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I dieci grandi generali della storia: uomini che conquistarono imperi e rivoluzionarono la guerra
I dieci grandi generali della storia: uomini che conquistarono imperi e rivoluzionarono la guerra
I dieci grandi generali della storia: uomini che conquistarono imperi e rivoluzionarono la guerra
Ebook198 pages5 hours

I dieci grandi generali della storia: uomini che conquistarono imperi e rivoluzionarono la guerra

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Il ritratto dei dieci grandi condottieri che hanno fatto la storia: da Alessandro Magno al generale Lee, passando per Annibale, Cesare, Napoleone e altri, in una appassionante e documentata panoramica sulle loro imprese. E soprattutto, queste grandi figure hanno ancora qualcosa da dirci?

LanguageItaliano
Release dateMay 29, 2015
ISBN9781507108857
I dieci grandi generali della storia: uomini che conquistarono imperi e rivoluzionarono la guerra

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    Una documentata e articolata disamina della vita e delle imprese di dieci grandi generali, dall'antichità all'Ottocento americano. Molto interessante!

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I dieci grandi generali della storia - Michael Rank

Sommario

Free Bonus – 'History of Alessandro the Great' and 'Mythology Stories' 2-Book Boxed Set

Introduzione: perché i grandi comandanti sono «pecore nere»

1. Alessandro Magno (356-321 a.C.): da giovane macedone irascibile a conquistatore del mondo

2. Annibale il Cartaginese:(247-182 a.C.): il padre della strategia e il flagello della Repubblica Romana

3. Giulio Cesare (100-44 a.C.): il più grande statista della storia e il capostipite del potere imperiale

4. Khālid ibn al-Walīd (592-642 d. C.): «La Spada di Dio» e comandante in capo del califfato arabo

5. Gengis Khan (1162-1227): nemico degli imperi – e dell’anidride carbonica nell’atmosfera?

6. John Churchill, duca di Marlborough (1650-1722): esperto di strategia ed eroe della guerra di successione spagnola

7. Federico II di Prussia (1712-1786): patrono del genio tattico e progenitore dell’impero germanico

8. Alexandr Suvorov (1729-1800): il Sun Tzu di Russia e conquistatore dei Turchi, dei Francesi e dei Polacchi

9. Napoleone Bonaparte (1769-1821): da imperatore di Francia a sovrano d’Europa e all’esilio dell’Elba

10. Robert E. Lee (1807-1870): eroe della Confederazione, primo gentiluomo d’America

Conclusione: lezioni di strategia di battaglia dal passato per il XXI secolo

Risorse per approfondimenti

Estratto da The Crusades and the Soldiers of the Cross

Altri titoli di Michael Rank

Contattare Michael

L’autore

FREE BONUS – 'HISTORY OF ALESSANDRO THE GREAT' AND 'MYTHOLOGY STORIES' 2-BOOK BOXED SET

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If you would like to download the free ebooks History of Alessandro the Great and Mythology Stories: Tales from Norse, Old German, Hindu, and Egyptian Mythology, you can get them here by clicking on this link: http://michaelrank.net/freebook

Best,

Michael

Introduzione

Perché i grandi comandanti sono pecore nere

––––––––

Chi volesse indicare il luogo peggiore per trovare un buon comandante, difficilmente può sbagliarsi con i vertici della catena di comando militare.

È un’affermazione strana, in quanto i generali sono, per definizione, militari di carriera. Impiegano decenni per scalare i ranghi e fare buona impressione sui loro superiori. Non esiste altra via per diventare un ufficiale comandante. Eppure vi sono numerosi esempi contrari nella storia, ed emblematico fu il caso del generale confederato Gideon Pillow: descritto da Stewart Sifakis come «un uomo tra i più riprovevoli, anche per portare le tre stelle e la ghirlanda dei generali confederati», servì per decenni come ufficiale nell’esercito, pur non riuscendo mai a diventare un vero comandante. Fu nominato brigadier generale dei volontari nel 1846, durante la guerra messico-statunitense, in virtù della sua passata attività come socio nello studio legale del presidente James K. Polk. Ebbe scarso successo, se non nell’accollarsi i risultati altrui: si attribuì infatti le vittorie americane a Churubusco e Contreras scrivendo una lettera anonima al New Orleans Delta in cui esaltava il proprio successo. Quella bugia fu scoperta e per un soffio non fu deferito alla corte marziale dai generali americani Winfield Scott e Zachary Taylor. Si salvò solo grazie all’intervento di Polk, che fece in modo di attribuire la responsabilità di quella lettera a un impiegato.

