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ROMA KAPUTT MUNDI
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ROMA KAPUTT MUNDI

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2012. L'antico calendario maya sta esaurendo i suoi giorni, la minaccia dell'apocalisse incombe, disastri e disgrazie paiono confermare una imminente fine del mondo. Eppure era tutto già scritto in un documento, inviato a Roma da uno zelante missionario delle Americhe, rimasto accidentalmente nascosto per tre secoli nelle segrete stanze del Vaticano. Ma quali altre notizie vi sono state occultate? Ed è possibile scongiurare un evento celeste che sembra inevitabile?

Forse la risposta è contenuta proprio in quel misterioso manoscritto indigeno chiamato Popol Vuh, tra i disegni cifrati di una sorta di "bibbia" maya. Ed è così che sulle tracce del prezioso documento si ritrovano un libraio romano, un'avvenente brianzola dalle strane percezioni, un fotografo pronto a tutto e un gesuita senza scrupoli. Nell'arco di sei secoli l'avventura mette in scena personaggi del passato e del presente: monsignori, banditi, "kazzenger" televisivi e confratelli di deliranti sette cabalistiche. Sono i protagonisti di una vicenda ambientata tra l'Italia e il Centroamerica, che scandisce la fine dei giorni e la disperazione di un mondo all'epilogo: la profezia sta per compiersi e la civiltà trema, strenuamente appesa a un'ultima speranza...
LanguageItaliano
PublisherCarlo Animato
Release dateApr 12, 2012
ISBN9781471654800
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    ROMA KAPUTT MUNDI - Carlo Animato

    Carlo Animato

    Roma kaputt mundi

    2012 D.C.

    NELLE CARTE SEGRETE DEL PAPA

    LA PROFEZIA DEI MAYA E LA FINE DEL MONDO

    ROMA KAPUTT MUNDI

    (C) Carlo Animato. Tutti i diritti riservati

    Copertina di Mario Di Meglio

    Impaginazione a cura di Matteo Poropat (eBookAndBook.it)

    All’amore e alla conoscenza.

    Sogno. Incontro. Libertà.

    Loq’oq’eh amaq’el.

    C′ä c′ä tz′ininoq, c′ä c′ ä chamamoq, cätz′inonic,

    c′ä cäsilanic, c′ä cälolinic, c′ä tolon-na puch upacah.

    Uae′ c′ate′ nabe tzih, nabe uch′an. ¹

    (Popol Vuh, antico codice maya)

    Nulla finisce per sempre.

    0

    Chichicastenango (Guatemala),

    venerdì 21 dicembre 1708 a.D.

    (12.4.11.10.6 data maya)

    Bianco, giallo, rosso, nero.

    Sotto un cielo che promette tempesta, quattro uomini si fronteggiano, muti e ondeggianti. Sono eroi. Hanno abiti dai colori diversi, sombreri in testa e penne arruffate dal vento dispotico dell’altopiano. Hanno sguardi audaci, muscoli scattanti, cuori indomiti ma nessun sorriso. Dinanzi alla parrocchia di Santo Tomás, eccitata e vociante, la folla li incoraggia per la sfida annuale, che si svolge al centro della piazza, dove è stato innalzato un tronco gigantesco alto trenta metri. Questo palo volador rappresenta gli spiriti dell'aria e i signori della terra, e la sua ombra minacciosa sulla facciata candida della chiesetta spagnola è quasi una sfida. È l’incombente presenza dei vecchi dèi, che il dio unico venuto d’oltreoceano non ha mai eliminato davvero.

    Gong, tamburo, flauto, sonaglio.

    I suonatori percuotono, sfregano, soffiano, tintinnano. A polsi e caviglie, i danzatori hanno legato bozzoli di farfalle seccati e riempiti di ghiaia. In disparte, poco più in là, l’anziano del villaggio resta immobile nel vento. I suoi occhi piccoli sono pozzi infossati dentro il reticolo di rughe che segna il suo volto di pietra. Annusa la bufera e attende.

    Sull’orizzonte s’accendono e spariscono fulmini, capillari pulsanti sulle guance del cielo, quando fa la voce grossa. Il vecchio non teme le nuvole nere né i tuoni, perché nulla si può rimandare, mentre le sue labbra appena increspate sussurrano formule silenziose. Quando attraversa il sagrato, con passo autorevole, la gente ammutolisce e gli s’inchina al passaggio.

    Nord, sud, est, ovest.

    In mezzo alla piazza, gli eroi incarnano i figli della divinità che fanno la guardia alle porte celesti dove transita il solstizio, e tutti e quattro proteggono il quadrilatero cosmico. Perché questa festa di piazza è il tributo della comunità ai misteri del firmamento. È imitazione, è preghiera sotto forma di messinscena astronomica.

    Intanto il vecchio contegnoso, dentro il suo abito da cerimonia verde e blu, scruta tra la folla con occhi risoluti. Cerca uno sguardo. Alla fine lo incrocia, seminascosto tra i volti rossi degli indigeni eccitati, ed è quello impassibile d’un bianco. Un bianco senza capelli, con la pelle abbronzata da un sole non suo, e mani delicate, abituate a maneggiare libri e incenso, pane e vino. I due si fissano, muti. Si vanno incontro, nel varco aperto loro dalla folla rispettosa. L’indigeno gesticola e dice qualcosa che si perde dentro il battito dei tamburi, l’europeo replica nella stessa lingua. È una risposta secca, ma sufficiente.

