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Storie di birra: antologia di grandi autori della letteratura italiana
Storie di birra: antologia di grandi autori della letteratura italiana
Storie di birra: antologia di grandi autori della letteratura italiana
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Storie di birra: antologia di grandi autori della letteratura italiana

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Restare in relax seduti all'ombra di una veranda, davanti ad una birra fresca, gli alberi che ondeggiano alla brezzolina estiva, le cicale che friniscono durante il solleone: ecco uno dei piaceri della vita! La birra ha ispirato autori di ogni epoca e nazionalità , ispirato religioni e addirittura provocato rivoluzioni, perchè dunque non dedicarle un libro? Ecco una spumeggiante raccolta di brani della grande letteratura italiana a tema "LA BIRRA"...

LanguageItaliano
Release dateMay 19, 2015
ISBN9781310213489
Storie di birra: antologia di grandi autori della letteratura italiana
Author

Duilio Chiarle

Duilio Chiarle, writer and guitarist of "The Wimshurst's Machine".Duilio Chiarle, scrittore e chitarrista dei "The Wimshurst's Machine".Ha ricevuto il premio "Cesare Pavese" nel 1999. Gli sono stati attribuiti i premi internazionali "Jean Monnet" (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica Italiana, dall’Università di Genova e dalle Ambasciate di Francia e Germania) e "Carrara - Hallstahammar" (quest'ultimo per due volte consecutive).Con il gruppo musicale "The Wimshurst's Machine" ha ricevuto tre nomination hollywoodiane consecutive: sono suoi i racconti dei "concept" musicali.Ha ricevuto l'onorificenza di "Ufficiale" dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

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    Storie di birra - Duilio Chiarle

    Storie di birra – antologia di grandi autori della letteratura italiana

    Duilio Chiarle

    © 2015 Duilio Chiarle

    Prima edizione 2015

    Smashwords Edition

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

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    Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.

    BREVE STORIA DELLA BIRRA

    Restare in relax seduti all’ombra di una veranda, davanti ad una birra fresca, gli alberi che ondeggiano alla brezzolina estiva, le cicale che friniscono durante il solleone: ecco uno dei piaceri della vita!

    Birre di ogni tipo, molto alcoliche, analcoliche, scure, chiare, rosse, col malto del whisky, in bottiglia, in lattina, in plastica, a più o meno luppoli... Chi ha qualche decennio in più, almeno la mia età, ricorda certamente alcuni spot pubblicitari che hanno fatto la storia del Carosello TV italiano: una conturbante modella che diceva "Chiamami (...) sarò la tua birra"... Bionda, ovviamente. Spot un po’ maschilista, dato che a quel tempo in Italia le donne bevitrici di birra erano poche. Poi è arrivato Renzo Arbore con il suo "Chi beve birra campa cent’anni e Birra, e sai cosa bevi, tra l’altro proprio nel periodo in cui alcuni furbastri erano stati sorpresi ad adulterare il vino con il metanolo. Vabbè, il proverbio dice che si campa cent’anni ma dipende anche dalla quantità che se ne beve... Tuttavia il proverbio Chi beve birra campa cent’anni (e che esiste anche in funzione vinaria) ha fondate ragioni che ora vi vado a narrare. E poi, chi non ha mai visto il film Totò Sceicco", con la celebre scena "Cameriere! Birra e salsicce!" che altro non era se non la parola d’ordine per arruolarsi nella Legione Straniera (per la cronaca, Totò sbagliò locale e si arruolò con gli arabi). Scherzi a parte, la birra ha una storia lunga, davvero lunghissima.

    Nei tempi che furono (e si parla non solo di secoli bui e tempi andati, ma di un periodo che arriva al XX secolo), bere acqua significava mettere a repentaglio la propria vita. Nessuno sapeva il perché, ma si era capito che chi beveva bevande alcoliche (anche pochissimo alcoliche) non veniva attaccato da molte malattie. Questo avveniva poiché la bollitura sterilizzava tutto, anche se la gente non sapeva che bollire l’acqua la rendeva bevibile... Tutti, se non stavano morendo letteralmente di sete, cercavano di bere birre leggere ed una particolarmente leggera e bassa di gradi veniva data ai bambini dato che si era notato che i bambini che bevevano la birra erano meno soggetti a mortalità infantile. I locali che servivano alcolici erano ovunque, per piccoli che fossero i borghi e soltanto i luoghi più sperduti erano privi di taverne, osterie, gargotte e via elencando. Chi non poteva permettersi il lusso di prodursi alcolici in proprio, cercava di procurarseli all’osteria. La storia americana è addirittura segnata dagli alcolici e si può dire che se la rivolta del tè è stato il fattore scatenante per la rivoluzione del 1776, il precedente che ha causato il massimo malcontento fu l’imposta sulla melassa con cui venivano prodotti gli alcolici ed è nelle taverne che vennero fatti i primi comizi: sappiamo che George Washington usava ottenere il sostegno dei coloni offrendo loro da bere. Si può ben dire che l’alcol ha rivoluzionato il nostro mondo. L’acqua, fino a tempi recenti in cui si è scoperto il metodo di potabilizzarla, poteva essere davvero pericolosa: tifo e parassiti di ogni genere potevano infestare a quei tempi l’acqua, perciò chi beveva acqua o era un incosciente o una persona poverissima. La birra era una bevanda economica e alla portata di quasi tutte le tasche, la sua diffusione è perciò enorme. Pensate che nell’Inghilterra medioevale il consumo pro capite (bimbi inclusi) arrivava ad oltre 66 galloni l’anno (più di trecento litri).

    Fortunatamente i tempi sono cambiati ed oggi possiamo bere acqua sicura e pulita (anche se ciò non è sempre vero), ma la birra è rimasta. Bere un alcolico è piacevole se non si esagera dato che l’alcol (che tra l’altro aiuta a metabolizzare i grassi) ha però effetti spiacevoli di altro genere sull’organismo. Il consiglio è quindi di bere con grande moderazione, bere poco ma bere di qualità.