Dopo due tentativi falliti nella corsa al senato e alla vicepresidenza degli Stati Uniti, Pillow tornò in servizio come ufficiale allo scoppio della guerra di secessione. Isham Harris, governatore del Tennessee, lo nominò maggior generale nell’esercito provvisorio dello stato. Pur avendo conseguito qualche successo iniziale, come nell’assalto del febbraio 1862 a Fort Donelson, fece ripiegare le truppe e annullò così i risultati ottenuti con gli aspri combattimenti dei soldati. Il comando passò a Simon Bolivar Buckner, che si consegnò a Ulysses S. Grant. Da quel momento iniziò una fase di declino, sfociato infine in esplicita codardia: il 2 gennaio 1863, nella battaglia di Stones River, mentre era al comando di una brigata, Pillow fu scoperto a nascondersi dietro un albero, anziché trovarsi alla testa dei suoi uomini. Da quel giorno non scese più in campo e, a guerra finita, aprì uno studio legale con l’ex governatore Harris.

La carriera militare di Pillow non fu dunque gloriosa, ma lo stesso si può dire, purtroppo, per molti generali, nel corso della storia. I grandi comandanti in genere non pianificano le battaglie all’inizio delle ostilità. Spesso sono membri ben introdotti nelle alte gerarchie, e sono i loro amici altolocati ad affidare loro il comando. Come scrive Victor Davis Hanson nel suo The Savior Generals, figure come quella di Pillow ottengono le loro posizioni in tempo di pace, quando l’avanzamento in carriera dipende dal sapere seguire le regole e attenersi alle linee guida della burocrazia. Adottano per lo più strategie prevedibili, che seguono pedissequamente le regole e si basano sull’attacco frontale e l’assalto diretto. È proprio per questa ragione che Pillow riuscì così bene nella professione militare: era amico delle persone giuste ed era sufficientemente fidato e prevedibile da non mettere in imbarazzo qualcuno di importante. Fu inoltre un comandante privo di fantasia, poco amante del rischio, che preferì sempre l’assalto diretto all’astuzia e all’attacco sul fianco del nemico.

Pillow può dunque essere stato un generale mediocre, ma combatteva in un modo che era considerato accettabile. La società predilige sempre le soluzioni e le personalità semplici, rispetto ai metodi nuovi e poco familiari: questo è vero oggi, come al tempo della Guerra Civile o della Seconda guerra mondiale. Ancora oggi guardiamo con ammirazione e rispetto le immagini delle forze alleate sbarcare sulle spiagge della Normandia e slanciarsi all’attacco delle postazioni tedesche. Il comandante che guida in battaglia i suoi soldati, risoluto e a viso aperto, diviene un idolo ed entra a far parte della storia militare. Lo storico militare Bevin Alexander ha rilevato come, per questa ragione, l’esercito USA equipari la guerra al football americano. Questo sport è costituito da una sfida diretta, di attaccante e difensore, i quali si scontrano l’uno contro l’altro alla conquista di metro dopo metro.

I comandanti del primo tipo sono rispettati e sanno come muoversi nei sistemi ordinati, ma non se la cavano altrettanto bene quando si trovano di fronte un nemico imprevedibile. Viceversa, i grandi generali della storia facevano affidamento sulla sorpresa, il diversivo e l’astuzia. Alexander sostiene che, praticamente, tutte le famose manovre militari del passato furono dirette al fianco del nemico, sia in senso reale che psicologico. Un attacco di questo tipo blocca al nemico i rifornimenti, i rinforzi e le comunicazioni. A quel punto, un comandante debole perde rapidamente fiducia, demoralizzato nello spirito. Un esempio classico di questa strategia è quello di Scipione l’Africano, comandante dei Romani nella Seconda guerra punica, che indebolì il potere di Cartagine in Spagna ignorandone le armate, e puntando invece sulla città principale, Cartagine Nuova, l’attuale Cartagena. Napoleone fu sconfitto dalle forze alleate nel 1814 solo quando queste rinunciarono a un attacco diretto, e presero Parigi, costringendo il suo esercito ad arrendersi.

