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Lo Specchio di Atlante
Lo Specchio di Atlante
Lo Specchio di Atlante
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Lo Specchio di Atlante

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About this ebook

La colossale statua che regola le leggi fisiche del mondo, Atlante, è malata. Nascite deformi, piogge di pesci morti, vecchi che tornano fanciulli: solo sostituendo la ghiandola pineale di Atlante sarà possibile riportare il mondo alla normalità. Ma il raro metallo con cui venne realizzata, la drimite, non esiste più.

Il Mago Zephiro e i suoi Apprendisti Heron e Kalamon lo sanno e per salvare il proprio mondo dalla distruzione dovranno rubare quel metallo altrove: nel mondo dei sogni e nei mondi dietro gli specchi. Ma anche nei mondi paralleli Atlante è malato e gli Zephiro locali, coi loro Apprendisti, desiderano la drimite altrui per salvarsi.
E se ogni mondo fosse il sogno di qualcuno?

"Questo specchio bugiardo mi sbugiarda?"

"Perché parliamo sottovoce davanti a una salma? La morte non è un sonno che possa essere disturbato."

[Romanzo tra Fantasy e Giallo, collana Vaporteppa, 43.150 parole, circa 153 pagine]
LanguageItaliano
Release dateDec 8, 2014
ISBN9788898924332
Lo Specchio di Atlante

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    Lo Specchio di Atlante - Bernardo Cicchetti

    malvagi.

    Parte Prima

    DEI SOGNI

    Sogno o son desto?

    Un luogo comune

    «Tu non sei che una specie

    di cosa del tuo sogno»

    Tweedledee

    CAPITOLO I

    IL SOGNO DI UN METALLO

    «Mi hai svegliato da un sogno, oh! così bello!»

    Alice

    L’omuncolo era seduto sul cuscino, faceva girare i pollici e aspettava che l’ira del suo padrone sbollisse.

    Heron distolse lo sguardo da lui e ricontò fino a dieci in silenzio.

    La luce pallida dell’alba tingeva di arancione la colonnina della bifora: il cielo si stava schiarendo e le stelle si spegnevano a una a una.

    «Dovevi proprio svegliarmi?» sbottò Heron, e si grattò la testa per scacciare la nebbia del sonno e l’orrore del sogno.

    Il minuscolo, vecchio Heron sorrise con gli occhi. Il volto rugoso e la lunga barba candida erano gli stessi che sarebbero stati del padrone a novant’anni.

    «Il mio tempo è finito,» disse con la voce sottile.

    «È già trascorso un mese,» sussurrò Heron. Gli si strinse il cuore. Una stretta lieve e consueta, ormai.

    Questo era il terzo sé stesso che lo lasciava. Sia maledetta l’insensibilità di Zephiro. Perché imporre agli Apprendisti di dare agli omuncoli il loro aspetto? Assistere al proprio decadimento fisico era una lezione di saggezza o di cinismo?

    Il piccolo vecchio doveva aver seguito il corso dei suoi pensieri.

    «Non rattristarti. La mia vita è stata lunga e intensa. Se ti ho servito bene, ne sono soddisfatto.»

    Heron fece un sorriso un po’ storto.

    «È più di quello che dirò io a novant’anni,» sospirò. «Scusa.»

    «Perché?»

    «Per prima. Per essermi adirato. Non potevi sapere che ero nel mio sogno.»

    «Lo sapevo.»

    Heron aggrottò le sopracciglia.

    «Perché mi hai svegliato, allora? Tu non immagini quali possono essere le conseguenze del tuo atto.»

    «Non angustiarti troppo per questo.»

    «Ma Ilina—»

    L’omuncolo sollevò una mano.

    «Non si possono calzare due scarpe con un piede solo. E non si possono vivere due realtà. Prendi una decisione. Scegli la tua. Sia questa o il tuo sogno, non ha importanza. Ma scegli.»

