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L ' ipnosi nel dolore oncologico
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L ' ipnosi nel dolore oncologico

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Ipnosi e dolore: un tema delicato che solo in questi ultimi anni si sta affacciando sulle scene della medicina convenzionale. Un tempo tacciata come fenomeno da avanspettacolo, anche a causa di certi personaggi che ne hanno fatto oggetto di dimostrazioni poco serie, oggi finalmente l’ipnosi gode di una solida reputazione scientifica ed è stata finalmente riconosciuta anche nei più rigorosi ambienti medici. In questo libro viene affrontato un argomento poco trattato ma fondamentale: il supporto al paziente oncologico quando tutto il resto ha fallito. Come migliorare la qualità della vita delle persone a cui ne è rimasta poca? Come aiutarle a controllare il dolore? E, soprattutto, come condurle alla frontiera ultima dell’esistenza?
L’ipnosi, utilizzata da seri e preparati professionisti, fornisce la risposta a queste e a molte altre domande.
Un manuale con ampie basi teoriche, ma che dà anche molti spunti pratici, e può davvero rappresentare la differenza sia per gli specialisti del settore, che ne possono trarre importanti opportunità di aggiornamento, sia per i pazienti terminali e i propri familiari, che potranno beneficiare di specifiche e mirate tecniche di rilassamento e farsi guidare in un percorso di accettazione dell’inevitabile, da cui è possibile, però, eliminare la parte più dolorosa, sia a livello fisico che psicologico.
LanguageItaliano
Release dateJul 15, 2014
ISBN9786050309218
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    L ' ipnosi nel dolore oncologico - Roberto Solari

    ONCOLOGICO

    L' IPNOSI NEL DOLORE ONCOLOGICO

    INDICE

    INTRODUZIONE

    Si può pensare all’ipnosi, oggi, nei termini di una consolidata metodologia scientifica? No, non siamo ancora giunti a questo ambito traguardo.

    Nonostante i numerosi studi, svolti soprattutto a partire dagli ultimi cinquant’anni del novecento per arrivare all’opera mastodontica di Nicodemo Scilanga (2012), tanto per restare in Italia, la psicoterapia ipnotica non è ancora riuscita ad ottenere il riconoscimento scientifico che meriterebbe. Non foss’altro per gli studi sperimentali che si susseguono da duecento anni a questa parte, vedasi i promettenti inizi nel campo dell’anestesia chirurgica, ahimè velocemente condannati all’oblio a seguito della nascente narcosi farmacologica.

    Si annovera solo qualche sporadica apparizione della terapia ipnotica medica a livello sanitario pubblico nelle sale operatorie: recentemente la stampa ha dato notizia del suo uso in un intervento chirurgico alla colecisti su una paziente allergica ai farmaci anestetici; ne troviamo cenni anche in alcuni studi avanzati di odontoiatria. Per il resto in Italia l’ipnosi nell’ambito medico continua a far vita da nobile decaduta, ovvero messa in pratica da un numero ridotto di medici specialisti in chirurgia, anestesisti e qualche illuminato medico internista.

    Per quanto attiene l’ applicazione dell’ipnosi nello specifico campo dell’analgesia, essa non si sta ancora estendendo al settore pubblico come meriterebbe, a parte alcune aree di ricerca eccellenti, come il Centro Interdipartimentale per lo studio e la terapia del dolore presso l’Università degli studi di Milano, diretto dal Prof. De Benedittis.

    Al di là di rumors di datata New Age, in sintesi l’ipnosi oggigiorno continua (anche se con una minore fatica rispetto al recente passato) a incontrare difficoltà importanti nel penetrare nel mondo della clinica medica e chirurgica.

    Il clinico classico infatti continua, anche per una sorta di inveterata abitudine, ad essere il migliore alleato dell’industria farmaceutica che, macinando a livello mondiale la ragguardevole cifra di circa 600 miliardi di dollari l’anno, non può - in base alle ferree logiche del profitto - impiegare intenzionalmente tempo e risorse, ancorché insignificanti, per sperimentare l’ipnosi come un coadiuvante dello stesso farmaco.

    Non si tratterebbe ovviamente di pretendere che l’industria valuti la possibilità di sostituire certi farmaci, come per esempio quelli impiegati nel controllo del dolore, quanto piuttosto valutare quanto l’ipnosi possa esaltare l’efficacia del farmaco impiegato, magari permettendone il dimezzamento delle dosi e dei relativi effetti collaterali, e raggiungendo in tempi più ridotti e con maggiore efficacia il risultato per cui il farmaco è utilizzato.

