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L'inverno in cui andrea perse il sonno
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L'inverno in cui andrea perse il sonno

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È il 2005, l’anno della “legge antifumo” nei locali pubblici, del rapimento di Giuliana Sgrena, della morte di Terry Schiavo e di quella di Giovanni Paolo II, del referendum sulla procreazione assistita, delle bombe nella metropolitana di Londra, dell’uragano Katrina e delle rivolte nelle banlieues di Parigi.
Tra fatti di cronaca e questioni di bioetica si snoda la storia di Andrea, un giovane anestesista che cerca, a fatica, di preservare l’entusiasmo che l’ha portato a scegliere la professione medica di fronte al cinismo e all’indifferenza dei suoi colleghi più anziani.
Le situazioni cliniche e le scelte morali che Andrea incontra nel suo quotidiano rapporto con la malattia e con la morte, finiscono per ripercuotersi sul suo sonno: Andrea continua a rivivere nei sogni le contraddizioni e le frustrazioni che affronta di giorno e si accorge di aver perso quella spensierata serenità che, in passato, caratterizzava le sue notti.
Cerca conforto in una serie di deludenti relazioni affettive che intraprende sempre con il medesimo slancio, salvo arrendersi, ogni volta, di fronte alle prime difficoltà e senza mai riuscire a vivere una storia sentimentale che lo soddisfi.
Stanco e disilluso Andrea decide di sfuggire all’apatia preparandosi a un’esperienza con un’organizzazione umanitaria in un paese del sud del mondo, ma quando sembra sul punto di portare a compimento questo progetto, si scontra con un drammatico imprevisto che rischia di prosciugare del tutto le sue risorse.
Andrea però non è solo. Accanto a lui ci sono i suoi fedeli amici di sempre e nuove conoscenze.
Viaggiando attraverso la diversità, Andrea acquisirà una rinnovata consapevolezza di se stesso e una maggiore capacità di compassione verso gli altri.
LanguageItaliano
Release dateApr 20, 2014
ISBN9786050301434
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    L'inverno in cui andrea perse il sonno - Luigi Montagnini

    Il vero saggio, come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce… Ricordiamoci che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro.

    Epicuro, Lettera sulla felicità

    Alla strega buona della mia infanzia

    04.01.2005

    Sono ai lati di una strada, vicino alla mia scuola elementare. C’è tanta gente in silenzio, accalcata sotto due file di platani, in attesa che passi una gara ciclistica. Il traffico è stato bloccato ormai da diversi minuti e la strada è deserta. C’è molta tensione, mista a curiosità. In cielo si sono accumulate nuvole nere e poco dopo scoppia un temporale. Sono nervoso, perché sono in moto e odio andare in moto quando piove. Mi ritrovo a guidare su una spiaggia lungo il mare. Le ruote sprofondano nella sabbia, ma riesco comunque ad andare avanti. In lontananza, in cima a una duna, ci sono dei bambini che giocano a palla: quando si accorgono di me si fermano e mi salutano agitando le mani. La spiaggia è lunghissima. Mi risveglio, cioè, non mi sveglio davvero, è nel sogno che mi risveglio, e mi trovo a letto con Carla, una mia ex di tanti anni fa. Io le bacio la pancia, mentre lei ride. Iniziamo a fare l’amore, senza preoccuparci che la mia camera si sta riempiendo d’acqua. Un mio vicino di casa anziano suona alla porta. Ha in mano una scatola di medicinali e si lamenta che sul suo terrazzo sta colando acqua che giunge dal mio appartamento. Io rimango stupito, visto che lui vive due piani sopra il mio. Camminando a piedi nudi in mezzo all’acqua che ricopre il pavimento, mi affaccio alla finestra. In giardino ci sono dei bambini che si tuffano in piscina. Uno di questi sta piangendo perché vorrebbe togliersi il costume, ma sua mamma lo rimprovera in modo brusco dicendogli di guardare gli altri bambini che hanno tutti il costume. In realtà tutti gli altri bambini sono nudi. Io mi avvicino al bambino per consolarlo, ma mi fermano delle persone per parlarmi di cose di cui non mi interessa nulla, fino a che qualcuno mi prende in disparte e mi informa che è morto Fabio. A questo punto inizio a piangere e mi risveglio. Questa volta per davvero.