    Rapido, l’anziano indio riconquista il centro della piazza, accanto al palo. Un balzo felino, le mani sui primi pioli piantati nel fusto. Adesso, controvento, sale arditamente verso il cielo, sospinto da centinaia di respiri e occhi neri.

    Fazzoletto al collo, camiciola di tela, brache al ginocchio, sandali.

    Il calvo resta col fiato sospeso e ammirando l’agilità dell’altro, rimugina lo stesso pensiero di ogni anno: che un’impresa simile non gli riuscirebbe mai, che gli mancano fiato, forza, equilibrio. Meno male che il suo Signore non richiede prove fisiche di quel genere ai propri pastori d’anime! I cieli narrano la gloria di Dio, dice il Salmo. Ma non bisogna precipitarsi lungo un palo per poterlo dimostrare...

    Ora l’uomo vorrebbe restare a godersi lo spettacolo, ma non ha tempo né può rimandare. Deve dare voce al segreto che l’opprime. E mentre tutti gli occhi sono puntati verso il palo volante, imboccata una stradina laterale, sparisce dietro una porta. Accesa una candela, getta uno sguardo dalla finestra che s’affaccia proprio sul sagrato. Sul tavolo c’è il necessario per scrivere. Intinge due volte la cannuccia appuntita nella boccetta d’inchiostro. Troppo. Il liquido color seppia cola sul foglio, gli imbratta le mani maldestre. Col fazzolettone terge il sudore e la macchia, poi verga in bella grafia "A Sua Sant...", ma scuote la testa, interrompendosi a metà dell’intestazione.

    «Francisco, non puoi scrivere al Papa in maniche di camicia» sbotta padre Ximénez. Nell’altra stanza si infila una tonaca bianca, cappa e cappuccio neri, poi cintura di cuoio ai fianchi e il rosario pendente da un lato. Adesso che è tutto bardato, secondo regola, è pronto a ricominciare. Adesso è tempo di scrivere a Roma.

    Santità,

    la Bibbia insegna che al compimento dei tempi verrà il giudizio universale. L’arcangelo guerriero piomberà sulle nostre teste di peccatori, mentre udremo dal cielo la tromba dell’Onnipotente che chiamerà alla guerra santa le milizie celesti. Così, all’improvviso, il mondo avrà fine. Tuttavia quel giorno è sconosciuto ai credenti, poiché il Signore ci dice: Vegliate dunque, perché non sapete prima né il giorno né l’ora.

    E se la data, Santo Padre, fosse in realtà già stata rivelata? Se già la conoscessimo con grande anticipo? Sarebbe certo il più grande tesoro di tutti i tempi! Ma cosa direste se il segreto di quest’oro spirituale fosse nascosto proprio tra i pagani che noi cerchiamo di riportare al Vero Bene?

    Così è, Santità. I piani dell’Altissimo, sia fatta sempre la sua volontà, sono imperscrutabili. Eppure io so già quando il Dio degli eserciti darà il segnale d’attacco. Io conosco il momento in cui avverrà.

    Che cosa penserà mai Clemente XI delle sue parole?, si chiede lo scrivente, deponendo la penna accanto al foglio in un attimo di perplessità. Sarà abbastanza convincente? E questa introduzione riuscirà a motivare il pontefice?

    Nessuno conosce queste risposte, naturalmente. Ma di più, padre Ximénez non sa fare. Scrollando le spalle, come infastidito da un pensiero informe, tuttavia minaccioso, il prete verga veloce le ultime parole...

    Sì, Santità, io conosco il giorno in cui arriverà l’Apocalisse, quando per lintera umanità sarà notte e non più mattino. Tutto è riportato nel libro allegato a questa mia umilissima lettera, che adesso rimetto a voi, nelle mani preziose del Vicario di Cristo. Pregate per me, Sommo Padre. Perché se ho peccato, l’ho fatto perché anche Voi, ora, sappiate.

    Amen, amen, amen.

    MANCANO 209 GIORNI ALLA FINE DEI TEMPI...

    Gli uomini non sapevano più dove andare:

    erano gente scura, gente chiara, gente di molti tipi,

    gente di molte lingue, incerti, là ai bordi del cielo.

    1

    Como,

    sabato 26 maggio 2012

    (12.19.19.7.11)

    Un concentrato di emozioni.

    Non avrebbe saputo chiedere di meglio, Vichi Giuliano da Como, giunta stremata alla fine d’un anno horribilis, in cui molti nodi erano giunti al pettine stretto della sua vita. Non che gliene fossero mancate, di emozioni, nell’ultimo periodo: la fine d’un rapporto sentimentale ormai logoro; la morte improvvisa dell’amata nonna, che abitava con lei dentro la vecchia, grande casa di famiglia; la vendita di quest’ultima e il trasloco in un bilocale (nientedichè però vicino al lago più bello del mondo, si diceva per consolarsi)...