    Perché no? Ma è semplice: money. È solo e soltanto una questione di maggiori profitti, che diminuirebbero significativamente per via della ovvia minore quantità di farmaci necessari per la terapia antalgica. Poiché il dolore sarebbe controllabile con l’ipnosi, questa potrebbe col tempo arrivare a permettere il minor utilizzo dei farmaci, fino al punto di poter fare a meno del principio attivo. In questo modo la semplice ipnosi risulterebbe una terapia di contenimento: nessun costo chimico, nessun effetto collaterale, nessuna assuefazione, anzi: un caldo, empatico appuntamento quotidiano.

    Il sempre più chiacchierato, potente clan della farmacopea mondiale, anche di fronte alle risultanze emerse in studi scientificamente attendibili, vedi per esempio il recente lavoro del medico britannico Ben Goldacre sull’efficacia della produzione farmacologica americana e non[1], non si sente chiamato in causa. Anzi: ignora le critiche, e non si cura di rispondere a chicchessia sui dubbi sollevati in vari studi circa la reale efficacia della chimica nel trattare con successo determinate patologie. Ma soprattutto si rifiuta di parlare chiaramente una volta per tutte della reale portata dei gravi effetti collaterali di molti farmaci, soprattutto nel campo degli antinfiammatori, dei chemioterapici e delle terapie antalgiche[2]. La grande industria del farmaco procede tranquillamente nel suo iter industriale. Per sdrammatizzare si potrebbe parafrasare la Divina commedia, quando Virgilio dice a Dante: Vuolsi così colà dove si puote e più non dimandare[3], nel senso che l’industria farmaceutica è il paradiso che pretende di restare al di fuori di ogni spiegazione sui perché, in quanto ha il potere di fare ciò che vuole e per il resto…statevvene bbuoni e zitti, come cita un adagio napoletano di camorristica memoria.

    Peraltro nei confronti del farmaco continua a imperversare una sorta di timor reverentialis da parte del malato, per cui chi soffre di emicrania, come ad esempio chi si trova allo stato terminale di un tumore, proprio a causa dello stato di intensa sofferenza, lascia sfumare il proprio Io nella consolatoria dimensione del pensiero. In questo modo o la pillola, o le gocce, o le iniezioni o qualunque sia la modalità di somministrazione stabilita dall’autoritas clinica, rappresentano la magica pozione risolutoria di ogni male, mentre per il clinico il farmaco assume valore di conditio sine qua non di ogni cura, configurandosi quale strumento principe della propria autoreferenzialità professionale.

    Il vuolsi così colà dove si puote…fa sì che non si debba perdere tempo in inutili discussioni sul valore dell’efficacia terapeutica: non ci si sofferma sugli eventuali effetti iatrogeni, anche se possono costituire danni al soma di una certa qual gravità; la qualità di vita del malato non conta quanto la sua sopravvivenza strettamente fisica.

    Infine, se il risultato prefissato viene a mancare, non è messa in discussione tanto la qualità terapeutica della farmacopea impiegata alla bisogna, quanto la mancata risposta positiva da parte dell’organismo del malato: insomma è l’incapacità del corpo del paziente a reagire a essere sotto accusa, non il prodotto somministrato.

    In altre parole il farmaco è concepito per non fallire, ed è l’organismo del malato a non essere all’altezza della forza terapeutica del prodotto somministrato.

    In attesa del giorno in cui la medicina, guardandosi indietro, si renderà conto di quanto poco sappia in realtà su ciò che ritiene già di conoscere a sufficienza, grazie anche all’indiretto aiuto proveniente dalle neuroscienze l’ipnosi potrà fare finalmente il proprio legittimo ingresso fra le terapie clinicamente efficaci. Nel frattempo, in un operoso silenzio, nel quale non risuonano le grancasse mediatiche, continua ad essere seguita, coltivata, curata, studiata e praticata per aiutare un po’ di più chi è chiamato al suo turno di confronto con la sofferenza.

    Il numero degli specialisti ipnologi nella sanità pubblica e privata, al momento in cui si scrive, può sopperire alle richieste dell’utenza, un’ utenza illuminata, proprio perché ancora numericamente ridotta.

    Garantire sul territorio una risposta specialistica alla domanda attuale non è pertanto impresa improba, dal momento che l’utenza non si è ancora orientata in modo adeguato sull’ipnosi come terapia a vasto raggio clinico.

    Ma certi segnali, anche se la fonte dell’interesse scaturisce da curiosità misticheggianti (vedi l’opera di proselitismo di Brian Weiss e autori affini intorno all’ipnosi regressiva), indicano il crescere di un interesse intorno al fenomeno ipnotico, per cui è compito del clinico ipnologo approfittare della crescente disponibilità da parte della popolazione, soprattutto giovanile, per dare vita ad un’ informazione, chiara, trasparente, efficace, clinicamente inappuntabile, circa le reali potenzialità dell’ipnosi come efficace intervento nell’ambito di un vastissimo ambito clinico e non.

