo. Per gli atei l'uomo che più si è donato per gli altri ed è stato un esempio di comunione e solidarietà, sia sociale sia umana insuperabile. Per i credenti non solo un uomo, ma Dio medesimo, la Seconda Persona della SS. Trinità diventato uomo, affinché gli uomini capissero come vivere per diventare dèi. Scritto in modo divulgativo, con termini non eccessivamente difficili, semplici ma non semplicistici, è adatto ad una platea che voglia approfondire il Mistero di Gesù Cristo. Del personaggio storico che ha svelato non solo il mistero di Dio all'uomo, ma anche il mistero e il destino dell'uomo a se stesso.
LanguageItaliano
Release dateAug 3, 2014
ISBN9786050316049
Pensieri su Gesù Cristo

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    Pensieri su Gesù Cristo - Leonardo Bruni

    dell'Autore.

    [1] Gesù Cristo o Il falegname di Nazareth: Un uomo venuto da lontano.

    Cristo-Dio se ne stava a sedere aspettando che finissero i preparativi per la cena pasquale. Si stava guardando le palme delle mani: toccandosi i calli notava che, ormai, erano quasi andati via. D'altronde era da tre anni che aveva cessato da fare il falegname. Quel Dio su cui tutti i filosofi si erano accapigliati per dirimere intanto se c'era o non c'era; poi, assodato che tutto l'universo urlava -dalla formica all'elefante, dalla goccia all'oceano, dal sassolino ai miliardi di galassie- che Qualcuno doveva pur aver posto nell'esistenza tali cose, annullando l'insufficienza entitativa che pervade l'universo, in quanto niente e nessuno si autocrea, avevano deciso che «c'era». Questo portava con sé una domanda formidabile: perché l'aveva fatto? Godendo fin dall'eternità di una beatitudine perfettissima e non mancandogli niente, era assurdo che creasse per procurarsi qualcosa. Non pensarono, però, che compiacendosi nella sua estasiante bellezza, vide che questa poteva essere distribuita e riflessa in miliardi di creature, che Egli volle e vuole far esistere. Il fine ultimo del mondo è veramente la gloria di Dio, la Kabod Jawhèh, il vero glamour; non nel senso che Egli voglia accrescerla per Sé, ma al contrario perché vuole diffonderla. Così miliardi di esseri, dalla formica all’elefante, possono esistere per partecipare alle sue perfezioni, per essere un riflesso della sua bellezza. Tutto questo è conforme e desiderabile sia da parte nostra, in quanto corrisponde al nostro anelito più profondo; sia dalla parte di Dio medesimo che, come l’artista non subordina se stesso alla sua opera ma la mostra per il gaudio spirituale degli ammiratori, non sottomette Se Stesso all’universo a Lui inferiore, ma si autocomunica attraverso il medesimo. E questo, il sommo poeta lo cantò da sommo¹. In verità, Dio, nessuno l’aveva mai visto. O meglio, 12 poveretti ci vivevano insieme da tre anni, e cominciavano a capirci qualcosa. Non tanto, però, perché LUI era sempre al di là di ogni comprensione pretendente di incasellarlo.

    Intanto, davanti a Dio seduto lì al tavolo, si poteva cominciare a buttare nel cestino tutte le speculazioni dei neoplatonici, di Plotino e Company, sul Logos, su quel benedetto progetto, in quanto invece di essere un’idea era una persona. Il suo modo di fare spiazzava, perché da che mondo è mondo gli uomini hanno sempre creduto che i valori universali avrebbero migliorato e salvato l’umanità². Non solo i filosofi come singoli pensatori, ma persino interi popoli nel corso di millenni avevano escogitato un insieme di credenze religiose come l’induismo, o fondatori di religioni come Siddharta Gautama per il buddismo, postulando che solo le verità eterne e razionali, le uniche che possiamo conoscere con certezza, il metafisico o universale, le essenze atemporali erano capaci di salvare l’uomo³. Anche tutte le religioni, tutti i tentativi umani di risalire dal basso dell’umanità a LUI, nonostante l’afflato dello spirito di re-ligare, di rilegare, di congiungere, l’uomo a Dio, anche se certamente si avvicinavano più della filosofia, anche se avevano dei semi di verità, dopo un po’ però, facevano la fine di quel viandante nel bosco. All’inizio illuminato dallo spirito era partito sicuro, ma poi proseguendo nel cammino - dopo il tramonto del sole - si era perduto fra i sentieri. Infatti tutte le religioni avevano deviato dipingendolo molto diverso da come era: ne era venuto fuori un quadro non solo falso, ma inutile per salvare l’umanità. Così la filosofia non era arrivata alla Verità -alétheia - in pratica la ragione per cui era nata; e le religioni alla salvezza, idem con patatine.