    Ora comunque, a trentadue anni, voleva riempirsi i polmoni d’aria nuova. Aria di cambiamento. Spinta da un bisogno quasi fisico di partire, durante una delle sue peregrinazioni dentro Internet, si imbatté in un’offerta perfetta per il suo spirito d’avventura: un concentrato di emozioni, appunto, era la promettente pubblicità di un sito di viaggi on line.

    Due settimane dall’altra parte del mondo, per una vacanza tra Messico e Guatemala, nella antiche terre dei maya, era proprio ciò che le serviva. Cominciò a sognare a occhi aperti, stupefacenti occhi verde smeraldo.

    Vichi aveva sempre sognato di conoscere paesi e genti lontane, ma il più delle volte era stata costretta a rinunciare. Un po’ le era mancato il tempo, un po’ non voleva lasciare sola la nonna, un po’ per il peggioramento della sua vista e un po’ perché il fidanzato, un tipo stanziale, dichiarava sempre parere opposto.

    Troppi po’ uccisero l’asino, ripeteva di continuo nonna Alba alla mansueta nipote, impigliata com’era dentro quei po’ che le limitavano l’esistenza, asfissiandola. Due lettere e un apostrofo che somigliavano a una rete per alici, troppo stretta anche solo per sognare. Vichi sospirò, facendo spallucce. Il tempo dei divieti e dei sacrifici era finito e adesso che era libera, poteva finalmente decidere cosa fare. Un viaggio la prossima estate, innanzitutto. Regolò il magnifier, il programma che le permetteva di ingrandire al massimo il testo sullo schermo del computer, e cercò tutti i dettagli di quella proposta...

    2

    Roma,

    sabato 26 maggio 2012

    (12.19.19.7.11)

    Egitto o Yucatan?

    Desideroso di mare e piramidi, Lorenzo sfogliava pigramente due cataloghi per l’estate imminente, sprofondato nella poltrona e negli interrogativi. Sì, ma con Sara o con Luciana? gli chiedeva la sua frusciante coscienza di scapolo tenace, sempre attenta a non cadere in possibili trappole emotive. Sospirò. Forse sarebbe stato meglio partire da solo, alla volta del Tibet: vacanza, meditazione, ascesi, quella roba lì...

    Intanto la selezione mozartiana riprodotta dal mediaplayer s’interruppe, senza alcun segno di voler riprendere. Lorenzo raggiunse il computer, rianimò il programma e, visto che c’era, smanettò sulla tastiera per cambiare musica. In un istante violini, chitarre, trombe si materializzarono dal nulla, sulle note d’una danza messicana. E nella stanza non ci fu più alcun dubbio, né vittoria per i figli del Nilo, né tentazioni mistiche che non l’avevano mai attratto. Dinanzi al ritmo trascinante della banda mariachi, scatenata nel jarabe tapatío, il dubbio si sciolse come neve al sole. Lorenzo digitò un indirizzo web ed entrò nel forum di un’agenzia di viaggi avventurosi intorno al mondo. Sezione Centroamerica, un visitatore già in linea...

    3

    Como,

    sabato 26 maggio 2012

    (12.19.19.7.11)

    Prezzi, date, documenti, itinerario. Vaccinazione antimalarica consigliata.

    Vichi prendeva appunti per stabilire il dove, il come e il quando. Entrò nel forum riservato al Messico dove un gruppo di alternativi avventurosi, tramite il sito di viaggi senza frontiere, programmavano il loro itinerario.

    Visitate queste terre prima della fine del mondo!, diceva in uno strascicato spagnolo un vecchio sdentato dalla carnagione olivastra e rugosa, sporgendosi da un banner pubblicitario che occupava il fondo basso della pagina. Alle sue spalle, sopra il cappello a falde molli, la data del calendario maya corrispondente al 21 dicembre del dodicesimo anno del duemila: data che, secondo alcuni, era legata alla previsione di una catastrofe planetaria, ovvero a una radicale, rovinosa trasformazione di uomini e cose; oppure che, secondo altri era soltanto l’ennesima conferma della stupidità umana. Una forma di masochismo che cerca (e trova!) apocalissi ovunque, veicolata dai soliti apportatori di premonizioni e sciagure.

    Da almeno quattro anni il mondo cosiddetto civilizzato – sedotto da questo tratto inquietante della cultura maya – si interrogava sulla questione, producendo sull’argomento libri, film, documentari in tv, seminari, forum su internet.

    Fantasie? Paccottiglia?

    Vichi, che non se n’era mai interessata, fece una smorfia e passò oltre. Insieme a lei, quel pomeriggio, il forum contava un altro ospite in linea. Lasciò scritta la sua disponibilità alla prossima partenza; aggiunse qualcosa di estemporaneo, allegro come il suo umore in quel momento. Si firmò vichi32. E andò in cucina a prepararsi un succo di frutta e ortaggi. 