    Heron sbuffò.

    «La cosa più irritante di voi omuncoli è che alla fine diventate tutti filosofi.»

    Il volto del vecchio, che un giorno sarebbe stato il suo, era privo di espressione.

    Anch’io so essere insensibile, a quanto pare. «Scusa…»

    L’omuncolo scrollò le spalle.

    «Zephiro vuole vederti.»

    Cominciò a scendere dal letto, afferrandosi a fatica alle pieghe della coperta.

    Heron fece per aiutarlo ma il piccolo scosse la testa.

    «Vai via?» Gli venne un nodo alla gola, ma si sforzò di scioglierlo.

    «Sì.» Il vecchio si fermò sull’uscio, più piccolo e grinzoso che mai. «Abbi cura di te.» E uscì.

    Nessuno sapeva dove andassero a morire gli omuncoli.

    Heron si scosse e si vestì in fretta. Doveva subito andare da Zephiro. Il Mago non ammetteva ritardi quando chiamava un Apprendista.

    Cosa sarà accaduto a Ilina?

    Non sapeva ancora cosa accadesse ai sogni durante la veglia. Continuavano a esistere? O svanivano a ogni risveglio? Zephiro aveva una risposta per questo? Glielo avrebbe chiesto.

    «Ma sarà inutile,» disse a voce alta.

    Zephiro dava poche risposte. Ma, in compenso, poneva molte domande.

    Scese la scala a chiocciola, illuminata da strette feritoie, e sboccò nel corridoio principale.

    Il vecchio Yolgo stava spalancando le finestre al giorno.

    Heron incontrò il suo sguardo strabico. Lo salutò con un cenno della mano. Non si meravigliava più di vederlo sveglio a tutte le ore. Circolava la voce che non dormisse mai.

    Yolgo rispose al saluto.

    «Ho visto il tuo omuncolo.»

    «Sì, stava… andando via.»

    «Lo avevo immaginato,» disse il vecchio, con un’espressione di rammarico. «Mi era simpatico. Era il tuo migliore, finora… Mi ha raccomandato di avere un occhio per te,» ridacchiò.

    Heron annuì, sorridendo. Caro, vecchio Yolgo. Sempre così bonario, premuroso.

    «Ilina?» gli chiese.

    Yolgo fece cenno di sì con la testa. Sorrideva ancora.

    «Io, avere un occhio per te! Non è comico?»

    Heron gli appoggiò una mano sulla spalla deforme.

    Il vecchio spalancò un’altra finestra e un nuovo fiotto di luce inondò il corridoio, proiettando su una parete la sua ombra curva.

    Come al solito la porta si aprì senza causa apparente. Heron varcò la soglia. La porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo.

    L’Officina era l’unica stanza di Maniero a non avere aperture comunicanti con l’esterno. Poche lampade a olio cercavano di scacciare il buio, riuscendovi solo in parte.

    Zephiro era seduto allo scrittoio, con gli occhi chiusi. Nessun segno faceva pensare che fosse una persona viva e non una statua parecchio realistica.

    Heron aspettò un poco. Fece alcuni passi avanti.

    Dentro una grossa boccia di vetro si agitò la piovra prigioniera. E lo strano animaletto in gabbia, che sembrava un camaleonte, cambiò più volte colore, stabilizzandosi infine su un verde di benvenuto. Nessuna reazione da parte di Zephiro.

    Il Maestro è troppo immobile. Dev’essere almeno al Quinto Livello di Meditazione.

    Sullo scrittoio, davanti al Mago, era aperto il Libro dei Se.

    Heron, d’istinto, tentò di leggere qualcosa, ma distolse subito lo sguardo. Le parole avevano cominciato a migrare sulle pagine, per disorientare il curioso.

    Che stupido che sono!

    Zephiro si sarebbe accorto che lui aveva tentato di leggere il Libro, quando avesse visto le parole in disordine. E si sarebbe adirato. Ma, per fortuna, il suo risveglio sembrava ancora lontano.