Altro esempio di generale non ortodosso, ma di successo, è quello del bizantino Flavio Belisario. Nel VI secolo riconquistò buona parte dell’Impero romano d’Occidente, dopo che questo era caduto nelle mani dei barbari, cent’anni prima. Vi riuscì con una piccola armata di soli cinquemila soldati, contro un esercito di Goti grande dieci volte tanto, e servendosi di tattiche innovative e geniali. A Napoli nel 537, per esempio, sotto assedio da mesi, riuscì a penetrare in città facendo passare i soldati attraverso l’acquedotto per aggirare le mura di cinta. I Bizantini si calarono giù dai rami di un ulivo, raggiunsero una torre di guardia nelle mura, uccisero gli uomini di sentinella e fecero entrare i loro compagni lanciando loro scalette di corda. Ne seguì la strage della popolazione civile, e quando la notizia della vittoria bizantina si diffuse, altre città d’Italia preferirono aprire loro le porte pur di non subire la medesima sorte.

Belisario entrò quindi a Roma e si preparò a un lungo assedio contro i Goti, in numero enormemente superiore. Poiché l’assedio si trascinava e l’esercito era a corto di rifornimenti, il generale escogitò un piano ingegnoso. Sapeva di non potere organizzare una sortita, e così ordinò a un ufficiale di dirigersi in Toscana, alla testa di duemila arcieri a cavallo, per assaltare gli insediamenti dei Goti. Incontrarono scarsa resistenza, perché la maggior parte dei Goti abili al combattimento si trovavano a Roma. Belisario diede l’ordine di avanzare fino a Ravenna, capitale gotica; Vitige, comandante dei Goti, si allarmò talmente alla notizia dell’imminente assalto che preferì ritirarsi. Belisario li aveva sconfitti senza sanguinose battaglie e alla fine i Goti giurarono fedeltà a Roma.

Ma, come spesso accadde nella storia ai grandi condottieri, l’eccentricità e la natura anticonvenzionale di Belisario destarono malumori e sospetti a Costantinopoli, dove non fu accolto come un eroe dall’imperatore Giustiniano, per il quale era un avversario politico. Si guadagnò il rancore dei governanti, profondamente invidiosi del suo successo e, tornato in patria, non ottenne né fama né riconoscimenti. Poiché i grandi generali, come Belisario, sono personalità schiette, che tendono all’individualismo e all’autocelebrazione, spesso cadono nell’ignominia, quando il momento di gloria è passato. Questo accade anche a coloro che sono stati ai vertici del successo, e hanno salvato la nazione che difendevano in battaglia. Così, nel 562 Belisario fu sottoposto a processo, a Costantinopoli, con l’accusa di corruzione; fu giudicato colpevole e imprigionato, per poi essere graziato dall’imperatore. Secondo la leggenda, poi, a Belisario furono cavati gli occhi per ordine di Giustiniano, perse tutto e finì a chiedere l’elemosina nei pressi della Porta Pinciana, a Roma, prima di essere scagionato ancora una volta dall’imperatore.

In questo libro vengono presentate le vite e le epoche dei dieci più grandi generali della storia, esplorandone il comportamento, non convenzionale e a volte stravagante, che li portò al successo e li rese allo stesso tempo pecore nere. Ma, prima di iniziare, sarà bene stabilire cosa significhi essere un comandante di successo: la questione non è lineare come potrebbe sembrare.