    Gennaio (domenica 9)

    Andiamo con ordine.

    Il dato certo è che Andrea aveva perso il sonno.

    Non riusciva a ricordare quando fosse successo, ma sapeva quando se n’era accorto: al ritorno da un viaggio in Zambia. Mentre era ancora là, aveva dato la colpa alla meflochina, farmaco antimalarico noto per la sua caratteristica di indurre disturbi del sonno, e all’eccitazione di essere, per la prima volta nella sua vita, in Africa. Durante le ultime serate trascorse in Zambia, il sintomo era stato così pesante che Andrea era arrivato al punto di non voler andare a dormire, per il timore di ritrovarsi solo con i suoi incubi notturni, come un bambino che abbia paura dell’arrivo del buio perché crede che sotto il suo letto si possa nascondere un orco.

    Ma anche quando era tornato a casa e aveva atteso il tempo sufficiente perché il suo sangue si ripulisse dai parassiti della malaria e dai residui tossici del farmaco, il sonno faticava a tornare. Era, sì, svanita la paura di affrontare la notte e Andrea aveva riacquistato la capacità di addormentarsi con estrema rapidità, ma gli era rimasta un’intensa attività onirica: non si trattava più solo di incubi, anzi, talvolta erano sogni piacevoli e avvincenti, ma erano così vividi e realistici che gli sembrava di sperimentare nel sonno la continuazione della vita diurna. Al mattino si risvegliava con le lenzuola e le coperte arrotolate su un lato del letto, stanco e assonnato come se avesse affrontato una giornata di lavoro e con un senso di pesantezza alle gambe che non aveva neanche dopo due ore di corsa. Aveva provato a ritardare il momento di andare a dormire, dedicandosi alla lettura o alla televisione, nella convinzione che più stanco fosse stato, meglio avrebbe riposato. Il sopraggiungere del sonno lo costringeva però a interrompere a metà la pagina di un romanzo o un talk-show da seconda serata e lo faceva precipitare in notti animate da racconti inediti e dibattiti personalizzati.

    Ipotizzando che questa condizione fosse legata a un episodio specifico, magari poco rilevante, ma che per il suo inconscio rappresentava un trauma significativo, aveva preso l’abitudine di appuntarsi su un quadernetto i principali avvenimenti delle sue giornate e i sogni che, al mattino, riusciva a ricostruire, per incrociarli e coglierne gli elementi comuni. Dopo qualche tempo, però, era arrivato alla conclusione che la perdita del sonno non fosse legata a un’unica causa specifica, circostanza che forse avrebbe reso più facile affrontare e risolvere il problema, ma derivasse dalla somma degli eventi spiacevoli e logoranti che nel trascorrere degli anni si erano accumulati, così come accade a buona parte della popolazione adulta.

    Quando era ancora adolescente, si preoccupava di come fare a mettersi insieme a una ragazza. Lo scoprì una sera nello scenario più scontato e scomodo che si possa immaginare: sui sedili di un autobus al ritorno da una gita scolastica. Facilitato da una Adelscott, comprata di nascosto all’autogrill insieme a Lorenzo, si era trovato in bocca la lingua calda e umidiccia di una primina intraprendente, di cui ricordava solo il sapore di fragola. Quella stessa notte, da solo nel suo letto, a quei tempi ancora più innamorato che eccitato per quel timido scambio di saliva, aveva cercato di ripercorrere le fasi che lo avevano introdotto nel nuovo status di fidanzato, riuscendo a determinarne solo il risultato: un bacio. Come spesso capita nelle avventure sentimentali sbocciate nella pubertà, il loro rapporto si era rotto dopo pochi giorni, con una lapidaria comunicazione scritta col pennarello fucsia su una pagina strappata da un diario e recapitata ad Andrea dall’amica del cuore della ragazza dal gusto di fragola.