    Siamo alle solite. Massima puntualità e lunga attesa assicurata. Sbuffò.

    «È parecchio che è così?» chiese alla strana bestiola, indicando col pollice il Mago in Meditazione.

    L’animaletto rispose con una rapida combinazione di colori.

    Heron sgranò gli occhi. «Dieci ore!»

    La porta si spalancò.

    Heron si voltò.

    Kalamon era entrato e il rumore dei suoi passi si sovrappose al tonfo della porta. Sollevò un sopracciglio. «Riunione plenaria, a quanto pare.» Indicò con il pollice il Maestro. «Ne avrà per molto?»

    Aggrappato alla spalla, il suo omuncolo scoppiò a ridere. Kalamon aveva sempre un’espressione simpatica, che non era riuscito però a trasmettere alla creatura.

    «Non ne ho idea,» rispose Heron.

    Kalamon sospirò e si appoggiò a una mensola. Prese due mele verdi da un vassoio, accanto al suo gomito, e cominciò a farle volteggiare con la sola mano destra. Con rapidi colpi di polso, le faceva roteare e ne intrecciava le traiettorie nell’aria.

    Era abilissimo. E ammirevole per intuizione e intelligenza. Chissà perché non erano mai diventati veri amici.

    Siamo rivali, ma non siamo mai stati sleali l’uno verso l’altro. Entrambi vogliamo succedere a Zephiro con tutte le nostre forze. Entrambi possediamo il talento necessario, ne sono certo.

    E del resto, saggiamente, Zephiro non aveva mai mostrato predilezione per nessuno dei due.

    Kalamon si scostò dalla fronte il cespuglio di capelli. Il piccolo sosia fece lo stesso. Era irritante quella sua smania di emulazione.

    «A quanto pare, il vecchio ha deciso di mettere alla prova la nostra pazienza,» disse Kalamon. «Se è così, sono fritto. È uno dei talenti magici che non posseggo.»

    «Siamo pari,» fece Heron. «Anch’io ne difetto.»

    L’omuncolo si rizzò in punta di piedi sulla spalla del padrone, mise le mani a coppa davanti alla bocca e strillò:

    «Svegliati, vecchio bacucco!»

    La piovra si agitò nella boccia. Lo strano animale si colorò di nero. Heron e Kalamon sobbalzarono.

    E il Maestro si svegliò.

    Zephiro spalancò l’occhio destro e lo fissò sul minuscolo Kalamon. Un lampo vi guizzò.

    «Taci,» disse, con la metà destra della bocca.

    «Maestro…» Heron accennò un inchino.

    Gli inchini non erano previsti nel cerimoniale dei Maghi, ma Heron non poteva fare a meno di abbozzarli… anche se poi li lasciava incompleti. Il Maestro non li sopportava.

    Zephiro sbuffò a mezza bocca.

    «Quante volte ti ho ripetuto, Kalamon, che quando ti convoco non voglio vedere quella dispettosa creatura?»

    Kalamon sorrise.

    «Tante. Ma lo sai, Maestro, che non mi riesce di tenerla lontana da me. Ci unisce un cordone ombelicale troppo tenace.»

    «Ombelicale,» squittì l’omuncolo. E gli accarezzò il naso.

    Zephiro strinse l’occhio. Inspirò.

    «La prossima volta ti troverai un rospo sulla spalla.»

    Erano stupefacenti l’immobilità perfetta del lato sinistro e la mobilità innaturale di quello destro. Zephiro era passato al Quarto Livello parziale di Meditazione, che impegnava metà del suo corpo e della sua mente. Era un’abilità che solo i Maestri possedevano.

    «Il tuo omuncolo è andato via?» chiese a Heron.

    «Sì.»

    «Lui era a posto… Provvederai al suo successore.»