    Torniamo alla nostra birra: c’è chi la preferisce artigianale, chi la vuole amara, chi dolce, chi alla spina, chi sgasata, chi la vuole con la schiuma e chi senza, chi la vuole ale (ad alta fermentazione). C’è chi la mischia con la gazosa, col limone, col tamarindo, col chinotto, con la menta… Birre per tutti i palati. E tutti, ma proprio tutti, pensano alla birra tedesca. E pensare che la birra era la bevanda principe dei Sumeri e degli Egizi e che era piuttosto torbida, dato che si trattava di birra di farro e doveva essere filtrata, finchè gli non scoprirono come raffinarla usando altri cereali. Ed è tuttora esistente una birra che è l’esatta replica della birra prodotta nell’antico Egitto, ovviamente non torbida.

    In Cina, è probabile che una forma di bevanda alcolica simile alla birra fosse in uso sin dal 7000 a.C. mentre in Mesopotamia si crede con quasi certezza che sia stata scoperta intorno al 5400 a.C. Probabilmente però bevande fermentate simili alla birra furono in uso sin dal 13.000 a.C. La birra pare sia nata per caso, da pani di frumento, casualmente bagnati. In quelle epoche remote era uso trasformare i cereali in pani; pare che a qualcuno accadde di bagnarli casualmente e di non accorgersene subito: ed ecco che il frumento fermentò. Immaginatevi quei nostri lontanissimi antenati, sempre alle prese con la mera sopravvivenza, accorgersi che alcuni pani erano finiti a mollo. Prima di gettarli, avranno certamente provato ad assaggiarli, per vedere se erano andati a male... E probabilmente si accorsero subito che quella roba fermentata era diventata allegrosa, dava ebbrezza. Si tratta di un’ipotesi, ma è probabile che a bagnarsi sia stata invece una giara contenente farro, magari durante l’attraversamento di un fiume: stesso discorso. Dall’errore casuale, all’errore voluto, il passo è brevissimo ed in pochissimo tempo l’arte di lavorare la birra si estese a tutti i luoghi civilizzati e giunse ai limiti del pensabile, anche in zone in cui di cereali ne crescono pochissimi e la birra ovviamente è un lusso.

    Sappiamo che sicuramente la birra è citata su una tavoletta sumera che ha superato indenne oltre seimila anni di storia e una poesia del duemila a.C. circa ci descrive la sua produzione a base di orzo, il cosiddetto Inno a Ninkasi (la dea della birra!), citando l’uso del bappir ovvero del pane d’orzo cotto due volte. Ecco cosa dice pressappoco:

    « Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappir nel grande forno, che mette in ordine le pile di cereali sbucciati, tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno... Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto... Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, come l'avanzata impetuosa del Tigri e dell'Eufrate »

    La birra ovviamente è anche citata nella più antica opera letteraria esistente: l’Epopea di Gilgamesh, ove viene servita ad Enkidu.

    Il re babilonese Hammurabi definì in una misura da 2 a 5 litri al giorno per abitante la quantità di birra da distribuire.

    In latino era chiamata cervogia, ed infatti gli spagnoli continuano a chiamarla cerveza, ma in Italia si definisce "birra alla maniera dei Goti (che la chiamavano biòr"). Per i Romani antichi la birra era importantissima, ma venne gradualmente soppiantata dal vino in epoca repubblicana, pur restando una bevanda alcolica molto frequentata, dato che d’estate pareva una bevanda più fresca e nonostante i Romani gradissero molto una sorta di sangria fatta con vino e frutta varia. Infatti il coltissimo Tacito parla della cervogia in tono ironico poiché bevanda principe dei Germani, popolo che egli non amava.

    In Germania, la più antica anfora di birra ritrovata risale all’800 a.C.

    Nel medioevo, abbiamo le prime citazioni sull’uso del luppolo nel 822 e nel 1067. Ma alcuni popoli come i Finnici e i Vichinghi citano la birra nei loro poemi: per i Finnici nel Kalevala e per i Vichinghi in alcune loro saghe, nonostante fosse più diffuso in quelle terre l’uso dell’idromele. Nel Kalevala addirittura si dedicano più righe all’invenzione della birra che alla creazione dell’umanità.

    Il mito è sempre stato connaturato all’invenzione della birra: per i Sumeri, come abbiamo già detto, fu data all’uomo da Ninkasi; per i fiamminghi fu inventata da re Gambrinus mentre i Cechi affermano che fu il dio dell’ospitalità Radagast (o Radigost)...

    In Inghilterra, nel XV secolo si usava sovente un economico miscuglio di spezie chiamato grut non propriamente di cereali. Era un miscuglio anche allucinogeno ed a volte addirittura letale composto da bacche di ginepro, prugnolo, cumino selvatico, corteccia di quercia, assenzio, semi di finocchio, genziana, rosmarino: una vera porcata. Il fatto che certe birre fossero a volte letali su alcune persone, fece credere che esistessero delle "streghe della birra per cui gli inglesi perseguitarono inutilmente alcune birraie per stregoneria: ciò fortunatamente fu superato proprio grazie all’uso del luppolo: fu insomma il gusto e non la logica a decretare la fine del letale grut".

    Oggi abbiamo una elevata quantità di marchi e tipi di birre, inclusa la riedizione di celebri birre del passato come quella di farro egiziana. La produzione letterarie è dunque particolarmente variegata ma decisamente concentrata all’estero. In Italia, la connotazione germanica della birra fece in modo che fosse reperibile soprattutto nel nord e soprattutto diede alla birra una fama austroungarica che di fatto ne limitò l’espansione.

    E’ complicato trovare nella letteratura italiana brani e poesie che trattano la birra, ma più agevole trovare citazioni del biondo liquido… Cervogia, birra, biracervesia, cervosa e mille altri modi di chiamarla, ma pochissime opere letterarie. Abbiamo ovviamente evitato la poesia latina e quella straniera. Il grosso delle opere riportata è ottocentesca. Tuttavia abbiamo grossi nomi e se ho deciso di non includere una poesia di D’annunzio che riporta la birra in termini spregiativi in quanto germanica e riferita piuttosto al carattere che alla bevanda, per lo stesso motivo ho depennato dalla raccolta tutte quelle opere che citano "birra" in senso non legato alla bevanda o usata in senso spregiativo antitedesco.

    Ho inserito però nella raccolta la ricetta per produrla ed anche alcune chicche di turismo ottocentesco, per cui vedremo la Londra e la Torino di fine ‘800.