    4

    Roma/Como,

    sabato 26 maggio 2012

    (12.19.19.7.11)

    Nonostante la crisi e le profezie della fine del mondo, voglio andare a respirare aria messicana! era il titolo del post. Otto righe briose. Leggendolo un paio di volte, Lorenzo le rispose senza pensarci su. «Ciao vichi32» commentò in replica, «se me ne lasci un po’, vengo anch’io a respirare lì. A Roma in estate si agonizza, lorenzo40.»

    Quando tornò con un bicchierone centrifugato di sedano, pomodori e asparagi, fu sorpresa di trovare subito una risposta. «Mio caro agonizzante lorenzo40» ribatté, «il Messico si estende su due milioni di chilometri quadrati e affaccia su due mari. Credo ci sia aria sufficiente per entrambi. E anche se gli indigeni sono più di centodieci milioni, sta sicuro che non se ne accorgeranno. Purché tu respiri piano... vichi32.»

    Col solito suo eccesso di pignoleria, Lorenzo controllò su Google i dati snocciolati dalla sua interlocutrice. Erano corretti, tentò l’affondo. «Dopo questa esibizione di geografica sapienza, non potrei trovare nessun’altra guida migliore di te. Anzi ti nomino da subito mia capogruppo ideale per la terra dei maya. È evidente che ci sei già stata e che potrò imparare da te cose che faranno di me un uomo migliore. Vichi sta per?... lorenzo40.»

    «Mammamia, come corri!» Stiracchiandosi tutta, circumnavigò la sedia girevole, poi replicò. «Sono una stanziale, non ho mai messo il naso fuori dall’Europa, ma un abbonamento al National Geographic fa miracoli. Fossi in te, mi sceglierei un’altra badante per questo pellegrinaggio. Vichi sta per Vittoria... vichi32.»

    «È vero, mai disprezzare una buona rivista. Forse che Salgari non ha descritto i suoi lontani mondi esotici senza mai muoversi da Torino? E tu di dove sei, gentile badante dai capelli biondi. O neri? Il mio indirizzo è lorenzogal@gmail.com»

    «Amico mio, come dite voi romani, che fai, ce stai a provà’? Guarda che stiamo parlando di un viaggio da fare in gruppo, mica dobbiamo fidanzarci! Se sei interessato al tour maya anche tu, possiamo parlare dell’organizzazione con più calma. Se ti va, sarò in chat stasera dopo le nove. Ciao.

    Ps: Sto a Como.

    Ppss: Ma nella tua email, gal dopo il nome sta per gallinaccio? :-) vichi32.»

    5

    Pismachi’ (Guatemala),

    venerdì 8 dicembre 1437

    (11.10.16.10.12)

    Tu’kur... tu’kur... Il verso del gufo sorvola il villaggio.

    Xi’r... xi’r... Anche i grilli sono al loro posto, nascosti nel verde.

    Sotz... sotz... In ronda, i pipistrelli perlustrano il circondario.

    È una notte tranquilla per la capitale dei maya quiché. Una notte senza luna, senza vento. Poco lontano, tra i campi di mais, costretto dentro l’antico fossato, il fiume mormora la sua fluida litania. Nelle case fatte di canne, spossati, riposano uomini e bestie, mentre il giaguaro, imprevedibile e solitario, ispeziona i boschi in cerca di preda.

    Ma non tutti dormono. Alle spalle del tempio, nel suo cortile più interno, uomini insonni e indaffarati. Si affannano presso le grandi vasche piene d’acqua limpida che riflettono il cielo, come ogni notte, e sembrano tappeti di lucciole.

    Le braccia sul bordo in muratura, un sacerdote osserva le stelle che si contemplano nello specchio liquido. Naso all’insù, un altro scruta il firmamento attraverso una coppia di bastoni incrociati, segnati da tacche di misurazione. Ogni tanto impartisce un comando secco, cita nomi, aggiunge numeri. Più in là, un terzo uomo, nascosto dietro un muro e illuminato da una fioca luce, li verifica nel manoscritto aperto sulle sue ginocchia. Un libro fatto di geroglifici e segni. Dinanzi a lui, in piccole ciotole, pigmenti naturali colorati. Di tanto in tanto vi intinge uno stecco e con quell’inchiostro aggiunge, cancella, modifica sulla pergamena di cervo.

    Cosa cercano gli scrutatori della notte? Previsioni e conferme nell’ordine perenne del cosmo, spaziando per la volta celeste. Soprattutto si soffermano sulle tre piccole stelle allineate e ben riconoscibili della costellazione venerata sin dalla notte dei tempi.

    Sono tre delle ventiquattro stelle più fulgide del cielo.

    Sono il centro mistico dell’universo.

    Per i vecchi che lo tramandano di generazione in generazione, esse formano la cintura brillante del Gran Cacciatore, il quale attraversa il firmamento in cerca di selvaggina e combatte gli spiriti della morte. Nei racconti delle origini, esse rappresentano anche il focolare di un’abitazione maya: quelle luci sono il luogo da cui provennero i loro padri divini. Sono la porta celeste che, a tempo debito, si spalancherà per ricondurci a casa. Da lì è nato tutto, lì tutti ritorneremo a tempo debito.