    L’occhio del Maestro vagò per l’Officina. Incontrò uno di quelli del camaleonte, che gli comunicò un messaggio con una serie rapidissima di tonalità, incomprensibili per un semplice Apprendista. Quindi si posò sul Libro, e le parole sulla pagina riassunsero l’ordine originario.

    Infine si posò su Heron.

    «Sei tu il curioso, vero?»

    Superfluo rispondere. Stavolta il Maestro non si era arrabbiato per il tentativo maldestro di Heron di sbirciare nel Libro. Kalamon emise un risolino, echeggiato dal suo piccolo compagno. Le due facce brune e vispe, dagli occhi vivaci, l’una miniatura dell’altra, si guardarono per un attimo.

    «Il male avanza.» Com’era suo solito, Zephiro entrò subito in argomento. «È tempo di trovare il rimedio.»

    «E ci hai fatto venire per comunicarci questa idiozia?» strillò l’omuncolo.

    Zephiro gli scoccò uno sguardo letale, e l’esserino si immobilizzò.

    «La malattia ha valicato i Monti Anziani e si è estesa alla Valle di Naan,» riprese il lato destro del Mago. «E i suoi sintomi, fino a poco fa blandi, ora sono più che evidenti anche da noi: campi di grano velenoso, nati deformi e altre terribili anomalie. Il vecchio fattore Lario ha subìto una straordinaria regressione: il suo fisico mostra chiari segni di ringiovanimento. I familiari mi chiedono, con ovvia preoccupazione, come si evolverà il processo. Sono impotente. La Magia non ferma lo scorrere degli anni… né tanto meno il loro retrocedere.»

    Kalamon ridacchiò.

    «Presto avremo fra noi il vecchio Lario che sgambetta come un marmocchio!»

    Zephiro gli indirizzò una delle sue occhiatacce.

    «Frena la lingua, Kalamon. Ricordati che anche la temperanza verbale è una dote da Mago.»

    Kalamon inarcò le sopracciglia, stupito.

    «Temperare la lingua? Finirebbe con l’essere più appuntita!»

    Zephiro sospirò rassegnato. Era impossibilitato a scuotere la testa.

    «Non sto a dirvi come,» continuò, «ma ho scoperto la causa della malattia di Atlante. Quando tre Ere fa il Consesso Supremo…»

    Kalamon tossicchiò. «Scusa, Maestro, ma non vorrei dovermi sorbire tutta la tiritera che ben conosciamo. Il Mago Atlante che riunisce il consesso supremo, alcune Ere fa… E come eressero, a immagine e somiglianza di Atlante stesso, il simulacro che da allora regola le leggi del nostro mondo e bla bla bla… Una statua di pessimo gusto estetico, tra l’altro.»

    «Beh,» fece Heron, dopo un lungo sospiro, «quella brutta statua è un manufatto di straordinaria raffinatezza magica, che controlla le funzioni vitali del nostro pianeta. Ha richiesto un lavoro immane.»

    Kalamon gli lanciò un’occhiata di sbieco.

    «È il momento di fare il bravo Aspirante, Heron? Ciò non toglie che la statua dal punto di vista estetico, ribadisco, non sia un granché. Un pupazzone fatto per impressionare i gonzi, quando tutta la struttura avrebbe potuto…»

    «Quella struttura, che a te pare così ridicola, fu il risultato di mesi e mesi di studi,» sbottò Heron. Ecco, questo è il Kalamon che non sopporto. Il Kalamon tronfio e pieno di sé, che mi fa apparire servile nei confronti del Maestro. «Atlante ne uscì distrutto, a quanto sostengono gli scritti. Annichilito…»

    «Ma sì, letteralmente svanito nel nulla, dal momento che nessuno lo rivide più.» E Kalamon eseguì un inchino completo.

    L’omuncolo proruppe in un irriverente suono gracchiante, seguito da una risata stridula.