    Il contrasto era ed è irrimediabile per la semplice ragione che Dio aveva deciso di agire non in modo metafisico - universale, ma in modo storico e particolare. Può un avvenimento singolo, circoscritto in un breve periodo di tempo e in un certo luogo, cambiare e salvare l’umanità? Può una persona singola con certe sue azioni, limitate nello spazio e nel tempo, fondare quelle verità eterne, spirituali, razionali e sovrarazionali - cioè misteriche - che ci portano alla beatitudine? Cosa ci salva? Quel complesso di ideali e principi universali - come la giustizia, la libertà, l’amore, la verità, il desiderio dell’infinito, l’amicizia - sperimentabili al livello della nostra ragione e sentimenti, oppure un semplice fatto storico, un evento limitato nel tempo, compiuto da una sola persona a Gerusalemme più di 2000 anni fa? La risposta non è di poco conto: di pelle ne abbiamo una sola, e uno solo è il viaggio - non reiterabile - verso l’eternità.

    Il cristianesimo risponde alla domanda con la seconda soluzione. È un fatto storico, un singolo che soffre, muore e risuscita, che pretende con questi suoi unici fatti esistenziali di essere il vero e unico rivelatore di Dio. È forte? Certo,è forte, non c’è niente da fare. È una affermazione che si fonda sul fatto che questo unico individuo è Dio e che ogni sua azione - pur limitata nel tempo - ha un valore che trascende lo spazio e il tempo: è valida perennemente per tutti gli uomini. E quindi è capace di fondare, o meglio di rifondare dopo la tragedia del peccato e della morte, quegli stessi valori universali e ideali sui quali la filosofia cerca a tentoni la verità.

    Il fatto incontrovertibile è che l’ex - falegname veniva non solo da lontano, ma anche da una decisione nata nell’alto dei cieli, equivalente per noi all’essere più nascosta e profonda degli abissi oceanici. Era nata non da un obbligo, né da una necessità, ma da un fluire più potente dell’onda dell’amore. Una delle caratteristiche dell’amore è l’immedesimarsi nella persona amata, nelle sue condizioni, nel farsi carico dei suoi dolori per dargli sollievo. Non stupisce quindi che LUI, Amore Puro, non volesse lasciare andare gli uomini verso il baratro della dannazione. Per cui [ quando? Un giorno? In un attimo dell’eternità? In qualche modo bisognerà pur cercare di esprimersi con buona pace del nostro caro Wittgenstein] siccome chi ama non bada ai propri interessi, ma a quelli che ama, Egli che era come Dio non considerò un tesoro geloso il suo essere uguale a Dio.

    Rinunziò a tutto: diventò come un servo, fu uomo tra gli uomini e visse conosciuto come uno di loro.

    Abbassò se stesso, fu obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.

    Perciò Dio lo ha innalzato sopra tutte le cose e gli ha dato il nome più grande.

    Perché in onore di Gesù, in cielo, in terra e sottoterra, ognuno pieghi le ginocchia, e per la gloria di Dio Padre, ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore⁴.