    Comunque, nonostante la forzata limitatezza dell’opera, non credo che vi pentirete di esservi procurato questo libro. Io vi consiglio di leggerlo comodamente seduti su una sedia a sdraio, all’ombra di un ombrellone, sorseggiando una bella birra fresca…

    Gaetano Cantoni - Trattato completo di agricoltura compilato dietro le più recenti cognizioni scientifiche e pratiche dal dott. Gaetano Cantoni (1855)

    DELLA BIRRA

    562.Anche la fabbricazione della birra si appoggia in parte sugli stessi principj che servono alla fabbricazione del sidro. Pel sidro abbiamo un sugo acido da convertire in liquido alcoolico; per la birra invece dobbiamo ottenere questo liquido dall’amido dei cereali. In ambedue i casi non abbiamo una materia zuccherina già preparata da convertire in alcool; ma dobbiamo procurarcela per mezzo di modificazioni chimiche della sostanza adoperata.

    Il cereale che più comunemente viene usato per la fabbricazione della birra, è l’orzo, perchè più ricco d’amido e meno costoso del frumento. Per meglio intendere questa operazione ne dividerò il processo in varj stadj, esprimenti le principali mutazioni chimiche.

    IL primo stadio consiste nel far isviluppare nel grano quel principio che opera la trasformazione dell’amido in zuccaro e che si ottiene colla germinazione. Per facilitare la germinazione, si mette l’orzo in grandi recipienti costruiti in muro, unendovi 4 volte il suo volume d’acqua, si agita spesso onde si liberi dalle bolle d’aria che potesse tener rinchiuse, e si levano con uno schiumatojo i grani nuotanti siccome vuoti o mal conservati. Questa immersione ha per iscopo di comunicare più prontamente al grano l’umidità necessaria, onde abbia a germinare più facilmente e più presto. L’immersione dura da 24 a 36 ore nell’inverno, rinnovando l’acqua tre volte in questo intervallo; nell’estate bastano 10 a 12 ore, ma l’acqua deve rinnovarsi 4 o 5 volte.

    L’orzo, così gonfio, vien portato in un luogo sotterraneo, ove il pavimento sia mantenuto nettissimo, onde non si comunichino al grano nè muffe, nè putridumi che ne guasterebbero la qualità. Voi sapete che la germinazione esige aria, umidità ed una temperatura superiore a 8°, e questa, nel nostro caso, raggiunge dai 12° ai 16° nelle stagioni di primavera e d’autunno. Sul pavimento di un tal locale l’orzo vien disteso in uno strato alto circa, e lo si abbandona a sè finchè non si riscaldi. Quando comincia a farsi visibile il germe, lo strato si riduce all’altezza di soli m.0,3, poi a m.0,1 quando la germinazione è giunta al grado conveniente. Nel tempo che l’orzo è disteso nel modo suindicato, devesi rimuovere spesso per rinnovare l’aria nell’interno dello strato. Nella stagione calda la germinazione è compiuta in 10 a 12 giorni; ma sul finir dell’autunno se ne richiedono da 15 a 20. La germinazione è arrivata al giusto punto quando la gemmula ha raggiunto i due terzi della lunghezza del grano.

    Germinato l’orzo, lo si fa disseccare rapidamente, per limitare la perdita dell’amido; poichè, se vi ricordate, il primo sviluppo dei vegetali è a spese della massa cotiledonare. Questo essiccamento si fa dapprima all’aria libera, stendendo sottilmente il grano sul pavimento d’un granajo molto arioso, poi facendolo passare in una stufa a corrente d’aria calda. Il disseccamento rende assai fragili le tenere radici, che si distaccano facilmente mediante un forte e rapido rimescolamento del grano. Sbarazzato l’orzo dalle radicette, viene esposto per qualche tempo all’aria, per cui riprende un poco d'umidità, la quale ne facilita la successiva macinatura. Questa macinatura si fa con macine orizzontali, tenute discoste fra loro in modo che il grano venga rotto ed infranto, ma non ridotto in farina. L’orzo così macinato si può mettere in granaio per servirsene all’occorrenza come indicherò.

    Ma intanto voi direte a quale scopo si fa germinare il grano? Come la germinazione agisce sull’amido in modo da convertirlo in zuccaro?

    Eccovi come avviene questa mutazione. Voi sapete che nel germe sviluppantesi dai grani o dai tubercoli, esiste una particolare sostanza azotata chiamata diastasi, la quale ha la facoltà di trasformare facilmente l’amido in destrina, la qual poi si cambia in zuccaro; e questa diastasi si forma nel momento della germinazione a spese della materia glutinosa del grano; voi sapete che essa a 100° gradi non ha più alcuna azione sull’amido, ma che una sola sua parte a 65° o 75° vale a convertire in destrina e zuccaro 2000 parti d’amido; e che a 0° continua ad avere la stessa azione, sebbene in minor grado’.

    Per tal modo colla germinazione si ottiene il primo intento, quello cioè di trasformare l’amido in materia zuccherina.]

    Ma questa riduzione in zuccaro vien meglio e più uniformemente eseguita coll’ammostamento dell’orzo schiacciato, il che si fa trattando la massa coll’acqua ad una temperatura conveniente, onde meglio far agire la diastasi sull’amido e sciogliere la destrina e lo zuccaro, che ne sono il risultato.

    L’ammostamento si eseguisce in grandi tini di legno, a doppio fondo, col superiore munito d’un gran numero di fori, il quale sostiene l’orzo che vi si ripone, nel mentre che permette lo scolo del liquido. Riposto l’orzo schiacciato nel tino, lo si bagna con acqua a 60°, nella proporzione di una volta e mezza il peso dell’orzo, e si agita fortemente la massa con ispecie di forche. Indi si lascia riposare per mezz’ora, onde permettere l’imbibizione nella massa; poi vi si versa altr’acqua a 90°, finchè la temperatura del miscuglio sia ridotta a 75°, che è la più favorevole, come già dissi, per convertire l’amido in zuccaro. Dopo aver agitato nuovamente il tutto, si copre il tino e lo si abbandona a sè per tre ore. Finalmente, aprendo un robinetto situato tra i due fondi, e precisamente presso il più basso, si lascia colare in un serbatojo il liquido raddolcito, che è il mosto, da dove poi lo si fa passare nelle caldaje destinate alla cottura del luppolo.