    Nonostante la cocente delusione, col passare degli anni il bacio aveva continuato a costituire per Andrea l’elemento di consapevolezza di ogni nuova relazione. Adesso, a trentadue anni, aveva perso il conto dei baci che aveva potuto scambiare. Certo, il fatto di avere avuto più ragazze aveva accresciuto anche il numero di baci accumulati, per quel meccanismo paradossale legato al consolidamento delle relazioni amorose per cui ci si bacia soprattutto all’inizio di una storia e poi, più ci si conosce, meno ci si bacia.

    In ogni caso, così come per il suo primo, seppur breve, fidanzamento, era successo anche per i sogni. Una notte, coricato nel suo letto, aveva realizzato che non dormiva più come un tempo e che non era in grado di trovare le ragioni di un processo, ma solo di constatarne il punto di arrivo. La perdita del sonno sembrava inoltre un sintomo destinato a perdurare, così come quell’inverno appariva intenzionato a prolungarsi. Va aggiunto che, come spesso accadeva a quella latitudine, anche quell’inverno era molto freddo.

    I quattro amici si erano dati appuntamento da Edo, nome popolare del Brù na Bòinne, l’irish pub più accogliente della provincia. Il nome ufficiale era un omaggio al sito archeologico situato a nord di Dublino, un complesso sepolcrale preistorico tra i più suggestivi dell’Europa occidentale. Edo era invece il soprannome del gioviale e corpulento proprietario, un appassionato della cultura gaelica più genuina che aveva comprato un pub in un piccolo centro dell’entroterra irlandese, lo aveva smontato e ricostruito tale e quale in Italia. A testimonianza di ciò erano rimaste scritte indecifrabili incise sui piani dei tavoli e, nei pannelli di legno che rivestivano le pareti, i fori provocati da qualche avventore ubriaco che, durante le tradizionali gare a freccette, aveva mancato di molto il bersaglio.

    Quello che colpiva appena entrati, nella penombra della luce diffusa dalle lampade appese alle travi annerite dal fumo, erano l’imponente e lungo bancone di legno e una dozzina di sgabelli di altezze diverse lì davanti allineati; dietro il bancone faceva bella mostra una lunga fila di bottiglie di whiskey. Al centro della sala principale c’era un enorme camino di pietra, acceso da novembre a marzo. L’elemento nuovo aggiunto da Edo, di fianco alla lavagna nera su cui scriveva col gessetto bianco i piatti del giorno, era un grande schermo piatto, che trasmetteva le partite di calcio nelle serate di coppa e che rimaneva sintonizzato su qualche canale satellitare di sport, soprattutto rugby, nel resto del tempo.

    Il difetto principale del pub era la scarsa aerazione, particolare che lo rendeva inaccessibile ai bambini e agli asmatici per la densa nebbia che si formava a causa della mole di sigarette fumate, soprattutto nei fine settimana, e che richiedeva il cambio completo degli indumenti, mutande comprese, dopo averci trascorso anche solo il tempo di una pinta.

    Proprio quella sera, però, si stava preparando una rivoluzione culturale di cui nessuno riusciva ancora a immaginare la portata: a mezzanotte, dallo scoccare del primo minuto del 10 gennaio 2005, sarebbe entrata in vigore la nuova normativa contro il fumo nei locali pubblici, la cosiddetta legge antifumo. Nessuno avrebbe più acceso una sigaretta sorseggiando una stout, la scura dal sapore tostato, davanti al camino acceso del Brù na Bòinne. Era questo il motivo del ritrovo dei quattro amici, Margherita, Pietro, Sara e Andrea: fumare l’ultima sigaretta da Edo, tutti insieme, a mezzanotte meno cinque.