    Tu’kur... tu’kur... tu’kur... tu’kur... appollaiati sul muro, in un fruscio nervoso e lamentevole tu’kur... tu’kur... tu’kur... tu’kur... sono apparsi dal nulla due occhi gialli spiritati e malevoli, forse attratti dall’odore d’incenso che sale dal bruciatore e ristagna dolciastro nell’aria.

    Xi’r... xi’r... xi’r... xi’r... il frinire simultaneo s’accresce fanatico xi’r... xi’r... xi’r... xi’r... e trasmette smania. Un insulto alla quiete notturna, fatto di note isteriche e insopportabile agitazione.

    Sotz... sotz... sotz... sotz... ali membranose fendono inquiete l’etere sotz... sotz... sotz... sotz... spinte con forsennato vigore. Graffiano l’aria coi loro artigli, come a volerla dilaniare.

    La pazzia che ha contagiato gli animali della notte non sfugge ai ministri del tempio. Il compilatore ha smesso di scrivere e s’è affacciato all’uscio, perplesso. Il sacerdote accanto alla vasca immerge le mani nell’acqua e bagna gli occhi stanchi, che cercano di indagare nel buio. Quello in piedi lascia cadere i bastoni del calcolo e si strofina il volto, inquieto.

    Tu’kur... Tu’kur... Xi’r... Xi’r... Sotz... Sotz...

    Di botto poi il silenzio, finalmente.

    Finalmente, no. Quasi afflitta da immediata paresi, la natura sta sospesa, ma l’immobilità è innaturale. Niente chiasso, nessun rumore. In questa improvvisa sospensione pare scomparso ogni anelito vitale. Ora gli animali tacciono, le foglie sono immobili sui rami; il fiume sembra vetrificato, e ha perso la voce. Anche l’aria si è come fermata. E in questo attonito arresto del tutto, amplificati dall’anomala quiete, si odono soltanto i respiri affannosi dei tre sacerdoti.

    L’uomo vicino alla vasca viene distolto da una vibrazione appena accennata. Increspata sotto la carezza d’una mano invisibile, l’acqua stagnante comincia a tremare, come animata da un’energia propria, come incapace di restare al suo posto. Sono flutti concentrici, schizzi, zampilli... Il liquido è irrequieto, la piscina lustrale lo vomita fuori dai bordi a piccole ondate e sussulti.

    D’improvviso, come piovuto dal cielo, un suono cupo fende l’aria, rimbomba nei ventri, ferisce le orecchie. E a oscurare le stelle appare una sagoma scura, circolare, che si rifrange dentro l’acqua impazzita, attraversando senza fretta lo spazio sopra le loro teste. Quando quel pezzo rotondo di cielo semovente giunge esattamente al di sopra del tempio, s’arresta e si illumina di migliaia di arcobaleni. Un fascio di luce concentrico illumina a giorno la sommità del tempio.

    Faccia a terra, esaltazione nella testa, sorriso nel cuore, i tre si prostrano sotto quell’ombra maestosa di cielo. Non c’è più paura verso l’apparizione. Sono loro. Sono gli dèi che ciclicamente sorvegliano il tempio, il villaggio, gli uomini. Sono gli antenati tornati a vegliare una volta di più, anche se il tempo dell’incontro, il giorno del ritorno non è ancora arrivato.

    Non ancora, secondo i calcoli.

    Non ancora, secondo la promessa.

    MANCANO 204 GIORNI ALLA FINE DEI TEMPI...

    Sgorgherà sangue dalle piante e dagli alberi.

    Il mare si incendierà e diverrà di pece.

    Nell’acqua dolce si troverà acqua salata.

    6

    Como-Roma,

    chat via Internet,

    giovedì 31 maggio 2012

    (12.19.19.7.16)

    LORENZO40 – Vichi, hai deciso alla fine quale viaggio ti interessa?

    VICHI32 – Mi piace il tour che include Messico, Guatemala e Belize da attraversare tutti in corriera.

    LORENZO40 – Economico e scomodissimo. Perfetto per questi nostri tempi di crisi economica. Alla fine non potrai dire di non aver vissuto come la gente del posto.

    VICHI32 – Dici che sarà troppo duro?

    LORENZO40 – Non per una lacustre abituata a fare trekking fra i monti sopra Como e Cernobbio.

    VICHI32 – Mi prendi in giro...

    LORENZO40 – Macché, ti basterà uno zaino robusto in spalla, attrezzatura minima, cappellaccio in testa, scarpe comode, resistenti e senza tacco a spillo.

    VICHI32 – Sei odioso :-(

    LORENZO40 – Solo pragmatico. Dopo 15 ore di volo e uno scalo intermedio negli Stati Uniti, venti giorni in autobus sembreranno un’impresa da conquistadores!

    VICHI32 – Sarà così per un quarantenne.

    LORENZO40 – Lo è anche per una di 32 anni, fidati.

    VICHI32 – Se lo dici tu. Comunque gli alberghi lungo il tour vengono prenotati prima.

    LORENZO40 – Quante stelle?

    VICHI32 – C’è scritto alberghetti...