    Siccome poi questa prima operazione non leva all’orzo che 6/10 della parte zuccherina, così si aggiunge al tino una nuova quantità d’acqua a 80°, nella proporzione di metà peso di quella che servì dapprima. Finalmente si spoglia interamente l’orzo, trattandolo con acqua a 100°; e con ciò si ha un liquido che serve alla preparazione della piccola birra. L’orzo così spogliato serve ancora qual nutrimento pel bestiame.

    563. Il mosto che si ottenne coll’operazione sopra indicata si riscalda nelle caldaje fino all’ebollizione unitamente al luppolo. La proporzione del luppolo è di circa un chilogrammo per ogni ettolitro di buona birra. Le caldaie devonsi tener coperte per evitare il disperdimento di quell’olio essenziale che dà alla birra il suo aroma speciale; esse sono poi anche munite d’una specie di follatore che serve ad agitare continuamente il miscuglio. Per aumentare la forza del mosto, ordinariamente vi si aggiunge dello zuccaro d’uva, della melaccia, o degli zuccari impuri. Il mosto cotto col luppolo è versato in serbatoj, da dove vien travasato in altri recipienti appena che siasi rischiarato col riposo, e lo si fa raffreddare il più rapidamente che sia possibile, dando al liquido un’altezza non maggiore di m.0,15; i serbatoj refrigeranti sono collocati in tinaje ariose, colle aperture munite di griglie, acciò l’aria vi circoli liberamente.

    564. Quando il mosto si è raffreddato, si travasa nuovamente nei tini ove deve subire la fermentazione, aggiungendovi una quantità di lievito o fermento, che, secondo la stagione e la forza del mosto, varia da 2 a 4 chilogrammi per ogni 1000 litri; e si mantiene il locale ad una temperatura di circa 15° a 20°. La prima fermentazione indotta dal lievito, dura da 24 a 48 ore, e produce molta schiuma, che trabocca dal tino in alcuni canaletti appositamente praticati.

    Per la birra da tavola, la fermentazione si fa terminare in piccoli barili riempiti fino al cocchiume, da dove trabocca la schiuma, che pure si raccoglie in apposito rigagnolo sottoposto. Le schiume, che debordano e che sono raccolte e compresse in sacchi, costituiscono il lievito o fermento della birra, il quale ha, come gli altri fermenti non resi insolubili, la proprietà di comunicare la sua alterazione alla birra che si dispone alla fermentazione. I barili poi si mantengono ricolmi con altra birra, o col liquido che si separa dalla schiuma; terminata la fermentazione si turano, e la birra non esige più altro, fuorchè la chiarificazione mediante la colla di pesce.

    Inutile è ripetervi che la fermentazione del mosto della birra procede nello stesso modo che la fermentazione del mosto d’uva, venendo la materia zuccherina, prodotta dalla germinazione, convertita in alcool per mezzo del glutine della massa istessa, o del lievito che vi si è aggiunto.

    565. Perchè mai dunque, potendosi considerare eguale la fermentazione del vino e della birra, questa inacidisce più presto e più facilmente passa anche alla putrefazione? Tutto ciò avviene perchè il mosto della birra è più ricco di glutine che non il mosto del vino, cosicchè ne resta sempre una buona dose disciolta nel liquido anche dopo terminata la fermentazione alcoolica. Questo fatto si osserva non solo nelle nostre birre, ma eziandio in quelle d’Inghilterra, di Francia e di Germania. La migliore, ossia la più durevole, è quella che si fabbrica in Baviera, e questa sua maggior durata è dovuta al particolar modo di fabbricazione usato in quel paese.

    Parlando della fermentazione dei vini ricchi di materia azotata, dissi doversi rallentare la fermentazione colla bassa temperatura, e permettere alla schiuma di potersi portare liberamente alla superficie del mosto, perchè meglio si ossidi e precipiti allo stato insolubile. In Baviera questa massima fu applicata alla fabbricazione della birra: ivi la fermentazione si fa seguire in tini scoperti, poco alti, e che presentano un’ampia superficie al contatto dell’aria, costruendoli più larghi in alto che in basso. La temperatura dei locali di fermentazione è mantenuta fra gli 8° ed i 10°; il che ottiensi facilmente sul finire dell’autunno, per cui la birra fabbricata in quest’epoca riesce la migliore e la più durevole. Per mezzo della bassa temperatura, la fermentazione è assai lenta, durando circa un mese, le bolle di gas acido carbonico sono più piccole, e perciò la schiuma può meglio ossidarsi totalmente e precipitare allo stato insolubile. Laddove, quando la fermentazione è rapida, le bolle sono voluminose, la spuma è in quantità maggiore, ma essa non può ossidarsi totalmente, perche ricoperta e trascinata in basso dalle bolle che troppo rapidamente si succedono, e perchè la schiuma, essendo assai densa, ossidata che sia la parte esterna, precipita prima che l’interno abbia potuto subire la stessa modificazione. Perciò nella feccia o nel liquido, ne riman sempre una certa quantità, ed è questa che produce il consecutivo facile inaridimento. La bassa temperatura inoltre impedisce l’ossidazione dell’alcool, vale a dire la sua acetificazione, permettendo soltanto la combinazione dell’ossigeno atmosferico colla materia azotata del mosto. La temperatura di circa 10° è dunque necessaria, tanto per rendere uniforme e lenta la fermentazione della birra, quanto per procurare la sua maggior durata. In tal modo la Baviera non solo fornisce la birra più durevole, ma eziandio la migliore e più alcoolica, perchè lo zuccaro del mosto ebbe tempo di convertirsi completamente in alcool. Mentre la birra fabbricata in tal modo può durare per due anni, quella che da noi si fabbrica con poca cura s’inacidisce dopo qualche mese.

    DA POSTUMA

    di Lorenzo Stecchetti (1877)

    Neerland

    Vorrei stare in Olanda,

    Ad Harlem, a Nimega od a Groninga,

    Perdermi nella pace veneranda

    Della vita fiamminga.

    Gli aranci m’han seccato,

    M’annoiano i gelati e il vin di Chianti;

    I giornalisti poi m’han stomacato

    E i frati zoccolanti.

    Oh, questo sol di brace

    Quest’eterno odiar come mi stanca!