    L’ipnosi dispone di specifiche strategie terapeutiche per diverse forme di nevrosi, nell’ambito delle dipendenze, dei disturbi della sfera sessuale, della delicata sfera dei disturbi alimentari, dei disturbi somatoformi, e del controllo e gestione del dolore in generale.

    Specialmente nel campo specifico dell’oncologia qualunque fase della malattia può trarre benefiche risultanze dall’impiego ipnotico, sotto forma di ristrutturazioni del pensiero, chiarificazioni, rinforzo dell’Io, gestione delle emozioni e, per antonomasia, intervento sullo stesso dolore oncologico.

    Negli studi di psicobiologia, in particolare nell’ambito della psiconeuroendocrinoimmunologia, sono state notate risposte significative a livello immunitario, soprattutto nell’ambito di molte patologie della pelle e respiratorie, come gli attacchi di asma.

    Addirittura nell’ambito tumorale si è riscontrato un aumento dei linfociti T e NK, anche se soltanto in via temporanea: ciò non è rilevante dal punto di vista terapeutico, ma sorprende il modo in cui l’organismo risponde a una condizione particolare di funzionamento semplicemente attraverso la parola.

    Accennavamo all’utilizzo dell’ipnosi anche in ambito extraclinico; e qui il campo d’azione è veramente ampio: si va dall’impiego in tutti i ruoli sportivi in cui si richiede, per esempio, il controllo delle tensioni nervose pre agonistiche, il rilassamento mentale e muscolare, la motivazione, il recupero della fatica, oppure negli ambiti militare e giudiziario, e perfino nei programmi spaziali.

    Insomma non esiste versante della vita umana in cui l’ipnosi non possa trovare una sua costruttiva applicazione.

    Eppure…

    Infine non dimentichiamoci che l’ipnosi, prima di essere uno strumento clinico ed extraclinico risulta essere un’esperienza interiore, grazie alla quale il soggetto ipnotizzato viene a proiettarsi in una dimensione filosofica, una sorta di filosofia del proprio sentir-si come parte del tutto.

    Non a caso, pertanto, i primi capitoli di questo libro sull’ipnosi nel campo del dolore, sono dedicati al rapporto fra ipnosi e filosofia, proprio perché il lettore possa essere introdotto in quella dimensione del proprio Me Stesso percepibile come pura interiorità, biunivoca fusione del proprio Sé nel proprio Io.

    L’ipnosi, forma di meditazione per eccellenza al fine del raggiungimento della piena consapevolezza di sé come persona, trova la sua radice in quell’atteggiamento spirituale che si riconosce nell’accordo di equilibrio fra spontaneità e riflessione, tra fantasia e realtà, Io come vissuto interiore e Io come realtà ontogenetica sociale.

    L’ipnosi lavora per l’integrazione del SEIOME (acronimo già familiare per chi ha letto il mio precedente lavoro: Il battito d’ali), contenitore del problema del Sé, dell’Io, del proprio Me stesso, ultima istanza psichica, che si viene realizzando come passaggio dal Sé indifferenziato all’Io individualizzato.

    Il Me è il senso di autoconsapevolezza dell’avvenuta integrazione fra le varie parti Sé e l’autoindividuazione Io.

    In altri termini, i sistemi emozionali di base, ovvero l’ insieme Sé, quali la spinta istintuale, la paura, l’angoscia, il piacere, la rabbia, la tendenza accuditiva ecc., nell’atto di essere oggetto di riflessione, proprio nel senso latino di flectere (ovvero ripiegamento del pensiero sull’esperienza sentita), danno forma all’Io, che si individualizza attraverso il riconoscersi come proprio esserci di ogni singolo sistema emozionale.

    Il Me scaturisce dal riconoscersi appartenente a quel determinato stato emozionale, singolo o insieme di stati emozionali; è l’Io che ha posto se stesso, e nell’atto di questo suo porsi, parafrasando Fichte, permette il sorgere del Me come sentimento di autoconsapevolezza.

    In sintesi abbiamo il Sé, che va inteso come l’insieme degli stati emozionali di base, mentre l’Io è il sentirmi, il percepirmi, il vedermi, il mio proprio individuarmi nello stato emozionale di base di sensazione, percezione, visione. Infine c’è il Me, che è il risultato dell’Io che, mettendosi in relazione alle proprie emozioni nel prenderne coscienza, si autoconsapevolizza nei termini di Me stesso.

    Il registrato emozionale pertanto individualizza, rafforza la presa di coscienza soprattutto nel momento in cui ci si avvia al comportamento ben consapevole degli effetti di realtà che lo sottendono.