    Ci sarebbe dovuto essere anche Fabio, ma, anche quella sera, aveva dato appuntamento contemporaneamente a troppi amici in locali diversi e si era perso tra un aperitivo e l’altro. Questa volta, almeno, aveva avvisato con un messaggino.

    Sono incasinato. Se mi dite dove siete vi raggiungo più tardi.

    — Sì, più tardi… — malignò Margherita, — quando avrà finito con l’amichetta di turno, noi saremo già belli che a letto a dormire!

    — Allora come è andata in Zambia? — domandò Pietro ad Andrea. — Non mi hai ancora raccontato niente!

    — Bene, ci ho lasciato il cuore…

    — Pensavo che il tuo cuore fosse rimasto qui… — commentò Sara.

    — Sara, non ricominciamo…

    — Dov’è che eri? — li bloccò subito Pietro.

    — A Kafue. È a sud, a metà strada tra Lusaka e il confine con lo Zimbabwe, in un ospedale del governo, ma gestito da un’organizzazione religiosa.

    — E come sono messi?

    — Dovresti vedere le foto dei bimbi, una tenerezza! Non ce n’era uno che avesse una maglietta senza buchi… — cercò di recuperare Sara.

    — … sì sono molto poveri. Fino agli anni Sessanta avevano le miniere di rame, ma come sempre la ricchezza è rimasta nelle mani di pochi. Poi il prezzo del rame è crollato e ora sono uno dei paesi col maggior debito pubblico al mondo.

    — E perché proprio in Zambia?

    — È stato Bruno che mi ha messo in contatto con la dottoressa olandese che dirige l’ospedale…

    — Bruno…?

    — Ti ricordi di Bruno? — intervenne Margherita. — È quell’infermiere del pronto soccorso che hai conosciuto quando sei venuto per fare la radiografia al ginocchio? Quello bravissimo!

    — Sì, sì, certo!

    — Di fatto è stata una sua idea…

    — Sì, per farti cambiare aria prima che uscissi completamente di testa! — aggiunse Margherita.

    — E prova a dire che non ha funzionato — esclamò Andrea. — Comunque è un paese abbastanza tranquillo, almeno dal punto di vista politico, senza guerre o rivolte in atto. Sono solo molto disastrati.

    — E hai lavorato?

    — Poco, più che altro ho guardato. Sono molto restii a concedere permessi di lavoro, io avevo un visto turistico. Comunque già essere stato là e aver toccato con mano in che condizione si trovano è stato molto utile, almeno per me.

    — E adesso? Hai intenzione di ripartire, mi ha detto Margherita — proseguì Pietro.

    — Sì, mi piacerebbe molto. Di posti dove c’è bisogno ce ne sono un sacco, vorrei solo trovare l’organizzazione giusta.

    — Lì a Kafue non ti piacerebbe?

    — Boh… sì, mi sono sembrati molto seri, ma hanno solo reparti medici, io invece vorrei un posto con qualche progetto chirurgico… magari in una situazione di emergenza…

    — Potresti partire per l’Indonesia…

    — No, ti prego, lo tsunami no! — intervenne Sara.

    — Beh, non sarebbe male! — rispose Andrea, facendo finta di non sentire.

    — Abbiamo visto il telegiornale prima di uscire, sono migliaia di morti… — commentò Margherita. — Temo che ormai abbiano bisogno più di becchini che di anestesisti…

    Margherita non immaginava che il bilancio definitivo delle vittime causate dallo tsunami del 26 dicembre 2004 sarebbe arrivato a più di trecentomila.

    — Hai già in mente qualche organizzazione? — riprese Pietro.

    — Sì, ce ne sono un paio che mi sembrano interessanti. Nelle prossime settimane mi dò da fare per contattarle…

    — E per la lingua? Parlano inglese, giusto?

    — Lasciamo perdere…

    — Dai raccontagli delle rape! — esclamò Margherita.

    — Rape? — chiese Pietro.