    Datemi un po’ di nebbia un po’ di pace

    E una casetta bianca,

    Una casetta, e il mare

    Vicino all’uscio e cacio in abbondanza,

    Una raccolta di bottiglie rare

    E la santa ignoranza.

    Oh, come i dì modesti

    In quella dormirei pace profonda,

    E tu ragazza mia, come saresti

    Grassotta e rubiconda!

    Porterei le brachesse

    Colla bonarietà d’uno scabino,

    Tu m’accompagneresti alla kermesse

    In cuffia e gamurrino;

    Ivi seduti accanto

    Parleremmo d’amor tranquillamente;

    La birra bionda spumerebbe intanto

    Nel boccal rilucente.

    Tu colla tua gioconda

    Voce susurreresti una ballata,

    Io succhierei con maestà profonda

    La pipa smisurata.

    E in quest’ozio sublime

    Tabacco fumerei, non porcheria,

    Non il pelo, gli stracci ed il concime

    Della nostra Regìa.

    Là non ci son contese

    Di neri, di scarlatti e di turchini,

    Là nella sabbia del natio paese

    Dormono i contadini.

    Là nessun vi domanda

    Impieghi, dividendi o beveraggi...

    Oh, benedetti della mite Olanda

    Pacifici villaggi!

    Villaggi fortunati

    Che non avete nè carabinieri,

    Nè superbia di sindaci avvocati,

    Nè preti cavalieri!

    NELL’ACCAMPAMENTO (da Poesie) 1882

    Edmondo de Amicis

    I

    È mezzodì: sul vasto arido piano

    Il sol d’Affrica splende, e tutto tace:

    Ed è fatta la tenda una fornace

    E il bicchiere che afferro arde la mano.

    Invano attendo un soffio d’aria, invano

    Cerco il sonno sul mio letto di brace...

    Della campagna ne la morta pace

    Non s’ode l’eco d’un accento umano.

    Il suol si fende e par che l’acqua invochi,

    E suona il bianco ciel d’alti latrati

    E di nitriti dolorosi e fiochi;

    Ed io, muto, pei fori della tenda.

    Ansando, con gli stanchi occhi infocati

    Spio l’infinita arcana Affrica orrenda.

    II

    E ripenso alla rorida e tranquilla

    Beltà dei boschi ventilati e scuri,

    E a le cupe cantine ove dai muri

    L’acqua gelata, risonando, stilla;

    Penso alla birra che spumeggia e brilla

    Nei cristalli appannati, ai freschi e puri

    Fonti del Canavese, ai pezzi duri

    Che ho divorati a Napoli a la Villa;

    E penso al mar d’Oneglia ove bambino

    Tuffai la testa, e al venticel fragrante

    Che increspava il gentil flutto azzurrino;

    E sudo e sbuffo e mi tormento il core,

    E forse — ahi lampo orrendo ! — in questo istante

    Sta pigliando le docce l’Editore.

    Da POSTUMA di Lorenzo Stecchetti (1877)

    Memorie bolognesi

    A Giovanni Vigna Dal Ferro

    Vigna, nel mio cortil nereggia un fico,

    L’albero sarto del gran padre Adamo;

    Io pranzo all’ombra de’ suoi rami e dico:

    — Vecchia Bologna, t’amo!

    T’amo, del senno antico antica madre

    E un tesoro d’affetti in cor rinchiudo

    Per le tue donne dalle occhiate ladre,

    Pel tuo gigante nudo.

    O San Michele, anch’io ci son passato

    Per le tue strade solitarie e belle

    E mi scorgeva un luccicar velato

    Di lucciole e di stelle

    Nell’ora queta in cui l’odor de’ prati

    Umido sal da’ tuoi valloni foschi,

    Nell’ora in cui le serve ed i soldati

    Spariscon ne’ tuoi boschi.

    Sul tuo monte tessei romanzi anch’io

    Profumati di cinnamo e di mirra,

    E il salario pagai dell’amor mio

    Con un bicchier di birra.

    Fu all’ombra de’ tuoi viali, o San Michele,

    Ch’io la trovai, la donna del mio core,

    La giovinetta che mi fu fedele

    Quasi ventiquattr’ore!

    Coi gomiti sul ponte ella volgea,

    Come una santa al ciel le luci belle,

    Ed io, poichè l’amor già mi tenea,

    Chiesi — guarda le stelle? —

    Ella chinando gli occhi di colomba,

    Gli occhioni di colomba innamorata,

    Rispose — no; sto qui a sentir la tromba

    Suonar la ritirata. —

    Era bionda e pareva un’angioletta,

    Una cosa di ciel che non ha nome

    E come un casto odor di mammoletta

    Uscia dalle sue chiome.

    Io le dissi — fanciulla, Iddio ci sente:

    La gran parola in faccia a lui diciamo!

    Di’, giovinetta bionda ed innocente,

    Di’, vuoi tu amarmi? Io t’amo. —

    Ella rispose — come sei gentile!

    Stiamo in Sant’Isaia, numero tale,

    La porticina in fondo del cortile,

    Su due rami di scale —

    Basta così — Non posso più badarvi,

    Care memorie del mio tempo antico:

    Ci leggono le mamme e per velarvi

    Dovrei sfogliare il fico.

    E tacerei — ma tu, Vigna, mi scrivi:

    — Mercutio, a che ti duoli?

    Lascia strillare noi bruciati vivi

    Da questi atroci soli;

    Noi che cuociamo, noi, dobbiam strillare,

    Diventati frittura.

    Tu vivi al fresco, in faccia al cielo, al mare,

    All’immensa natura! —

    Tu dici ben, Giovanni mio, fedele

    E poliglotto amico;

    Veggo nel glauco mar le bianche vele

    Pranzando sotto al fico

    M’allegran gli occhi la marina azzurra

    E le campagne opime;

    Freddo un ruscel nel bosco mio susurra;

    La natura è sublime!

    Ma questa carne di somaro infame

    La pago per vitella,

    Questo carton lo pago per salame...

    Oh, cara mortadella!

    D’acqua e di poesia gonfio il ruscello

    Fugge laggiù nei boschi,

    Ma il rigagnolo mio com’è più bello

    Che passa per via Toschi!

    E come cambierei questa ficaia,

    Questa vista divina,

    Col Caffè delle Scienze e la fioraia

    Degli Etruschi regina!