    Un esempio: sto provando rabbia (Sé), ma è ancora allo stato indifferenziato, tuttavia nel momento in cui incomincio a rifletterci sopra do luogo a un sentimento di odio, che si oggettualizza nei confronti di qualcosa e/o di qualcuno.

    Il sentimento di odio che sto provando è la risultante di un insieme di stati emozionali che hanno bisogno di una istanza coordinatrice, l’Io, istanza che tuttavia non è ancora ben definita, poiché non sono stati ancora consapevolizzati tutti gli effetti di realtà cui può giungere il sentimento in corso; si potrebbe in questo ambito pensare alla non ancora avvenuta maturazione delle connessioni neurali che nell’uomo si completa intorno ai 25 anni; il ME scaturisce nel momento in cui oriento il sentimento in una precisa direzione delle cui conseguenze sono pienamente consapevole assumendomene la responsabilità.

    Per maggiore precisazione la mancata assunzione di responsabilità degli effetti di realtà dell’azione intrapresa relega l’azione stessa alla sfera dell’IO non individualizzato, per cui entriamo nella dimensione del disturbo emozionale.

    Infatti il malatoè in grado di riconoscersi in uno stato che non vorrebbe gli appartenesse, ma non è in grado di gestirlo a proprio vantaggio, se non disordinatamente;manca della fase successiva, ovvero quel grado di auto consapevolizzazione di base, l’Io, che scattando l’assunzione di responsabile consapevolezza del proprio agire realizza, dà vita insomma, al proprio ME stesso.

    L’ipnosi pertanto lavora per realizzare la formazione di un Io, integrando i vari Sé indifferenziati che, usufruendo della capacità di autoriconoscimento, vengono favoriti nell’allontanarsi dall’originaria spinta primitiva basata sull’impulso, entrando in una dimensione più articolata, l’Io-Me, una specie di risveglio, il satori giapponese, un travalicare le primitive barriere del Sé per la realizzazione del Me divenire, il divenire come Essere me stesso.

    In relazione al concetto di Sé ed Io il dibattito a tutt’oggi nel campo delle neuroscienze è molto aperto, pur precisando che al momento l’Io è fatto poco oggetto di indagine, se non fosse per un articolo di Rizzolatti e collaboratori[4], mentre gli studi sulle funzioni del Sé sono più numerosi. Grazie soprattutto agli studi sul connettoma, quanto scritto sul Sé si pone in rotta di collisione, per esempio, con le recenti acquisizioni a livello delle neuroscienze e a tal proposito sono significative le prese di posizione oggidì del professor Arnaldo Benini, neurochirurgo esperto in reti neurali, il quale sostiene l’inesistenza di un qualsiasi centro coordinatore dell’attività cerebrale.

    Benini scrive infatti in un articolo dal titolo Ensamble per miliardi di neuroni comparso sul domenicale del Sole 24 ore del 10 novembre 2013 che "…Da tempo nella letteratura scientifica è scomparsa la parola Self (Io) che le neuroscienze avevano ereditato dalla filosofia…Non esiste nel cervello un organo con le funzioni che si attribuivano all’Io: se non esiste l’io non esistono nemmeno mente o conoscenza in astratto. Esistono solo i loro contenuti. Di rimando, Benedetto Farina, psichiatra, ricercatore in neuroscienze, sottolinea che: …Gli articoli che Benini cita e la letteratura scientifica sull’argomento sembrano affermare il contrario: l’Io o meglio il Sé esiste indipendentemente dal suo contenuto, anche se non è localizzabile, proprio perché è il risultato del funzionamento di un vasto network cerebrale. Ed è per questo che le neuroscienze danno gran peso allo studio delle proprietà delle vastissime connessioni neuronali (soprattutto quelle della linea mediana del cervello ma non solo) e delle proprietà intrinseche dei complessi network cerebrali (network analysis) da cui, come afferma lo stesso Benini, sembrano emergere funzioni mentali molto complesso. Ed è per questo che le neuroscienze negli ultimi anni sono tornate a cercare prove e dare dimostrazioni dell’esistenza concreta del Sé (e anche dell’Io) e della coscienza (di sé) anche indipendentemente dal loro contenuto. Studi come quelli sul Default Mode Network, una sorta di network neuronale attivo a riposo, quando la mente non è impegnata in particolari azioni o non è ancorata a particolari contenuti sembrano finalmente darci l’idea di come funzioni mentali evoluzionisticamente decisive come quella del Sé e della coscienza di ordine superiore (per dirla alla Edelman) possano emergere concretamente dal cervello senza essere localizzate in un luogo particolare…Lo studio delle stesse connessioni cerebrali e delle caratteristiche della coordinazione di un vasto insieme di neuroni (ensemble) sembra spiegarci che da quell’insieme nasce qualcosa di più della somma delle loro singole funzioni …"[5]

    Ho voluto riportare buona parte dell’articolo di Farina poiché ritengo che la sua analisi sia, pur rispettando il fisicalismo, meno irriducibile rispetto alle tesi di Benini, il cui riduzionismo, senza via di scampo, sembra ridurre la persona ad individuo, spogliato pertanto di ogni sua humanitas.