    LORENZO40 – Ahia, chissà in quali buchi ci deporteranno! Poche spese, niente comodità.

    VICHI32 – A me così non dispiace.

    LORENZO40 – Se proprio aborri le comodità del decadente capitalismo occidentale...

    VICHI32 – A proposito, chattiamo da un po’ e ancora non so cosa fai nella vita? Io, per esempio, realizzo bijoux. Li creo ascoltando la voce delle pietre.

    LORENZO40 – Come sarebbe?

    VICHI32 – Le pietre, le perle, gli swarovski... hanno una voce e un’anima. Prima li ascolto, poi li metto assieme per farne orecchini, bracciali, collane. E tu?

    LORENZO40 – Libri antichi. Porto avanti lo studio bibliografico creato da mio padre.

    VICHI32 – Bello! Adoro i libri, ma le antichità purtroppo non fanno per me. Costano troppo. E poi sono allergica alla polvere.

    LORENZO40 – Anch’io.

    VICHI32 – :-?

    LORENZO40 – Vaccino, antistaminici, agopuntura. Limito i danni e mi tengo intatta la passione... Hai qualcuno?

    VICHI32 – In che senso?

    LORENZO40 – Adesso che c’è più confidenza tra noi, posso chiedertelo.

    VICHI32 – Ah, in quel senso! No, nessuno, Ma se vuoi candidarti, guarda che ho gusti difficili. Sai com’è, noi donne del lago...

    LORENZO40 – Io Renzo già ci sono, vuoi esser la mia Lucia Mondella e fuggiamo in Messico?

    VICHI32 – Ma non sei tu quello che ha tenuto a farmi sapere quasi subito di essere un single convinto e felice?

    LORENZO40 – Convintissimo, però come si dice? Mai dire mai. Se mi sai prendere per il verso giusto...

    VICHI32 – :-)

    LORENZO40 – È un sì?

    VICHI32 – Forse, signore. Alleghi curriculum e due foto: una del volto, l’altra a figura intera. E le faremo sapere.

    LORENZO40 – Posso sapere quanti pretendenti sono in fila per il posto vacante?

    VICHI32 – Uno, due, tre...

    LORENZO40 – Be’, pochini!

    VICHI32 – ... conta conta fin che ce n’è...

    LORENZO40 – Altri?

    VICHI32 – ... quattro, cinque, sei...

    LORENZO40 – Aumentano a dismisura così!

    VICHI32 – ... sono sette e sono otto, questo fuori e questo sotto...

    LORENZO40 – :-) Vabbè, allora preparo le foto e studio per il colloquio. Tu intanto pensa al viaggio, Vichi. Sempre se i tuoi otto fidanzati permettono...

    VICHI32 – Glielo chiederò :-) Buonanotte Lorenzo, tieni pronto il passaporto.

    (VICHI32 è offline)

    LORENZO40 – ...

    MANCANO 188 GIORNI ALLA FINE DEI TEMPI...

    Subito si seccò la superficie della terra a causa del sole.

    Somigliante a una persona era il Sole quando si manifestò:

    la sua faccia ardeva e non si sopportava il suo calore.

    7

    Orvieto,

    sabato 16 giugno 2012

    (12.19.19.8.12)

    Qui giace

    il corpo di Maurizio Brun.

    Come la copertina di un vecchio libro,

    con le pagine strappate e il titolo dorato rimosso, sta.

    Qui giace, cibo per i vermi.

    Ma la sua opera non andrà perduta,

    perché riapparirà un’altra volta (così egli crede)

    in una nuova e più elegante versione,

    riveduta e corretta dall’autore.

    Dopo averlo letto, il libraio ripose sul tavolino impolverato il cartoncino con l’epigrafe vergata in corsivo.

    «Mio padre, negli ultimi tempi, non ci stava più la testa, signor Gallicchio» commentò Filippo Brun. «Ha visto quale scempiaggine ha voluto che si scrivesse sulla sua tomba?»

    Non c’era rispetto né comprensione filiale in quelle parole. Il commento acido all’epitaffio che il vecchio padrone di casa aveva preparato per la propria lapide schizzò sotto il soffitto ligneo a cassettoni dipinti, al piano nobile di Palazzo Cartari, un edificio rinascimentale nel centro storico di Orvieto, a pochi isolati dalla cattedrale. E restò imprigionato nelle ragnatele della volta del salone, troppo in alto per esser disinfettato da una buona pulizia quotidiana, la quale comunque, a giudicare da quanto si vedeva qua e là, non sembrava avvenire da un po’.

    Posando sullo stesso ripiano la tazzina del caffè appena bevuto, Lorenzo trattenne un moto di fastidio e strinse appena le labbra in un movimento impercettibile. «La scemenza, come la chiama lei, è piuttosto in linea con il carattere del professore buonanima e con il suo smisurato amore per i libri. E poi si capisce quanto amasse Benjamin...»

    «Benjamin chi? Il ficus?» interruppe Filippo, sarcastico.

    «Franklin» precisò l’altro, senza scomporsi. «L’epitaffio scelto da suo padre ricalca pari pari quello dello scrittore americano. Conoscevo bene suo padre, e ricordo ancora la sua gioia quando riuscii a procurargli una prima edizione dell’Autobiografia di...»