    Canta sul fico mio la capinera,

    Ma se non ti dispiace

    Io preferisco un bel venerdì sera

    In piazza della Pace.

    Quando Antonelli col cheppì alla sgherra

    E lo spadon sui tacchi

    Cava gli applausi e i bis di sotto terra

    Coi Goti del... Panzacchi.

    O bel venerdì sera! Il biondo Ottone

    Versa birra gelata,

    Gli zerbinotti vanno in processione

    Dietro la fidanzata;

    E le ragazze van dove c’è chiaro

    Per mostrare il vestito

    E pescar colle occhiate il pesce raro

    Che chiamano marito!

    Questa è la poesia, la vita, il moto

    Che la mia mente sogna...

    È pieno il mio bicchier — senti? — Lo vuoto

    Per te, vecchia Bologna!

    Per te, Bologna mia! Canti chi vuole

    La natura, le pecore, i pastori,

    Questo feroce sole

    E questo bosco pien di raffreddori

    Venga l’arcadia a strimpellar canzoni

    All’infinito mare, al ciel turchino,

    Ai naufraghi mosconi

    Cascati ad annegar dentro al mio vino:

    Io nato ai gaudi del consorzio umano,

    Alle battaglie dell’intelligenza,

    Del robusto villano

    Non invidio le spalle e l’innocenza:

    Ma invidio voi che per le arroventate

    Vie cittadine a lavorar movete,

    Voi che m’invïdiate,

    Voi che siete felici e nol credete!

    Non gridate cogli Arcadi e coi preti:

    — Lungi dalle città, lungi dal vizio —

    Son ciarle di poeti:

    L’innocenza de’ campi è un pregiudizio.

    Ecco una donna là, sull’erba verde,

    Laggiù, lungo la via che al bosco adduce,

    E il suo profil si perde

    Sfumato nell’azzurro e nella luce.

    Chi sarà? dove va? La chioma bionda

    Saettata dal sol di qui si vede:

    Ella guata sull’onda,

    Guata pei campi, origlia e poi procede.

    È la più bella bimba del villaggio,

    La più cara di tutte e la conosco:

    Perchè questo viaggio?

    Che diavol cercherà laggiù nel bosco?

    Che si tratti d’amor? No certamente:

    Troppo il pudor sul volto suo si vede:

    Ella è troppo innocente...

    No, no, mi sbaglio!.. Oh Dio, che mai succede?

    Esce un uomo dal bosco... è un uom davvero!..

    Io che nel fuoco avrei messo la mano!

    Madonna, come è nero!

    Ah...! corpo d’una bomba!.. è il cappellano...

    Basta, basta così — Non è più al trotto

    È alla carriera che si va — Fermiamo —

    E tu mio bel strambotto

    Vanne a Bologna e per me dille: — Io t’amo,

    T’amo ed affretto il dì del mio ritorno,

    T’amo, t’adoro, t’idolatro e dico:

    S’io ti scordassi un giorno,

    Ch’io dondoli appiccato a questo fico!

    Falconara 1874.

    Note

    Questa poesia diretta a G. Vigna Dal Ferro, ora nell’America del Nord, dove fu segretario della Commissione Italiana per l’Esposizione di Filadelfia, è la sola di argomento esclusivamente bolognese che ci permettiamo di inserire in questa raccolta. Ai non bolognesi che non conoscono il Nettuno del Giambologna che il popolino chiama il gigante ed ignorano le ombre della Villa Reale di S. Michele in Bosco, non sarà inutile il dire che Sant’Isaia e Via Toschi sono due strade bolognesi: che il Caffè delle Scienze possedeva una fioraia arrivata alla celebrità per aver rappresentato la moglie di un Lucumone Etrusco in una scherata; che in piazza della Pace nei venerdì sera d’estate la banda musicale cittadina rallegrava il numeroso pubblico co’ suoi concerti. In quell’epoca fanatizzavano i brani dell’opera i Goti del Gobatti, così ingegnosamente difesi dall’illustre critico Enrico Panzacchi. Quanto al biondo Ottone è un buon birraio vürtemberghese, biondo così così, poichè l’emistichio è rubato al Carducci, e che vende la birra di Vienna appunto in piazza della Pace. — Le spiegazioni sono lunghe, ma volendo inserire la poesia, già stampata nel giornale bolognese la Patria, allora diretto dal Vigna Dal Ferro, erano troppo necessarie. O. G.

    Da LE FAVOLE PER I RE D’OGGI (1909)

    Ercole Luigi Morselli

    UNA BUONA DENTATA

    Certi cacciatori di frodo trovarono un giorno sperduto e mal ridotto assai, un povero maialetto roseo, proprio color dell’aurora, con sulla groppa una mezzaluna bianca.

    Furono tutti d’accordo e se lo portarono alla loro capanna per ingrassarlo.

    Il maialetto camminò di buona voglia, ma appena arrivati sentì subito qualcuno domandare: Quando ce lo mangiamo? — e si impensierì. Chi aveva fatto la domanda era uno che puzzava di sego lontano un miglio e si vantava di poter trapassare la pancia di una mosca con la punta dei suoi baffi.

    — Adagio, adagio — brontolò una voce roca di sonno, che usciva insieme al fumo di pipa, di sotto un enorme pelliccione — lo dirò io, quando sarà tempo.

    — Se uno deve dirlo, mi pare che questo debba essere io in persona che ho avuto l’idea di portarlo qua! — sorse a dire il più grasso e rubicondo di tutti, rompendo una bottiglia di birra vuota, contro lo spigolo della tavola: bravata alla quale teneva moltissimo, sebbene ormai non spaventasse più nessuno.

    Uno secco secco, lungo lungo, che appena arrivato s’era disteso supino e a gambe larghe, nel miglior posto, con le mani affondate nelle immense tasche da cui facevano capolino a sinistra due o tre bibbie in edizione economica, a destra tre o quattro bottiglie di «Wiscky» di ottima marca, a questo punto girò le palle degli occhi verso la pancia del compagno, avendo cura di non scomodare nessun’altra parte del suo corpo; poi fece una specie di strano grugnito che lì per lì riempì di speranze il maialetto, dopo di che lanciò uno sputo al soffitto con arte impeccabile, e in fine disse molto categoricamente senza aprire i denti: — Se vi piace l’ammazzeremo quando vorrò io.