    Personalmente rifacendomi al SEIOME non posso poi che condividere l’impostazione di Farina, dal momento che si sovrappone agevolmente il Sé al network cerebrale, l’Io ai network analysis e infine il Me come la risultanza del riflettersi dei contenuti su se stessi.

    Del resto l’ipnosi sembra venirci in aiuto, nel senso che se la tesi avanzata da Benini fosse vera, allora ogni suggestione ipnotica troverebbe, in qualunque forma e contenuto venisse formulata, una corrispondente, stereotipata risposta da parte di ogni individuo sottoposto a ipnosi.

    Ma ciò non accade: la risposta è tipica per ognuno dei pazienti ipnotizzati e, cosa importantissima come testimonianza a favore di un superamento del rigido riduzionismo di Benini, non è possibile attivare un comportamento che contrasti con la morale del soggetto sottoposto a ipnosi. Così il concetto di persona trova la sua migliore realizzazione proprio in quell’interpretazione delle neuroscienze che conclude che: dall’insieme delle estese connessioni cerebrali nasce qualcosa di più della somma delle loro singole funzioni[6].

    L’ipnosi è un’esperienza intuitiva, intesa come forma di apprendimento globale, che scaturisce da una riorganizzazione delle esperienze passate, una vera e propria esperienza conoscitiva totale, fondamentale per la comprensione del malato, poiché la sola conoscenza del suo mondo relazionale non realizza la comprensione di quel messaggio che è presente in ogni sofferenza umana.

    Il disadattamento è l’incapacità di dare vita ad una condizione di equilibrio con il proprio ambiente; un Io in-autentico, falso, come lo definisce Laing, è alla base della disadattatività, in quanto non vengono riconosciuti i bisogni propri del bambino, quanto piuttosto soltanto quelli dell’ambiente adulto di appartenenza: leggi genitoriale.

    Il Me non si sviluppa come soggetto, ma come assoggettato, donde il necessario intervento ipnotico nello svolgere una funzione prettamente terapeutica quale rinforzo dell’ Io, per dare vita alle migliori condizioni per la realizzazione del Me.

    A tale proposito Scilanga: "…Tu sei ora così profondamente rilassato…così profondamente addormentato…e la tua mente è diventata così ricettiva a ciò che io dico…che ogni cosa che dirò sarà recepita nel tuo inconscio... E susciterà un’impressione profonda e duratura... E poiché queste cose rimarranno nella parte inconscia della tua mente... Quando non sarai più qui con me... Continueranno ad esercitare la stessa profonda influenza... Sui tuoi pensieri... Sulle tue sensazioni... E sulle tue azioni... Con la stessa forza... La stessa certezza... La stessa efficacia ... Quando sarai di nuovo a casa o al lavoro, come quando sei con me in questa stanza...

    Tu se ora così profondamente addormentato... Durante questo sonno profondo ti sentirai fisicamente più forte e più preparato in ogni senso... Ti sentirai più vigile... Più attento... Più energico. Ti affaticherai molto meno facilmente... Ti stancherai molto meno facilmente…ti scoraggerai molto meno facilmente…Ogni giorno sarai così profondamente interessato a tutto ciò che stai facendo…a tutto ciò che sta accadendo intorno a te…che la tua mente sarà completamente distolta dai tuoi problemi. Non penserai più così tanto a te stesso…non farai più così tanta attenzione a te stesso e ai tuoi problemi e diventerai molto meno conscio di te stesso…molto meno preoccupato di te stesso e delle tue sensazioni…Ogni giorno i tuoi nervi diventeranno più forti e più saldi…la tua mente più calma…più lucida…più tranquilla. Ti preoccuperai molto meno facilmente…ti turberai molto meno facilmente…ti agiterai molto meno facilmente…ti turberai molto meno facilmente. Sarai in grado di pensare con maggiore chiarezza…potrai concentrarti con maggiore facilità. Riuscirai a dedicare la tua totale attenzione a qualsiasi cosa intraprenderai, escludendo tutto il resto…La tua memoria migliorerà rapidamente e tu riuscirai a vedere le cose nella loro giusta prospettiva…senza esagerare le difficoltà…senza permettere a queste di acquistare una importanza sproporzionata. Ogni giorno diventerai più calmo emotivamente…molto più posato…meno facilmente turbabile. Ogni giorno diventerai e rimarrai completamente rilassato…ogni giorno meno teso…sia mentalmente che fisicamente. Giorno dopo giorno svilupperai una maggiore fiducia in te stesso …maggiore fiducia nelle tue capacità di fare tutto ciò che puoi fare…senza paura di fallire…senza paura delle conseguenze…senza ansie inutili…senza inquietudini. Per questo motivo ogni giorno ti sentirai sempre più indipendente…più in grado di difendere te stesso…di camminare con le tue gambe…di avere le tue opinioni e di mantenere le tue posizioni…indipendentemente da quanto le cose possano essere difficili o penose. Ogni giorno proverai una maggiore sensazione di benessere personale…una maggiore sensazione di sicurezza personale e di stabilità. E così ti sentirai molto più felice…molto più soddisfatto…molto più ottimista in ogni senso[7].