    «Franklin chi? Quello del parafulmine?»

    «E del contachilometri, dell’ora legale, delle lenti bifocali, della batteria elettrica...» annuì il libraio. «Scienziato, giornalista, politico e tante altre cose, ma soprattutto uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America.»

    «E magari sperperò anche lui una fortuna in libri!» ghignò l’erede.

    «Probabile, anzi è più che sicuro...» Tanto aristocratico, colto e gentile era stato il padre, pensò Lorenzo, tanto volgare e grossolano si mostrava ora quell’uomo che ne divideva i cromosomi senza condividerne lo stile.

    «Stupidi collezionisti!» ringhiò l’altro, guardando con sospetto le pareti tappezzate di volumi sino al soffitto.

    Seduto in una poltrona di marocchino rosso, investito da quella nuvola d’astio, il visitatore cercò scampo all’insofferenza guardando tra gli scaffali. Una parte di quei volumi li riconosceva già da lì, senza doversi avvicinare più di tanto. Molti li aveva venduti lui. Lorenzo si chiese il perché di tanto livore, sentendosi chiamato in causa come complice della smania del padrone di casa.

    Filippo batteva le sue mani rabbiose contro le scansie. Come fosse vittima d’un attacco isterico, prese a pugni un paio di volumi dedicati alla vita di santi francescani (Lorenzo riconobbe dalla grandezza dei libri in folio, dai dorsi in pergamena e dai titoli dorati una vita di Antonio da Padova e un’agiografia di Chiara d’Assisi), ma alla fine sembrò calmarsi. E non appena cominciò a parlare, a occhi chiusi, sembrò passare in rassegna i fantasmi d’un passato doloroso. Demoni mai placati.

    «Quando lasciò mia madre, avevo dieci anni. Ci deportò in un paese sperduto a qualche centinaio di chilometri da qui. Per lui eravamo solo un fastidio, e voleva continuare a vivere come gli pareva. Lo vedevo una volta all’anno, a Natale. Puntuale come una cambiale. L’assegno di mantenimento mensile, invece, quello era impreciso come la morte di un papa...»

    Il paragone gli strappò un riso amaro.

    «Bella forza, per lui esistevano soltanto questi maledetti!» grugnì. «Sa quante volte gli ho augurato di sprofondarci, sotto una valanga di inutili carte vecchie? Invece niente, se ne è morto tranquillo dentro il suo letto...»

    Magari con un bel libro fra le mani, pensò Lorenzo, che ritenne però opportuno tacere. Il padre di Filippo era stato uno dei suoi clienti migliori e affezionati. Studioso e appassionato di antichità, vantava una quantità impressionante di interessi e curiosità, che nutriva acquistando edizioni rare. Quasi non c’era argomento che non lo interessasse. E se l’espressione un pozzo di scienza potesse avere delle generalità fisiognomiche, avrebbe avuto senz’altro il volto e il nome di Maurizio Brun.

    Ogni primo sabato del mese, poco prima della mezzanotte, a Lorenzo giungeva la telefonata del professore. Quattro chiacchiere sugli ultimi arrivi, qualche nuova richiesta da esaudire, il desiderio di metter finalmente le mani su un pezzo introvabile...

    La loro complicità si nutriva della comune passione per le antiche carte. Nonostante una certa confidenza, però, il libraio non aveva mai saputo dell’esistenza di figli, né tanto meno di quelle miserie famigliari di cui soltanto ora veniva a conoscenza. Che esistesse un erede l’aveva appreso soltanto la settimana prima dallo stesso Filippo, il quale l’aveva chiamato per comunicargli la morte del padre. A inizio telefonata aveva chiarito a Lorenzo di aver trovato il biglietto del suo studio bibliografico in bella vista sulla scrivania del vecchio, accanto alla solita lista di libri esauriti e introvabili.

    «Intuisco che eravate amici» aveva aggiunto, chiedendogli senza troppi preamboli di poterlo incontrare. Non l’aveva detto proprio chiaro, ma da un paio di battute gettate qua e là, il libraio aveva capito subito che il successore era propenso a liberarsi dell’intera libreria paterna.

    La sensazione di scollamento tra padre e figlio, frutto di una vita di incomprensioni e disamore, si stava ora materializzando sotto i suoi occhi. Inutili carte vecchie di un qualche valore aveva detto poco prima, indicando una collana di preziose cinquecentine, e segnandone così il destino.

    «Signor Gallicchio, ho intenzione di vendere l’intera collezione del professor Brun» concluse ora, in modo ineluttabile. «Fra un mese, non appena il notaio avrà letto il testamento e nominato me unico erede, sbrigata ogni scartoffia burocratica, non voglio più in giro per casa neanche uno di questi libri. Aria, aria aria...»

    A Lorenzo sembrò che l’intera montagna di pagine rabbrividisse, sferzata da quel crescendo di aria gelida.

    «L’ho chiamata perché, se le interessa, voglio da lei un preventivo per l’acquisto dell’intera libreria. È il primo a cui mi rivolgo, spero apprezzerà il riguardo che le ho fatto...»

