La Geometria Degli Inganni
By Luca Martini
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La Geometria Degli Inganni - Luca Martini
Lampedusa
Ai miei tempi
Il giorno che amavo di più era il sabato. Mi piaceva il sabato, anche se si andava a scuola lo stesso, e a quell’epoca mi alzavo davvero presto, forse anche troppo.
Mi svegliavo alle seietrentasette, né un minuto prima né un minuto dopo. Andò avanti in questo modo per tutte le scuole dell’obbligo. Mi alzavo così in anticipo perché i miei genitori mi avevano inculcato il terrore di arrivare tardi.
Non si sa mai, può sempre succedere qualcosa. Un contrattempo, uno sciopero degli autobus a sorpresa, una emergenza da affrontare.
La puntualità è una virtù fondamentale.
In tutti quegli anni, però, non accadde mai nulla, e io arrivai a scuola sempre con trentacinque minuti di anticipo, e quel tempo, moltiplicato per tutti i giorni dell’anno per tutti gli anni di studio, mi regalò diversi giorni di pensieri e di sguardi in più che mi portarono in vantaggio su tutti i miei compagni.
Quello che mi piaceva di più al risveglio era l’odore del caffè dalla cucina e la radio di papà nel bagno, perennemente accesa sulla stazione nazionale. Ma quello che mi dava più soddisfazione era svegliarmi dieci minuti prima e restare a coccolarmi tra le lenzuola profumate, tra il sonno e la veglia. Quei dieci minuti erano per me come dieci ore.
Al suono della sveglia mi mettevo sull’attenti, senza indugi, come in una camerata militare.
«Hai preparato i libri? Non dimenticare la merenda nella borsa».
«Certo, signor colonnello, agli ordini, signore».
«Eddài, piantala di fare il cretino e preparati».
Mia madre non aveva un gran senso dell’umorismo e non amava la vita militare. Forse perché faceva i turni di notte alla Sinudyne e quando io facevo colazione lei non vedeva l’ora di andare a dormire.
Per tutta risposta io imboccavo il corridoio del bagno scimmiottando il passo dell’oca, limando gli stipiti della porta con i gomiti e aggiungendo un altro livido alle caviglie già maculate che parevano le zampe di un ocelot.
Chissà, forse avrei dovuto scegliere la carriera militare. Anche solo per dare contro a mia madre. Probabilmente oggi sarei sergente, o colonnello, anche se non so poi che differenza ci sia e chi comanda chi.
Per la cronaca, comunque, ho fatto il servizio civile, da vero smidollato pseudo-idealista, imboscato all’ufficio anziani dell’Unità Sanitaria Locale di Imola.
Avanti marsch, fianco sinist, sinist. Entrare in bagno, forza camerata, animo, la giornata è lunga.
Il bagno di mattina presto, tra le ombre del giorno che nasceva e i lampioni che si spegnevano, assumeva un aspetto suggestivo, con il bucato steso ad asciugare e quell’odore di sapone di Marsiglia. Appoggiavo la fronte al vetro e, mentre facevo pipì, guardavo fuori dalla finestra con la serranda abbassata per metà. I miei occhi a fessura sognavano di trovare un giorno una brandina, tra il water e la vasca, sotto i panni stesi, nell’umido rassicurante di quella stanza, per assopirmi un po’ e restare ancora a sognare qualche minuto.
Poi il clacson della Renault 14 di un vicino che saliva dal tunnel delle autorimesse mi riportava di colpo alla realtà, e io guardavo Silvia salire in auto col papà per andare a scuola.
Mi viene in mente solo adesso che in tutti quegli anni non mi sono mai lavato il viso, la mattina. Roba che a raccontarlo si fa fatica a credere, ma era davvero così. Non ne sentivo mica la necessità, ero un ragazzo pulito, e lo sono ancora. Così pulito che non sudavo mai. Mi lavavo, s’intende, ma la mattina il viso lo lasciavo sempre com’era. Forse non volevo rovinarlo, come se poi lavandolo potessi perdere qualcosa di quel viso d’angelo che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.
«Mangia anche la banana, che devi crescere».
«Ma mamma, non ti sembro già abbastanza cresciuto?»