    L’ipnosi è dunque un processo di apprendimento, dove il termine induzione viene a indicare il passaggio dalla realtà del quotidiano ad una nuova dimensione dell’intrapsichico, che, tradotto in termini filosofici è il transitare dal particolare del mondo all’universale dello spirito: …L’induzione man mano che procediamo nel campo ipnologico emerge come l’unico concreto processo di formazione della relazione ipnotica…[8].

    L’ipnosi è esperienza terapeuticaumana, perché esalta la persona attraverso i suoi migliori modi di pensarsi come tale.

    L’ipnosi realizza il kairòs, l’armonia del proprio essere persona, esorcizzando ogni falsa concezione del proprio esserci heideggeriano, proiettandolo su nuovi orizzonti di senso in cui ogni aspetto del reale viene scomposto per essere poi riprogettato alla luce della propria interiorità: riscoperta.

    L’ipnosi risulta quindi una forma di conoscenza della coscienza, perché si dà vita ad una nuova visione del Sé …In cui la componente intuitiva Io interagendo con simboli e metafore, apre nuovi orizzonti di senso su cui convergeranno le nuove forze, le nuove energie, le nuove risorse liberate nel corso dell’esperienza ipnotica[9].

    L’ipnosi parla alla mente inconscia, così come il dolore nasce alle radici della carne del nostro inconscio collettivo.

    L’inconscio è la nostra carne più profonda, non c’è angolo del nostro vivere quotidiano dietro cui non vi sia la presenza, l’ombra, del dolore: come ho un braccio, fatto di pelle, muscoli, nervi, così ho il dolore, che si fa su quella pelle, su quei muscoli, su quei nervi.

    Eccoci quindi nel capitolo V a parlare del dolore non ancora come fisiologia, su cui ovviamente non potremo non soffermarci più a lungo, ma come pena, ovvero castigo, quando al corpo viene impedito di esperirsi come piacere, peraltro la sua naturale finalità, e resta solo l’esperienza della sofferenza[ai1].

    Il latino poena implica una punizione definita sulla base di precise disposizioni di fronte al venir meno di quanto unanimemente stabilito e accettato: il dolore è poena, la sofferenza è poena e storicamente ad essa si ascrive il contenuto di un essere venuti meno, la malattia è poena, perché si è contravvenuto alla norma.

    Alla poena non possiamo sfuggire: tutti in un modo o nell’altro, prima o poi siamo destinati a incontrarla, per cui se ad essa non possiamo rimediare, almeno sui suoi effetti possiamo intervenire; ci è concessa la facoltà di agire sulle sue componenti più devastanti.

    Grazie alle sempre maggiori conoscenze sulla fisiologia del dolore (e qui entriamo nel tema fin dagli inizi del capitolo VI), avremo modo di distinguerne le varie tipologie, poiché, purtroppo, non esiste una unica forma ed un’unica modalità espressiva della sensazione dolorosa. Entreremo a contatto con il dolore oncologico, la sofferenza prodotta dalla massa tumorale, dalla chemioterapia, dalla radioterapia.

    L’intervento ipnotico non è soltanto un’esperienza clinica che viene rigidamente ad incanalare l’esperienza terapeutica in modo diadico: paziente-terapeuta, ma si inserisce in un contesto più ampio, quello dell’ambiente familiare.

    Le induzioni ipnotiche non si vengono infatti a formulare soltanto sulla base dell’esperienza dolorosa in sé, come risultante strettamente fisiologica, ma anche si lavora con il paziente per individuare tutte quelle distonie relazionali che indirettamente contribuiscono a mantenere viva l’esperienza dolorosa in un tempo più prolungato.