    L’ospite non gli credette.

    Il giorno precedente aveva ricevuto la telefonata d’un collega di Firenze, contattato dall’erede con la medesima proposta. L’affare era notevole, ma senza dubbio oneroso e gli chiedeva se fosse intenzionato a dividersi la spesa a metà.

    Due giorni indietro, un antiquario di Milano gli aveva chiesto informazioni sulla collezione; tre giorni prima, amici comuni gli segnalavano la smania del venditore di chiudere l’affare alle sue condizioni. Tutto e subito, però la cifra richiesta era colossale, e per di più fuori mercato. Improponibile per chiunque.

    Dunque, a ben rifletterci, Lorenzo doveva esser stata nell’ordine la quinta o sesta scelta. E adesso Filippo Brun gli parlava di riguardo!

    «La ringrazio della preferenza» disse garbatamente. «Ma non pensa che, dividendo la collezione in piccoli lotti, potrebbe ricavarne molto di più? Certo, se vuol fare tutto con criterio, l’intera operazione ha bisogno di un po’ di tempo...»

    «Troppo tempo» ribatté l’altro, chiudendo il discorso.

    Era a corto di soldi.

    «Ha provato su Internet?»

    «Anche lei, che tratta anticaglie, viaggia sulla rete?» replicò quello, meravigliato. «Credevo che i tipi come lei e mio padre aborrissero tutto ciò che non puzza di inchiostro tipografico.»

    «Lei giudica i tipi come me con troppi pregiudizi» sorrise pacifico, ma avrebbe voluto dirgliene quattro. Anzi otto, visto quel termine anticaglie usato in modo tanto spregiativo... «La passione per l’invenzione di Giovannino Gutenberg da Magonza non è in conflitto con gli altri mezzi. Su Internet io cerco, studio, imparo, comunico. Vado in chat e mi relaziono nei forum col resto del mondo. Insomma anch’io sono un uomo del terzo millennio, signor Brun.»

    L’altro annuì e tornò all’argomento che più gli premeva.

    «Bene bene, sarà senz’altro così. Intanto signor Gallicchio, proprio per favorirla, le sottopongo il volume su Satana di cui le ho accennato al telefono. Era il libro che stava studiando mio padre, l’ho trovato ancora sulla scrivania quando è morto. Il suo ultimo acquisto, immagino. Se le interessa ancora, mi faccia un prezzo e glielo vendo adesso, qui, subito. E per allettarla, le regalo pure gli appunti al volume che il professore stava buttando giù, questi qui...»

    Aveva un dannato bisogno di denaro.

    Lorenzo inforcò gli occhiali e analizzò il frontespizio. Curiosissimus de Antichristo Liber, stampato a Napoli nel 1712, scritto da Massimo Santoro Tubito. Legatura antica in piena pergamena. Titoli eleganti in oro. Conservazione discreta, qualche macchia di antica ossidazione, alcune pagine finali appena erose dalle tarme. Toccò, odorò, sfogliò. Poi scorse l’indice: una storia dell’Anticristo in nove esaurientissimi trattati. Non ne aveva mai visto uno e aveva tutta l’aria di esser rarissimo. Ne era consapevole anche il suo avido anfitrione? Gettò anche un’occhiata sul manoscritto, riconoscendo la grafia del vecchio Brun e l’inchiostro verde con cui scriveva gran parte delle sue cose.

    Gli fece un’offerta a tre cifre, ridicola per uno appena appena pratico di libri antichi. L’altro lo scrutò negli occhi, il mercante non batté ciglio. Sembravano due giocatori di poker e, come posta, c’era un libro raro vecchio trecento anni. Filippo abboccò al bluff e sorrise. Gli strinse la mano e poi agguantò l’assegno fresco di firma. Decisamente era al verde. Verde come il colore dell’inchiostro nella stilografica paterna.

    L’elegante volume era dedicato al papa Clemente XI. E un bellissimo ritratto del pontefice, eseguito da un famoso artista napoletano, campeggiava a pagina piena.

    «È appassionato dell’Anticristo?» chiese Filippo già più rinfrancato, depositando lo cheque bancario nella piccola cassaforte celata dietro una decina di dorsi librari vuoti, incollati l’uno all’altro.

    «Nel mio lavoro mi interesso un po’ di tutto» rispose cortese l’altro, «e su questa figura c’è sempre molta curiosità, ma anche tanta confusione. Pensi che in un forum su Internet...»

    «Lei frequenta i forum sulla rete?»

    «Forum, blog, chat...»

    «Già, dimenticavo che anche lei vive nel terzo millennio... Ma se apprezza l’Anticristo, perché non va in Duomo a vedersi l’affresco del Signorelli? È famosissimo, lo conosco persino io!»

    Lorenzo, che non aveva voglia di rientrare subito a Roma, pensò fosse una buona idea. Aprì la ventiquattrore metallica e vi depose l’acquisto, brogliaccio degli appunti compreso. Quando si girò per salutare Filippo, l’altro era sparito.

    «Aspetti, non chiuda ancora

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