«A undici anni? No, devi ancora crescere, tesoro, non preoccuparti, ma tu mangia, dammi retta, e crescerai sano e forte».
E aveva ragione.
Oggi sono sano e forte, sono cresciuto, e mangio ancora le banane a colazione.
Tutti i giorni prendevo l’autobus. Di sabato, però, dovevo prenderne due, perché il diciassette barrato quel giorno non girava. Così dovevo salire prima sul trentasei, percorrere un giro assurdo tra i quartieri della mia periferia, e poi scendere in piazza Cavour per aspettare il diciassette non barrato, che mi avrebbe portato davanti alla scuola.
«Che maleducati, questi ragazzi. Non gli insegnano più niente a scuola. Guarda che roba, una signora anziana e quello mica si alza. Ai miei tempi questo non accadeva, te lo dico io».
Chissà che tempi favolosi devono avere vissuto gli anziani. Era tutto migliore, anche la miseria. Aveva un altro sapore, un altro gusto. Probabilmente anche la morte doveva essere migliore. Fatto sta che quell’anziano aveva ragione, perché molti ragazzi coetanei non si alzavano mai da sedere quando vedevano una persona vecchia e stanca.
Io invece lo facevo sempre, me lo aveva insegnato la mamma. Spesso, però, capitava che non li vedessi subito e così mi prendevo lo stesso la ramanzina sulla generazione maleducata. Cornuto e mazziato, insomma.
«Prego, signore, si vuole sedere?»
«Per chi mi hai preso, ragazzino? Guarda che io non sono mica vecchio, sai? Ho settantasette anni, una salute di ferro e faccio ancora l’amore. Tu lo fai già? Sentiamo!»
Ma allora andate tutti al diavolo.
Faceva ancora l’amore. Ma come faceva? E come si faceva, piuttosto? Magari lo avessi fatto già. A malapena riuscivo a scambiare due baci. E chi avrebbe avuto voglia di baciarmi con i brufoli sulle guance che mi ritrovavo e la macchinetta ai denti? Come il mostro di Moonraker, insomma, quello te lo ricordi al massimo perché era cattivo, non certo per la sua avvenenza.
Dopo la scuola, il procedimento era sempre lo stesso ma in senso inverso e con una smania incontenibile di arrivare a casa il prima possibile. Sui due autobus di sabato si svolgeva il rito dello scambio delle figurine.
«Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, mi manca! La scambi? Io ti do Pruzzo e Giordano in cambio di Scirea».
Era un mercanteggiare davvero divertente. Le figurine Panini avevano un profumo inconfondibile. La parte più bella non era attaccarle, ma aprire le bustine e annusarne la schiena. È una cosa poco comprensibile se non si è fatta. Un po’ come quando si compra un libro nuovo: voi lo annusate l’odore infilandoci dentro il naso mentre fate scorrere le pagine? Io lo faccio sempre, ed è stupendo. Il profumo del sapere. Ecco, l’odore era circa quello, ma l’emozione tutta diversa, più infantile e genuina.
«Hai mangiato tutto senza pane».
«Ma dai, nonna, tu mangeresti anche i tortellini con il pane».
«Certo, perché? Sono buonissimi, sai? Ai miei tempi, quando c’era la guerra, ce lo sognavamo, il pane. Una volta dalla fame abbiamo anche mangiato il gatto. Poverino, era morto sotto un treno. E poi il sapore non era mica male, sai? Assomigliava al coniglio arrosto. Te l’ho mai raccontato?»
«No, nonna, mai».
Soltanto una ventina di volte.
«Be’, vi ci vorrebbe un po’ di guerra, a voialtri. Con la fame tutto diventa buono, dammi retta».
Cioè mi stai augurando di stare male? Di tremare quando la sirena suona l’allarme antiaereo? Di scappare nei rifugi con il terrore di rimanere sotto le macerie? Di patire la fame, la sete e la stanchezza? Di rischiare di perdere tutto in pochi istanti? Non posso crederci, non puoi desiderare questo. Ma che razza di nonna sei?
«Ma no, sciocco. Quando la nonna dice così lo fa per fare un esempio, per farti capire il valore delle cose. Lo diceva anche a me quando ero piccola».