    Quindi l’ipnologo, indagando sulle difese e gli stili di coping operati dal paziente, avrà modo di intervenire su quelli più disfunzionali, come altrettanto potrà meglio intervenire nell’invitare la famiglia a dare vita a modelli relazionali diversamente da quelli fino a quel momento utilizzati, forieri della disfunzionalità e spesso anche corresponsabili della cronicizzazione del dolore stesso.

    La persona malata in genere risulta più debole anche psicologicamente, ma non è detto che sia sempre fissa la relazione malato = debole e sano = forte.

    Può infatti accadere che il malato si trovi a fronteggiare non solo la propria malattia ma anche la reazione patologicadel congiunto che attiva una risposta difensivo primitiva, veri e propri meccanismi di difesa primitivi atti ad arginare l’angoscia che può investire uno o più membri della famiglia.

    Il malato si trova quindi a dover annullare il proprio stato di malattia, dove la risultante dolore resta come unica modalità espressiva, testimonianza dell’esistenza della malattia, perché non venga cognitivamente annullata, il che rappresenterebbe un grave pericolo per la stessa sopravvivenza, poiché si eluderebbero della malattia anche le cure più essenziali, pertanto il dolore rimarrebbe come memento, ovvero ricordati che sei malato quindi ti devi pur curare.

    Ma poiché il dolore ha soggettivamente una soglia, quindi la sua espressione può essere esternamente modulata a seconda del necessario mantenimento dell’equilibrio familiare, ecco che per evitare sentimenti di angoscia nei propri cari il malato si presenta con un’immagine di sé non malata, onde per cui l’ipnosi, attraverso adeguate metafore, può scaricare il soggetto dal peso che assolutamente intende portare su di sé.

    La malattia oncologica disunisce l’unità del proprio Sé corporeo, ma può avere anche il potere di disunire l’unità familiare, perché porta all’evidenziazione della vera natura dei legami familiari.

    La rivisitazione di tutte le priorità che caratterizzano l’ambito familiare può dare come risultanza la ridefinizione delle condizioni di funzionamento originario, per dare vita a un cambiamento dei modelli relazionali abituali.

    L’ipnosi può pertanto intervenire col favorire un procedere verso il nuovo modo di relazionarsi fra i singoli membri della famiglia più adeguato agli stili di coping che non agli obsoleti meccanismi di difesa, soprattutto mettendo il malato nelle condizioni di fronteggiare in modo non più disfunzionale i primitivi meccanismi difensivi di ogni singolo membro.

    Così nel capitolo settimo ed ottavo si prendono in esame e si monitorano le reazioni del malato e dei familiari di fronte alla malattia in ogni sua fase, dalla sua gestione a partire dalla diagnosi fin nella sua fase di terminalità.

    Con il capitolo nono entriamo nel cuore della malattia attraverso l’anima del malato così come il capitolo successivo, il decimo, ci introduce nell’orizzonte di morte, affrontandone i nodi emozionali che emergono, preparando il malato ad un trapasso che sia il più sereno possibile. È necessario a questo proposito tenere conto che il paziente stesso non sempre è realmente al corrente dello stato di avanzamento e ineluttabilità della malattia, [ai2]ma anche che la famiglia superstite necessita di una rielaborazione cognitiva dell’esperienza morte.

    L’intervento ipnositerapeutico non consiste in un modello applicativo standard, quanto piuttosto è indispensabile la conoscenza di più strategie terapeutiche, soprattutto a seconda che ci si trovi di fronte ad un malato donna o uomo, ad un adolescente, e infine ad un bambino: gli stili difensivi e di coping sono ovviamente ben diversi gli uni dagli altri.

    Così il capitolo XI approfondisce la relazione fra il tipo di patologie cancerose e l’emergere dei disturbi psichici a esse correlati e quanto la malattia influisca sulla qualità della vita di coppia, soprattutto con ricadute negative sul versante della relazione sessuale della stessa, nonché il non trascurabile manifestarsi di processi depressivi soprattutto nel maschio rispetto al pari stato di sofferenza in cui si viene a trovare la donna.

    Con il capitolo XII entriamo nel vivo dell’intervento ipnoterapeutico, il dialogo diretto con il dolore, come esso si muova fisiologicamente e cosa sommuova psicologicamente; come l’agire sul dolore significhi prima di tutto intervenire sull’esperienza dolorosa, per cui ancora una volta viene ribadito il postulato che non può applicarsi una procedura ipnoterapeutica in maniera indifferenziata.

    Nel capitolo XII si parla della preparazione del paziente all’esperienza ipnotica e il relativo procedersi in cui le prime suggestioni sono finalizzate a risvegliare nel soggetto una conoscenza del proprio corpo perché si dia vita ad una rilettura delle proprie sensazioni.