    In questo testo della Bibbia sono infatti distinti i tre modi di esistenza di quell’ex - falegname che se ne stava seduto al tavolo. La prima maniera era quella della preesistenza divina - Dio da sempre e per sempre; la seconda la forma di servo - uomo; la terza, quella che sarebbe venuta dopo la sua passione, morte e resurrezione, quella di essere esaltato sopra tutte le creature. Essere come Dio equivale ad avere la natura divina, ovvero presuppone il possesso della gloria e maestà, doxa, proprie della divinità. Ora la natura, in filosofia, si definisce «come il possesso delle caratteristiche che uno possiede, senza sforzo o merito, e che fa sì che quella cosa o quella persona sia quello e non un altro». Ora la gloria divina significa avere il possesso certo e sicuro di una vita piena di godimento senza fine, espressa con il termine beatitudine. È il vero glamour, la Kabod Jawhèh. Vuol dire avere tutto, vuol dire potere tutto, vuol dire godere di tutto, vuol dire essere Dio.

    Però Questo qui lascia tutto, si spoglia di tutto, non considera quello stato di uguaglianza come una preda, da tenere gelosamente per sé, da non mollare come in pratica facciamo noi: la storia umana, sia dei popoli che delle singole persone, è costellata da posizioni da non mollare, da tenere ad ogni costo, per non perdere il vantaggio acquisito. Mi dispiace avvisarvi che Dio ragiona e funziona all’incontrario. Questo rinunziare a tutto avviene con l’Incarnazione, con il divenire uomo tra gli uomini. Il mutamento tra la forma di Dio e la forma di servo fa diventare Cristo, che nella sua preesistenza eterna era Dio nella forma di Dio, Gesù-Cristo. Vale a dire divenne uomo, e quindi Dio nella forma di servo. Questa privazione, questa spogliazione, consiste nella rinuncia alla gloria e alla maestà divina, e quindi alla parità con Dio, non però nell’abbandono della divinità e delle sue prerogative. Questo svuotamento, kenosi, non si riferisce alla sua divinità, poiché Cristo è Dio e non può spogliarsi della sua divinità. In realtà, questa kenosi - che sta alla base del cristianesimo - è consistita nell’assunzione di una umanità sofferente e corruttibile, sottoposta al dolore e alla morte. Ciò di cui Cristo si è liberamente spogliato, non è quindi la natura divina, ma la gloria che gli spettava di diritto e che avrebbe dovuto rimbalzare dalla sua umanità.

    In sé l’Incarnazione avrebbe potuto essere di tipo glorioso, la carne avrebbe potuto manifestare lo splendore della condizione divina. Cristo avrebbe potuto benissimo dire al Padre «certo, va bene, divento uomo, ma non voglio spogliarmi della gloria che mi spetta di diritto». Nessuno avrebbe potuto dirgli nulla. Ma questo qui, diventando più di 2000 anni fa Gesù, rinuncia ad avere prima della Pasqua il rivestimento completo, nella sua umanità, della gloria eterna. Decide di privarsi del vero glamour per fare una scelta di natura opposta al gesto peccaminoso di Adamo. Costui, ascoltando la voce del maligno sussurrante:«sarete come dei»⁵, aveva voluto «rapire» con la sua misera condizione umana il vero glamour di Dio, cercando con il furto di avere questa impossibile uguaglianza. Cristo, invece, pur possedendo questa gloria di diritto, ha rifiutato di «rapire» questa uguaglianza, perché è vissuto nella condizione di servo prendendo su di sé tutte le nostre debolezze, eccetto il male volontario, il peccato.

    Un mese fa però, prima di venire per la pasqua a Gerusalemme, aveva fatto un’eccezione. Aveva preso con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salito sul Tabor aveva fatto intravedere a loro, per brevi istanti, quel suo diritto di apparire sulla terra con la sua gloria divina; gli aveva cioè mostrato lo stato di «uguaglianza con Dio», o di umanità glorificata⁶. Ma fu un gesto più per fortificare gli apostoli, sapendo quello che sarebbe successo, che per se medesimo. Da sempre sapeva che la sua esistenza umana sarebbe stata uno spogliamento. Essa mostra, in maniera viva, come nel suo secondo modo di esistere - come Cristo Gesù - la Seconda Persona della SS. Trinità aveva fatto una scelta sacrificale. Opposta all’evidenza gloriosa, piena di prodigi e di glamour, che Gli chiedevano quelli che non

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