Meno male, buono a sapersi. Scusa, nonna.
E il sabato pomeriggio volava via in fretta. Mi vestivo con attenzione, rifiutando gli abbinamenti che mia madre cercava di impormi in maniera subliminale, sistemandomi senza dire nulla i vestiti piegati sulla sedia vicino al letto. Poi alle tre si andava in centro a fare un giretto, a mangiare un panino al fast food, a guardare i grandi insieme alle ragazze che a me parevano tutte bellissime. Bastava fossero più mature di me e io perdevo la testa. Anche i ragazzi mi sembravano tutti aitanti: ma come facevano a essere così belli? Noi solo brufoli e balbuzie, loro solo sorrisi e fascino. Poi una passeggiata nelle vie principali e un pacman in sala giochi.
«Ehi, ragazzo, tu non puoi entrare, non hai quattordici anni, si vede».
«Le dico di sì, signora. Mi faccia entrare, per favore».
«Fammi vedere un documento».
«Certo, eccolo».
«Come mai è scolorito sulla data?».
«Che ne so, sarà il sudore. Mi faccia entrare, avanti».
Non era mica difficile da capire. L’avevamo scolorito con la candeggina e poi retrodatato con il pennino fine e la china che ci avevano insegnato a usare a scuola. Ma in fondo si trattava soltanto di una sala giochi.
«Sì, va be’, entrate, su».
Grazie, professor Vincenzi, grazie per avermi insegnato a usare la china.
Non c’è luogo più stupido di una sala giochi, ma allora mi pareva un paradiso perfetto. Non tanto per i giochi, quanto per i rumori. Ho sempre amato i rumori, mi è sempre piaciuto stare a far niente tra i rumori più strani. Come quando arrivavo a casa e la mamma stava passando la lucidatrice. Un rumore assordante per tutti, ma non per me. Mi piaceva guardare la televisione con la porta aperta e sentire tutto quel rumore che si mescolava ai dialoghi: anche se mi impediva di ascoltare bene, riusciva a trasmettermi una sensazione di sicurezza, come qualcosa che mi girava nella pancia, tra il fastidioso e il gradevole. Non so se esistano ancora le sale giochi, di certo quelle che frequentavo io in centro le hanno chiuse tutte. Ci hanno fatto un negozio di abbigliamento, un ristorante, una banca. È sempre il potere del denaro. Poco male. Non erano mica musei o luoghi di cultura.
Ancora l’autobus. Stavolta semivuoto e senza figurine. Poi, il ritorno a casa.
La sera non accadeva mai niente di speciale.
Anzi, sì.
Si prendeva la pizza da asporto, si mangiava insieme con la coca cola sgasata, aperta da quattro giorni e lasciata a dormire in frigo senza tappo, e si cenava sul cartone. Be’, questo lo si fa ancora oggi, e la pizza assume lo stesso sapore in ogni posto, quel gusto di carta vecchia che quando diventa fredda non la mangerebbe nemmeno il gatto. Quello vivo, non quello che mangiò la nonna.
«Non bere quelle schifezze, ti fanno male e ti si gonfia lo stomaco. Non vorrai mica diventare come Carlone, vero?»
Carlone era il figlio di quelli che stavano sopra di noi al quinto piano. Aveva qualche anno più di me e pesava quasi un quintale.
«Quello si ciba solo di panini e coca cola, e suo padre lo porta sempre fuori a mangiare quella robaccia».