Sono diversi i fattori che determinano il successo di un generale, ma certo il numero di nemici uccisi in battaglia non è un criterio sufficiente. Tale metro di giudizio darebbe inevitabilmente il primato ai generali moderni, che dispongono di missili Hellfire e comunicazioni satellitari, rispetto agli antichi, i quali avevano risorse molto più primitive e potevano contare solo su fanteria, arcieri e cavalleria. Sarà quindi opportuno individuare delle caratteristiche che superino lo spazio e il tempo. Prima di tutto, il generale deve essere d’ispirazione per i suoi soldati. Deve essere in grado di dar loro una disciplina prima di attaccare battaglia, e di motivarli quando la situazione appare disperata e la sconfitta pare imminente. Un buon generale è capace di trasmettere tali qualità alle sue truppe con l’esempio personale e il coraggio, non limitandosi a recitare una versione annacquata del discorso di San Crispino [cit. da Shakespeare, Enrico V, discorso del re prima della battaglia di Azincourt, N.d.T.] e a osservare l’azione in battaglia, al riparo della sua tenda. Un buon generale è capace di motivare i suoi uomini non solo con il suo coraggio sul campo, ma anche con gli aspetti quotidiani del bravo amministratore. Deve infatti essere in grado di gestire l’enorme sforzo logistico di una guerra, mantenendo sgombre le linee per l’arrivo di rinforzi, equipaggiamento e armi.

Secondo, un buon comandante deve essere esperto di strategia e tattica. La strategia è l’arte della pianificazione a lungo termine e della lungimiranza. Si realizza attraverso la raccolta di informazioni, la scelta delle modalità di attacco o di difesa, l’individuazione dei punti deboli del nemico e la manipolazione delle rivalità. Un comandante di successo dà esecuzione a un piano che evita tout court lo scontro e punta alla vittoria. Napoleone riuscì a farlo in numerose occasioni, in particolare con l’applicazione della sua micidiale manoeuvre sur les derrières, l’aggiramento alle spalle: le truppe si allontanavano a sorpresa dallo schieramento nemico, per concentrarsi su un punto debole, ma vitale, dell’avversario. Per fare questo si serviva di una caratteristica del territorio, come un fiume, per poi aggirare il nemico e chiudendogli le vie di rifornimento e dei rinforzi. La tattica invece nasce dalla necessità del momento e comporta reazioni istintive nella battaglia vera e propria. È un momento di improvvisazione che mette alla prova la creatività e la flessibilità del comandante. Questi mette in pratica le proprie capacità tattiche decidendo quando dare l’ordine di attaccare, di ritirarsi o di arrendersi; e deve essere in grado di mettere in atto sul campo i piani che ha studiato con ingegno perché siano efficaci. Un attacco a sorpresa è facile da progettare, ma non è semplice realizzarlo.

Infine, un generale di successo deve produrre risultati. Anzitutto, deve riuscire a sconfiggere il nemico con piccole schermaglie: in questo senso, Pillow è un ottimo esempio, al negativo, di questo assioma. Quando Ulysses S. Grant combatté contro Pillow a Fort Donelson, sapeva di poter attaccare il forte anche senza disporre di una superiorità schiacciante. Si trattava di una mossa rischiosa, in base ai calcoli militari della Guerra Civile; ma, essendosi già scontrato con Pillow nella guerra messico-statunitense, ne conosceva la natura poco bellicosa. Grant scrisse infatti nelle sue memorie: Avevo conosciuto il generale Pillow in Messico, e sapevo che con la mia unità, anche se limitata, avrei potuto avvicinarmi a distanza di tiro a qualsiasi trinceramento di cui gli fosse stata affidata la difesa. Una figura in pieno contrasto con Alessandro Magno, dunque, che non fu mai sconfitto e conquistò la Persia, l’impero più potente della sua epoca, non con la superiorità numerica, ma con manovre di cavalleria del tutto spiazzanti, mai viste prima. In breve, le perdite continue sul campo di battaglia non fanno il buon comandante.

Esistono vittorie particolarmente degne di nota, perché ottenute da una piccola forza armata che si trova a fronteggiare eserciti avversari molto più numerosi e dotati di una tecnologia superiore. La battaglia delle Termopili del 480 a.C. è rimasta nella storia: trecento Spartani riuscirono a respingere un esercito persiano di circa un milione di uomini per una settimana intera, mentre la flotta di Atene organizzava un attacco in mare. Se il

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