    — Mmh… allora… — iniziò Andrea, — L’antefatto è che quando ero piccolo ho scommesso con mia sorella che riuscivo a mangiare delle rape crude: non ti dico quanto sono stato male, ancora adesso solo a pensarci mi viene da vomitare. Beh, il primo giorno che sono a tavola a Kafue la cuoca, mentre porta in tavola un piatto di pasta preparato in mio onore, mi chiede se c’è qualcosa che non posso mangiare. Io davanti a tutti rispondo che mi piace tutto a parte le rape, because, when I was a child, I abused of crude rapes…

    — Dimmi che non è vero… — scoppiò a ridere Pietro.

    — Magari… quando la dottoressa mi ha spiegato che cosa avevo detto, volevo scomparire…

    — Io non ho capito — disse Sara.

    Abuse vuol dire maltrattare — spiegò Margherita, — crude vuol dire rude e rape stupro…

    — … non vi dico come mi hanno guardato… mi sa che metterò in conto anche di ristudiare l’inglese, magari mi iscrivo a un corso intensivo a Londra…

    — Di Londra non mi avevi parlato… — piagnucolò Sara.

    — Ma sì, te ne ho accennato quando ti ho parlato del corso di medicina tropicale…

    — Tu non sei normale…

    — Amorino, quando avrò litigato con tutto l’ospedale e non mi vorrà più nessuno a lavorare, ci andiamo anche noi in Africa? — deviò il discorso Margherita.

    — Certo! Apriamo un ospedale ecocompatibile in mezzo alla savana, lo termoisoliamo con le foglie di banano e lo alimentiamo con i pannelli fotovoltaici — rispose Pietro.

    — Bello!

    — Beh, intanto salute!

    — Oh, salute!

    — All’ultima sigaretta da Edo!

    Mentre la band della serata attaccava I can’t be with you dei Cranbierries e le due coppie si apprestavano a ordinare il secondo giro di pinte, suonò il cellulare di Andrea. Era Lorenzo, con voce concitata.

    — Andrea?

    — Ciao! Dimmi! — cercò di urlare Andrea per farsi sentire.

    — Ma che casino c’è?

    — Sono da Edo!

    — Credo che stavolta sia il momento giusto, stiamo partendo adesso da casa…

    — Va bene, arrivo. Ci vediamo lì! — ripose Andrea.

    — Ci siamo — aggiunse poi, rivolto ai suoi amici. Si alzò, diede un bacio a Sara e scappò fuori dal locale, inseguito dalla voce di Sara che gli raccomandava: Fammi sapere qualcosa!.

    Appena Andrea entrò nella stanza trovò Alice distesa sul letto, in penombra, rannicchiata su un fianco. Sembrava quasi stesse dormendo, ma ogni tre minuti si irrigidiva, stringeva le mani di Lorenzo e iniziava ad ansimare, con gli occhi chiusi. Andrea appoggiò una mano sulla spalla di Lorenzo.

    — Ti prego, Andrea, fai qualcosa! — gli disse Alice appena lo vide.

    Il travaglio questa volta era ben avviato. Alice e Lorenzo, allarmati dai primi dolori, si erano già recati in ospedale il pomeriggio, ma le contrazioni erano ancora poche e il ginecologo di guardia aveva deciso di rimandarli a casa, prevedendo che sarebbero potuti tornare a distanza di qualche ora. Così era stato e, a mezzanotte, Alice era arrivata in sala parto. Aveva cercato di resistere: era il suo primo parto e ci teneva a viverlo in modo naturale, ma, stremata, si era convinta a richiedere l’epidurale per il parto.

    Andrea, anche se quella sera non era reperibile, voleva essere presente e rendersi utile per ciò che poteva fare. Sapeva che, se qualcosa fosse andato storto durante il parto, non si sarebbe mai perdonato di non esserci stato.