Anche se non mi importava molto di Carlone, credo che mio padre avesse ragione, perché bastava guardarlo per avere voglia di vomitare. Non mi sarei mai ridotto come lui, lo promisi a me stesso. Così, terminata la cena, correvo in bagno, mi sfilavo la maglietta e mi mettevo di profilo per vedere se la pancia fosse cresciuta. È una cosa che faccio ancora, con la differenza che allora la pancia non c’era, oggi un po’ sì, anche se tutto sommato non mi posso lamentare. I giudizi di mio padre mi feriscono ancora, e io ho sempre cercato di non farglielo capire. Anche questo è un gioco delle parti, un sottile equilibrio di non so e non voglio sapere, anche se poi, in realtà, è tutto chiaro, e te ne rendi conto in un attimo. Non serve una parola di troppo, quasi sempre è quella che manca a fare più male. Spesso è un sorriso mancato o un sospiro insistito, una parola non detta o sussurrata troppo forte per non essere sentita. Ognuno sta al proprio posto, decide di impartire consigli a qualcuno, e lo fa come può, con il suo metodo, a volte corretto, a volte sbagliato. Ma sempre giustificato. È l’amore che manovra tutto, che fa pure sbagliare e che si esprime anche con l’odio e l’indifferenza. Non ho mai portato rancore verso mio padre, per questo. Mi ha fatto crescere bene, ed è questo che conta. Ma spesso gli rispondevo, gli dicevo cose spiacevoli, sbattevo la porta e me ne andavo. E, dopo un po’, la mia coscienza cominciava a languire, e stavo male per quanto avevo detto. Non subito, però. Ci volevano diverse ore, a volte anche giorni. Mi ritrovavo una sorta di coscienza retard a scoppio graduale, ma pur sempre una coscienza. E tutto finiva a tarallucci e vino, con un sorriso non ricambiato. Come sempre, del resto.
Dopo cena aspettavo lo Scacciapensieri
, i cartoni animati che trasmettevano sul canale della Svizzera Italiana, ogni sabato alle venti in punto. Sulla Rai, il giovedì sera, passavano Supergulp
, ma i cartoni della Svizzera Italiana erano speciali, e li attendevo tutta la settimana con nervoso entusiasmo. Quel coniglio, che stentava a dire il nome della trasmissione per le risate a crepapelle che non riusciva a trattenere, è ancora impresso nella mia mente.
Ed ora siete pronti per mezz’ora di pazze risate?
Certo che sono pronto, non aspetto altro da una settimana.
Non vedete l’ora di ritrovare i vostri beniamini, vero?
Ma che domande fai? Certo che non vedo l’ora, ti pare che starei qui, sennò?
E allora ecco a voi i cartoni animati!
Finalmente.
E buon fine settimana a tutti.
Grazie, anche a lei. Che gentili queste annunciatrici della televisione svizzera. Anche le nostre non sono male, del resto. Chissà che vita hanno al di fuori del tubo catodico, chissà se a casa sono così educate o se invece mandano tutti a quel paese e non salutano nessuno di quelli che incontrano sulle scale del loro condominio. A me capitava spesso di cercare di evitarli. Non era maleducazione, la mia: timidezza, piuttosto. Quando sentivo qualcuno che usciva di casa e chiudeva la porta con due mandate, mi fermavo sulle scale per evitare di incontrarlo, e trattenevo il fiato per non farmi sentire. Poi capitava sempre che quello del pianerottolo usciva d’improvviso e me lo trovavo davanti. E a quel punto non potevo non salutarlo. E lo facevo sempre con dovizia di forma e di gentilezza.
«Che figlio educato che ha, signora, proprio carino».
«Eh sì, grazie, sono davvero fortunata».
L’orgoglio di ogni mamma, non c’è dubbio.
Dopo i cartoni animati, tra uno sbadiglio e qualche briciola da raccogliere con scopa e paletta, si aspettavano le ventidue: a quell’ora arrivavano in casa gli amici dei miei genitori, una coppia simpatica e gioviale. Loro rimanevano in giro per la casa a chiacchierare, a bere, a fumare, a ridere. Sembrava fossero in otto, invece erano soltanto due. E io resistevo finché potevo. Lottavo contro il sonno per non perdermi nulla di quanto dicevano. Facevo la spola tra la cucina, dove stavano le donne con i loro profumi francesi che mi affascinavano tanto, e il salotto, dove sedevano gli uomini, intenti in virili discorsi di seduzione. E io ridevo. Mi sentivo bene, credevo che la vita fosse tutta lì. E magari lo era sul serio. Forse, se ci penso davvero, quello è stato il periodo più bello e sereno della mia vita. Proprio perché non si faceva nulla e mi sembrava non potesse accaderci niente.
Poi c’era il rito che si consumava il sabato sera: rovistare nella borsa dell’amica di mia mamma. Tutte cose