Ingemisco
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Book preview
Ingemisco - Mauro Marciani
Mauro Marciani
Ingemisco
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Ingemisco tamquam reus
I.
II.
Culpa rubet vultus meus
I.
II.
Supplicanti parce, Deus
I.
II.
Ringraziamenti
Ingemisco tamquam reus
I.
Un treno corre nell'East Side.
A bordo, un passeggero guarda dal finestrino: fissa così a lungo la notte che sembra non capire come possa restare confinata oltre quella doppia lastra di vetro. C'è qualcosa di buio, nel suo sguardo: un buio acceso, come un'intensa luce senza luminosità. Le sue pupille scrutano la tenebra esterna: forse cercano qualche cosa, forse la evitano. Si sente la testa inondata di pensieri, tempestata di immagini che non riesce ad arginare. Solo poche ore fa era un uomo felice e adesso stenta a riconoscere in quell'immagine speculare un volto che dovrebbe essere il suo: si domanda cosa sia successo, perché è accaduto, in cosa si è trasformato.
Nei sedili accanto, tra le lattine e la cenere di innumerevoli sigarette, spicca il chiarore di un foglio: il contrasto colpisce la sua attenzione e, con un gesto fulmineo e istintivo, lo prende e lo avvicina a sé. Legge un elenco di generi alimentari e le indicazione per una ricetta probabilmente correlata, ma la cosa più importante è che il retro splende immacolato. Proprio quello che gli servirebbe ora, dice a se stesso: fissare su carta i pensieri, farli uscire, guardarli negli occhi anziché sentirli fin dentro le pupille. Si ricorda di una penna che porta sempre con sé e la appoggia sulla pagina bianca. Sta cercando di capire da dove cominciare quando si accorge che è già alla seconda riga.
Mary, amore mio.
Dove sei, ora? Io sto tornando a casa. Sono sull'ultimo treno, quello che taglia la notte. Fuori è così buio che tutte queste luci mi accecano: strade, insegne, palazzi, tutto stona con l'oscurità circostante. Queste lame di luce affondano nel mio finestrino, affondano nei miei occhi. Nei miei occhi che non si stancano mai di guardarti, nei miei occhi che ti guardano ancora.
Ma tu dove sei, adesso? Io lo sapevo, che oggi sarebbe finita per sempre: lo sapevo ancor prima di compiere il simbolico gesto di chiudermi la porta alle spalle. Lo sapevo prima di stringerti e di baciarti, prima che tu mi accogliessi sorridendo e prima ancora di salire le scale, ma a cosa serve ricordarlo? Ne ero cosciente per tutto il tempo in cui il tuo corpo era attaccato al mio e per ogni secondo in cui i nostri respiri si modulavano insieme, ma non mi è bastato. Ecco perché il mio sorriso era così triste, oggi, ecco il perché di quei baci così disperati: la consapevolezza è un peso troppo pesante da portare sulle spalle, e non è facile vivere quando si vede ogni cosa troppo chiaramente.
Ora sono in treno, ed anche qui tutto è fin troppo chiaro. Le luci che rimbalzano dal finestrino mi disturbano. Anche l'illuminazione del vagone è troppo forte, troppo intensa. Tutto sembra così asettico, così impersonale... Se non sentissi lo stridio del ferro sotto di me penserei di essere in un ambulatorio, in una sala d'aspetto: esiste un posto più freddo o inospitale? Forse una camera ardente, l'ultimo capolinea di ogni esistenza. Perché, allora, vedo delle caratteristiche così gelide in questo mondo che ci circonda? La realtà è davvero così impersonale o siamo stati noi a creare un universo dove gli uomini non sono bene accetti da loro stessi? Mi tornano in mente le tue parole, quelle in cui dicevi che proprio questo nostro brutto mondo è in realtà il Paradiso Terrestre. Ma di chi è la colpa, allora, se non sappiamo viverci dentro?
La voce ferma e cortese del conduttore lo colpisce inaspettatamente: «Biglietto, prego,» dice ripetendo una formula antica. Lui, riscosso dal suo rimestare, porge il tagliando. Il conduttore controlla, ufficializza con la sua pinza e solo mentre riconsegna sembra notare il segno di riconoscimento del passeggero: porta la mano alla visiera del berretto, forse omaggiandolo e forse no, gli augura una buona serata e se ne va. Il vagone è deserto e i suoi passi spariscono improvvisi come sono arrivati. L'uomo stringe in mano quell'inutile pezzettino di carta forato e pensa che vorrebbe solo poterla guardare ancora, che vorrebbe solo poter stringere le sue mani di nuovo. Si chiede perché sia dovuta finire proprio così, poi ricomincia a scrivere.
Non mi ero mai illuso che ci saremmo amati fino all'infinito, eppure ci credevo. Eri il mio sole, e la luna, e le stelle che si vedono e che si abbuiano. Regalavi a tutti la luce che scoppiava dal tuo sorriso, ma solo a me rivelavi quella che nascondevi tra le gambe. Tu mi hai insegnato la gioia, e lo sai. Tu mi hai fatto scoprire un mondo nuovo, un universo dove la felicità non è una merce di contrabbando ma un frutto che cresce spontaneo e rigoglioso.
«Per essere felice devi solo allungare la mano.»
Sei stata tu a dirlo, ricordi? Sento ancora la tua voce qui, vicino a me. Sento ancora le tue mani che avvolgono la mia e la avvicinano al giardino proibito, perché quella era la strada da cui si rivelava la gioia. E tu lo sapevi. Io ti lasciavo fare, avvinto da quel