    Il dolore non è una esperienza tout court unitariamente indifferenziata, ma è rappresentato da una dimensione sensoriale, cognitiva, emozionale, per cercare di evitare che il proprio essere persona venga schiacciato sotto il peso di una malattia che sottrae ogni orizzonte di futuro.

    Perché di nuovo? è la domanda intrisa di rabbia e sofferenza che risuona dalla più profonda interiorità di chi rivede riaffacciarsi lo spettro della morte, perché di questo si tratta: di essere questa volta impotenti di fronte al riemergere della malattia, non sopportarne più i rituali clinici, la fatica delle cure, l’inutile speranza delle attese.

    Il capitolo XIV è perciò breve, perché rispecchia la brevità del proprio orizzonte di vita, fatto ora più di ansie che di aspettative, più di angosce che di speranze, più di depressione che di nuovi orizzonti di senso.

    Ma se il paziente sembra oramai cedere alla vecchia/nuova malattia, non altrettanto succede a chi è chiamato a condividerne l’andamento, per cui nel farsi carico del contenerne l’ineluttabile reazione depressiva, si continua a lavorare in modo ancora più approfondito sull’emergere del dolore, sia fisico che psichico.

    Soprattutto la sofferenza fisica viene sezionata nelle sue più profonde modalità: evidenziandone l’intensità, la profondità, l’estensione si analizza il tipo di pensiero che accompagna il paziente in questa precisa fase, insistendo sull’autoipnosi.

    Come già precedentemente affermato non esiste un intervento standard, per cui l’intervento ideale, che introduce al capitolo XVI, è l’illustrazione di un processo operativo il cui elemento saliente è dotato da un certo grado di elasticità, che ben si adatta tanto alle esigenze tecniche dell’operatore come ai bisogni essenziali del paziente.

    Nel capitolo XVII si esprime nel dettaglio il contenuto di ogni singolo incontro, arricchito delle suggestioni ipnotiche la cui ricchezza di metafore ne permette un uso esteso tale da raccogliere ogni paziente, indipendentemente dal proprio specifico vissuto.

    Sarà poi compito degli incontri successivi dare vita a quei contenuti specificamente costruiti intorno ad ogni singolo vissuto.

    Nel capitolo XVIII vengono affrontate le tecniche di integrazione strategica, come l’EMDR, le tecniche di autoipnosi, che si avvalgono di specifiche tecniche strategiche che garantiscono una veloce dissociazione e un benessere progressivo.

    Il capitolo XIX e XX vedono il malato impegnato nel mantenere vivo ciò che nel corso degli incontri ha appreso e si fa l’esempio di un’induzione ad personam, come meglio si specifica di seguito.

    Attraverso l’uso di tattiche specifiche si istruisce il malato ad acquisire tutti gli apprendimenti finalizzati ad elicitare in se stesso lo stato di migliore rilassatezza.

    Va da sé che questo tipo di intervento vede un paziente ancora vigile, partecipativo, motivato, dal momento che la fase terminale si svolge in una modalità tale da non impegnare il malato in nulla che non sia il semplice, passivo ascolto di ciò che l’operatore viene esprimendo.

    Il capitolo XXI parla dell’induzione ad terminem, in cui tutto ciò che viene verbalizzato, oltre a svolgere la ovvia funzione di alterare la sensazione dolorosa, fa in modo che il soggetto stesso si percepisca come unico realizzatore di un proprio processo autoguaritivo.

    A tale proposito porto come esempio procedure induttive che hanno un valore universale, nel senso che possono essere impiegate in qualsiasi circostanza terapeutica, indipendentemente dal particolare vissuto del paziente.

    Infine una precisazione, in riferimento alla lunga induzione di natura dialogica del capitolo XX, induzione che venne appositamente studiata per un malato terminale a seguito di un tumore al pancreas che si trascinava da poco più di un anno.

    Persona di profonda cultura, essendo riuscito a mantenere una profonda lucidità mentale fin verso gli sgoccioli della propria vita, nel corso degli incontri abituali venne manifestando il desiderio di sperimentare un’induzione filosofica il cui contenuto venne via via ad assemblarsi fino alla sua stesura finale, anche se non completata nei dettagli; essa venne somministrata quattro giorni prima del sopraggiungere della morte e poiché lo lasciai che si era assopito non ebbi modo di sapere quale accoglienza avesse avuto in lui quel lungo dialogo, ma dall’espressione di quel volto disteso, oserei dire sereno, quantomeno non lo deve aver lasciato annoiato a morte, come ebbe ironicamente testualmente a dirmi all’atto dell’induzione ipnotica.

    Una considerazione finale riguarda l’impegnativo lavoro annotativo ad ogni fine capitolo. Non si rivolge ovviamente agli addetti ai lavori, cui non oso spiegare nulla che già non conoscano,

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