    Gli altri si guardarono in viso.

    — Veramente... — incominciò ad osservare il panciuto: ma si fermò.

    — È una bella... — gridò quello coi baffi insegati: ma si fermò anche lui.

    — Un po’ prima o un po’ dopo... purchè si mangi! — tonò la voce che usciva dal pelliccione — Qu’est qu’en dis tu, mon pauvre Jacques!»

    Jacques era il più donnaiolo della combriccola, che da qualche tempo non poteva più uscir per la caccia a causa di un certo male che non lo lasciava camminare. Jacques, che da un pezzo guardava fisso il maialetto con aria meditativa, alla domanda dell’amico, levando gli occhi al cielo rispose: «Ce qu’en dis moi? Je dis... quel dommàge qu’il ne soit pas une femelle!»

    Fu una risata generale. Rise anche il cane... un vecchio cane che aveva il grave difetto di esser fedele a tutti senza che nessuno fosse fedele a lui.

    Il maialetto capì d’averla scampata brutta: cercò d’addomesticarsi il più possibile, imparò a mangiare a tavola, imparò a parlare la lingua di Jacques, a bere la birra per far piacere al panciuto, a ubbriacarsi di Wiscky per divertire quell’anima lunga, a insegarsi le setole del grugno in omaggio a quello dai baffi come aguglioli, a fare il progressista per deliziarli tutti. E tutti facevano a gara per ingozzarlo d’ogni ben di Dio, e così il maialetto ingrassava a vista d’occhio, e diventava impertinente, in ispecie con quel gigante dormiglione e col vecchio cane.

    Ma più ingrassava, e più cresceva in quei zotici cacciatori la voglia di mangiarselo. E il maiale lo capiva: ma siccome vedeva che in quella brigantesca compagnia ogni qualvolta uno voleva, l’altro subito disvoleva perchè il compagno non l’avesse vinta, così sperava che quella gente non sarebbe mai venuta a capo d’ammazzarlo, e pensava soltanto a mangiare più che poteva alle loro spalle.

    Il giuoco durava alla meglio; ma un giorno finalmente il maiale si persuase che, anche a costo d’ammazzarsi dopo tra loro, quei banditi prima o poi lo avrebbero scannato, tanta era la bramosia suscitata dalle sue carni. Allora ebbe un’idea geniale che nessun altro porco aveva mai avuto prima di allora. Disse a quella losca combriccola: — Se volete mangiare un po’ della mia carne, accomodatevi pure: non importa ammazzarmi per questo! Che mi faccio per esempio delle mie gambe di dietro? tanto io non ho nessuna intenzione di camminare. E delle mie gambe davanti? niente affatto! perchè non ho nè bisogno nè voglia di lavorare. E delle orecchie? e degli occhi? e del cervello?... Sono tutta roba superflua per me! Serbatemi la bocca e la pancia, questo mi basta: e datemi da mangiar bene.

    Figuratevi se ebbe bisogno di ripeterlo due volte!

    Gli zampetti le orecchie e la frittura toccarono all’impellicciato e a quello dai baffi, e se ne dovettero contentare perchè l’anima lunga e Jacques diventati amici per l’occasione dimostrarono che alla loro salute avrebbe moltissimo giovato un prosciutto per ciascuno.

    Quanto al panciuto trovò comodo di rimanere a bocca asciutta perchè era ghiotto delle cotiche. Infatti, quando tutti ebbero preso la loro parte, s’avvicinò al porco, il quale aveva preso la cosa con grande filosofia, e gli disse: — E della pelle che te ne fai? Se mi dai la preferenza io te la leverò a fettine con molto garbo, con tanto garbo che ti verrà da ridere come se ti facessi il solletico. — E il porco acconsentì.

    Tutti erano contentoni.

    Soltanto il cane, pure scodinzolando a questo e a quello, in fondo in fondo non era troppo soddisfatto di quel niente che gli era toccato.

    Stava in un angolo seduto e inclinando il capo corrugato e pensieroso ora su un lato ora sull’altro, contemplava evidentemente un punto solo, una cosa che sembrava proprio fosse rimasta lì ciondoloni per lui: il codino del maiale.

    — A che serve ormai quel codino — pensava il cane — ... e per me sarebbe un bocconcello tanto conveniente!

    Le pulci che popolavano il suo pelame gli sussurravano sotto le grandi orecchie parole di prudenza e il cane stava in forse. Ma alla fine, quando s’avvide che con la scusa dei prosciutti o delle cotiche, tra poco del codino sarebbe rimasto l’osso solo e il ciuffo, si fece cuore. Un salto, una buona dentata e si portò alla cuccia il codino sano sano.

    Apriti cielo! Non ebbe appena riconosciuto il suo codino in bocca al cane, che il maiale incominciò a ruzzolarsi a strillare a fare il diavolo a quattro: Ahi! Ahi! Ahi! — gridava — non posso vivere senza codino, io muoio, ridatemelo subito! Ahi! Ahi! rivoglio il mio codino!

    E grida ancora, e si ruzzola e strilla e fa il diavolo a quattro: e per recitar meglio la commedia non mangia più e dimagra, e questo fa un gran dispiacere a quei ghiottoni, i quali pensano e ripensano e si stillano il cervello per cercare una parola che lo possa consolare.

    Oggi tanto sembra che l’abbian trovata, sembra che la voglian dire... ma non fanno se non uno strano mugolìo, perchè chi di prosciutto chi di zampetti chi di frittura chi di cotiche, tutti hanno la bocca piena.

    DA LA FAVORITA DEL MAHDI di Emilio Salgari (1911)

    L’esercito egiziano.

    Kassegh è un piccolo villaggio distante una sola giornata di cammino da El-Obeid, la capitale del Kordofan.

    Questo villaggio si compone di un gruppetto di miserabili tugul conici, circondati da pochi pozzi e abitati un tempo da un pugno di arabi. Hicks pascià, appena giuntovi, l’aveva fatto occupare da alcune compagnie di negri per tenere in rispetto i ribelli che scorazzavano i dintorni e farne, all’uopo, la base delle sue operazioni contro El-Obeid.

    O’Donovan, affidati i cavalli ad alcuni soldati si affrettò a condurre Fathma e Omar in una capanna, che fu subito sgombrata da coloro che l’occupavano e fece portare della birra merissak e una terrina di durah bollite.