    Zephiro recitò una formula sub vocale e l’esserino cadde a terra pietrificato, con un tonfo secco.

    Kalamon non protestò. Anzi, sospirò di sollievo. L’impertinenza del suo amato omuncolo qualche volta stufava anche lui.

    «Bene,» riprese Zephiro, «possiamo proseguire dopo questo inutile battibecco? Torniamo alla premessa. Atlante è malato.»

    «Vuoi dire davvero che un prodotto dell’Antica Magia si è usurato?» chiese Heron.

    «Ti meraviglia, vero?» disse Zephiro. «In genere siamo abituati a considerarla infallibile. Beh, non è così. Ma il guaio vero è che l’organo danneggiato è il più difficile da sostituire. Il metallo che fu usato per realizzarlo, in pratica non esiste più. Eppure, è indispensabile provvedere al più presto alla sostituzione. La nostra Realtà rischia di essere definitivamente compromessa.»

    «Qual è l’organo?» chiesero Heron e Kalamon all’unisono.

    «La ghiandola pineale,» rispose il Mago.

    «E cosa sarebbe?» Kalamon incontrò per un attimo lo sguardo di Heron.

    Invece della risposta giunse un cupo brontolio.

    Il pavimento dell’Officina sussultò e ondeggiò. Pezzi di intonaco caddero dalle pareti e dal soffitto. Lo strano camaleonte si agitò nella gabbia, sotto la luce oscillante delle lampade.

    «Un terremoto!» gridò Heron.

    Kalamon annuì senza parlare. Il rombo scemava lentamente.

    «Avete capito ora cosa voglio dire?» disse Zephiro, con voce grave. «Non c’è più tempo da perdere. Questo è un segno dell’instabilità del nostro continuum.»

    «Del nostro…?» domandò Kalamon, con gli occhi sgranati.

    Zephiro gonfiò una guancia ed espulse l’aria.

    «Lascia perdere. Veniamo al dunque…»

    «Sarebbe preferibile arrivare a un dunque comprensibile.» Kalamon addentò una delle mele che prima aveva fatto volteggiare.

    «La ghiandola pineale,» il Maestro lo guardò in tralice, «è un organo dalle funzioni complesse. Non starò qui a spiegarvele…»

    Perché forse non le conosci del tutto nemmeno tu, si disse Heron. Ma, a differenza del collega, sapeva quando era poco consigliabile parlare.

    «Vi basti sapere che essa si trova anche nel nostro corpo, ovviamente fatta di materia organica, alla base del cervello. E molti Maghi ritengono che sia la sede dell’anima… La ghiandola malata che ci riguarda, invece, fu fabbricata da Atlante stesso. Si tratta di un ovoide, realizzato in drimite

    «Ci risiamo…» disse Kalamon.

    «La drimite,» Zephiro calcò il tono sulla parola, molto vicino all’ira, «è un metallo rarissimo. Dovrei forse dire era. Infatti, tutto quello esistente sul nostro mondo fu utilizzato da Atlante per fabbricare la ghiandola.»

    «Tutto!?» Heron sollevò entrambe le sopracciglia.

    «Non ne rimane neanche una particola.»

    Tacquero. La piovra li osservava, sorniona, dal fondo della boccia.

    Kalamon disse:

    «Con un Incantesimo…»

    «Scordatelo,» lo interruppe il Mago. «Con un bel po’ di perizia e tanta salute da sprecare, possiamo fabbricare l’oro, che non serve a nulla. Ma la drimite è tutt’altra cosa. Ho calcolato che occorrerebbe tutta l’energia del nostro sole per fabbricarne un’oncia… Risultato: niente ghiandola e… niente sole!»

    «Ma, allora, come…?»

    «Qui entra in gioco il tuo collega.»

    L’occhio destro roteò e si fissò su Heron.

    Il giovane apri la bocca, stupefatto.

    «Io?»

    «Tu.»

    «Lui?» fece Kalamon,

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