    Indossò il camice e i guanti sterili e si mise a preparare tutto il materiale occorrente. Si soffermò un attimo per osservare il dorso di Alice che si muoveva al ritmo del respiro. Era molto sensuale, di una pelle chiarissima, resa ancora più eccitante dalle piccole lentiggini che andavano via via aumentando verso le spalle. In altre situazioni sarebbe potuta essere una schiena da accarezzare e baciare, se non fosse stato che Alice era una donna che stava per partorire, che era la moglie di uno dei suoi migliori amici e che, per quanto bella, ad Andrea risultava insopportabile.

    — Alice, sono pronto per iniziare — disse Andrea. — In qualsiasi momento ti arrivi una contrazione avvisami, che io mi fermo e aspetto che passi.

    Il tono era quello deciso, ma calmo e rassicurante, che Andrea aveva imparato ad utilizzare in quelle situazioni, quando era necessario che le donne rimanessero rilassate, senza movimenti improvvisi.

    Intanto che eseguiva la manovra, alzò gli occhi e incontrò quelli di Rebecca, che stava assistendo Alice.

    — Sei fortunata, Alice — commentò Andrea, — sei seguita dall’ostetrica migliore dell’ospedale… ancora pochi istanti… sono a buon punto… Brava, è andato tutto bene. Tra pochi minuti farà effetto e vedrai che sarà tutta un’altra cosa. Vi lascio soli, io sono qui fuori. Per qualsiasi cosa fatemi chiamare — aggiunse poi togliendosi il camice e i guanti.

    Lorenzo accompagnò Andrea fuori dalla stanza.

    — Grazie, sono contento che tu sia qui — gli disse.

    — Ma ti pare? Per una volta che posso mostrarti come occupo il tempo quando sono al lavoro?!

    Si abbracciarono e poi Lorenzo tornò nella stanza di Alice.

    Erano amici da tanti anni, Andrea e Lorenzo. Si erano conosciuti tra i banchi del liceo dove erano diventati presto compagni inseparabili. Il secondo giorno del primo anno, l’insegnante di geografia, per facilitare la conoscenza dei nuovi studenti tra di loro e per aiutarli a formarsi un metodo di studio che fosse più maturo e responsabile di quello utilizzato alle scuole medie, aveva accoppiato gli alunni secondo l’ordine alfabetico, affidando a ogni coppia una ricerca sull’estrazione e il commercio di un minerale diverso. Il caso aveva voluto che essendo assente Tiziana Sartorelli, che peraltro nessuno conosceva e sulla cui assenza prolungata si sarebbero diffuse nei giorni successivi voci improbabili, Andrea Ricci e Lorenzo Tassi, a quel punto vicini nel registro di classe, si fossero ritrovati a formare la coppia dello stagno. Così, rinchiusi nella biblioteca pubblica, sulle miniere di cassiterite della Malesia, era nata la loro amicizia. Pur condividendo gli stessi ideali e lo stesso entusiasmo per la partecipazione studentesca e l’animazione culturale della scuola, erano in qualche modo opposti e complementari: più propositivo e istintivo Andrea, più riflessivo e pacato Lorenzo; più aggressivo, intransigente e solitario Andrea e più dolce, amabile e socievole Lorenzo; longilineo e nordico Andrea, robusto e mediterraneo Lorenzo; juventino Andrea, interista Lorenzo. Così erano rimasti, anche negli anni a seguire. Si erano dovuti separare durante gli anni dell’università, quando Andrea aveva scelto Medicina e Lorenzo Economia, ma erano rimasti un punto di riferimento l’uno per l’altro. Anche ora, adulti e professionisti, continuavano a confidare nell’aiuto e nella comprensione reciproca.

    Una tematica costante del loro rapporto erano le donne, almeno fino a quando Lorenzo aveva conosciuto Alice. Andrea era attratto dalle ragazze colte e brillanti che frequentava Lorenzo, senza peraltro mai oltrepassare oltre il confine dell’amicizia: non avrebbe mai potuto sedurre una fidanzata del suo amico. Da parte sua, Andrea si circondava di ragazze appariscenti e problematiche, con cui potesse

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