    — Voi rimarrete qui, diss’egli, e mentre vuoterete questo fiasco di birra andrò a dire due parole al comandante della guarnigione, che è mio amico.

    — E al campo, quando ci andremo? chiese Fathma, che non dissimulava la sua impazienza.

    — Fra mezz’ora noi vi entreremo, e forse potrete vedere Hicks pascià senza correre rischio di essere riconosciuta.

    Il reporter se ne andò lestamente cacciandosi in mezzo alle tende degli Egiziani. Omar e Fathma, rimasti soli, si scambiarono uno sguardo.

    — Che ne dici di quell’uomo, Omar? chiese l’almea.

    — Dico che possiamo fidarci di lui, rispose il negro.

    — Credi tu che troveremo Abd-el-Kerim?

    — Lo spero.

    — Eppure O’Donovan non l’ha mai veduto e non ha mai udito pronunciare il suo nome. Non so, ma ho un funesto presentimento.

    — Io trovo naturalissimo che O’Donovan non lo abbia mai veduto. Undicimila uomini non sono già un centinaio.

    — Ma la greca l’ha pure veduta, disse Fathma con collera.

    — Una donna si fa presto a notarla, tanto più che Elenka si mostrava spesso nella tenda di Hicks pascià.

    — Ma non si mostrerà più, te lo giuro Omar. Appena sarò entrata nel campo mi metterò in cerca di lei e la pugnalerò in qualsiasi luogo la trovi.

    — Non lo farai, Fathma, disse il negro fermamente.

    — Perchè?... Chi me lo impedirà? chiese con impeto selvaggio l’almea.

    — Perchè correrai il rischio di farti prendere.

    — E che importa a me quando l’avrò uccisa?

    — Ma verrai scoperta, riconosciuta per la favorita del Mahdi e forse fucilata lì per lì. Questi inglesi non ischerzano, Fathma.

    — Sarò prudente, Omar.

    — Me lo prometti?

    — Te lo prometto.

    — Lascia fare a me. La prenderò, la trascinerò lungi dal campo e te la darò in mano legata.

    — Ah! esclamò l’almea con feroce accento. Quando penso che la vedrò ai miei piedi gelata dalla morte, sento il cuore balzarmi in petto e provo una gioia sino ad oggi mai provata. Ah! quanto è bella la vendetta.

    — Zitto, Fathma; ecco O’Donovan, disse Omar. O’Donovan entrò seguito da un negro che portava in ispalla un gran rotolo di vesti.

    — Che ci portate? chiese Fathma affettando una certa noncuranza.

    — L’occorrente per entrare nel campo senza destare sospetti, rispose O’Donovan congedando il negro.

    — Forse con quelle vesti sulle spalle?

    — Sedete e ascoltatemi.

    O’Donovan empì una tazza di birra e la tracannò in un sol fiato, poi sedendosi dinanzi a loro due:

    — Amici miei, diss’egli, in tempo di guerra, fare entrare in un campo degli sconosciuti, è sempre pericoloso.

    — È giusto, disse Fathma.

    — Ho fatto portare qui delle vesti di basci-bozuk, e mi pare che camuffati da soldati sia facile entrare ed uscire dal campo.

    — Ah! fe’ Omar ridendo. Voi volete vestirci da basci-bozuk?

    — Sicuramente.

    — Anch’io? chiese Fathma.

    — Voi più del vostro compagno.

    — È ridicola.

    — Niente affatto, io la trovo una precauzione saggia.

    — Mi si conoscerà facilmente per una donna.

    — Non così facilmente come credete. Avete un bel portamento e una faccia ardita. Orsù, spicciamoci.

    O’Donovan sciolse il rotolo e levò sei o sette vestiti di ufficiali basci-bozuk coi turbanti e le scimitarre. Fathma non esitò a scegliere quello che meglio adattavasi al suo taglio.

    Si ritirò in una stanza attigua e cominciò a vestirsi, calzò le uose di pelle di capra, infilò i larghi calzoni rossi e la casacca ricamata d’argento, cinse la larga fascia nella quale passò un jatagan e le pistole e raccolse i capelli a chignon, nascondendoli interamente sotto un gran turbante verde. Appesasi la scimitarra, ritornò dai compagni, colla dritta posata fieramente sulla guardia dell’arma e la testa alta.

    — Ah! il bell’ufficiale! esclamò O’Donovan By-good! Non mi ricordo d’aver visto in Oriente un basci-bozuk così ammirabile.

    — Siete certo? disse l’almea sorridendo.

    — Ve lo giuro. Se io fossi Hicks pascià vi darei subito da comandare uno squadrone di cavalleria.

    — Burlone.

    — E sono sicuro che lo comanderebbe meglio di qualche ufficiale, aggiunse Omar, che terminava di abbigliarsi.

    — Siete certo che non riconosceranno in me una donna? chiese l’almea.

    — Certissimo.

    — Allora affrettiamoci a recarsi al campo. Mi preme d’interrogare Hicks pascià.

    — Volete proprio venire dal generale?

    — Certamente e voi mi presenterete per un vostro aiutante di campo o per qualche cosa di simile.

    — Mi mettete in un bell’impiccio.

    — Che c’è di nuovo? Avete paura che vi tradisca?

    — Non è questo, ma...

    — Che cosa allora? Dite su, voglio saperlo.

    — Se Hicks pascià... se vi dasse qualche notizia su Abd-el-Kerim... Chissà, potrebbe darsi che questa notizia non fosse troppo buona...

    — Sapete forse qualche cosa voi?...

    — No, non so niente, ve lo giuro.

    La faccia dell’almea si alterò orribilmente; stette per alcuni istanti muta colle mani strette sul cuore.

    — Sono forte, disse poi rizzandosi fieramente, e sono preparata a tutto. Conducetemi da Hicks pascià.

    — Quando mi dite di essere preparata a tutto possiamo andare.

    Si gettarono ad armacollo i remington e uscirono daltugul inoltrandosi fra le tende delle compagnie accampate. Gli egiziani, vedendo uscire due ufficiali basci-bozuk invece di un uomo e di una donna si guardavan l’un l’altro sorpresi, non potendo credere ai loro occhi, ma O’Donovan

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