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Twin Fate
Twin Fate
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Ebook359 pages5 hours

Twin Fate

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About this ebook

Lasciatevi trasportare in un universo fantasy completamente inedito che reinterpreta il genere vampiresco costruendo uno scenario sorprendente ricco di eros romantico.
Quando un Amore è un Destino, due mondi si scontrano e creano un universo di Potere che solo la “fusione” di due anime gemelle riesce a scatenare.
Ti sei mai sentito diverso da quello che dovresti essere?
Questo accade all’affascinante e solare Alexander, quando la sua vita, e il suo corpo, cambiano senza chiedergli il permesso dopo aver compiuto la maggiore età.
Improvvisamente svela un mondo oscuro, di cui dovrebbe far parte, ma di più, scopre che è destinato ad amare una sola e unica persona al mondo: la stessa che ha deluso, due anni prima, scappando davanti ai sentimenti che cominciava a provare per lei.
La dolce e timida Miranda lo aspetta ancora? Oppure non vuol più saperne di lui? Riuscirà Alex a dominare l’intenso desiderio di lei che senza preavviso sovrasta le sue emozioni?
Ma se i problemi sentimentali di questi due ragazzi umani sembrano insormontabili, ancora non sanno il misterioso segreto che li accomuna e nello stesso tempo li divide.
Non sono soli, hanno rispettivamente due fratelli: Anton e Madlena, identici a loro, ma anche opposti che nascondono un misterioso e sensuale rapporto di coppia: sono nati due secoli prima dei loro gemelli umani e adesso il loro compito è aiutarli a sopravvivere ad un pericolo mortale.
Twin Fate, raccontato dai quattro protagonisti, è un romanzo sensualmente romantico, dall’eros elegante, misterioso, quasi un giallo i cui indizi vanno raccolti e composti in un puzzle per comprendere la sconcertante verità dell’epilogo finale.

LanguageItaliano
PublisherMara B. Gori
Release dateJul 24, 2014
ISBN9781311290625
Twin Fate
Author

Mara B. Gori

i'm italian, Fiction Author: Y.A. Urban Fantasy, Paranormal Romance, RomanceIllustratrice e autrice di romanzi urban fantasy, paranormal romance, romance, per adolescenti e giovani adulti.

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    Twin Fate - Mara B. Gori

    Prologo

    Roma – Stato Pontificio 1847

    Lavinia

    Il cuore stava cedendo in piccoli punti.

    Sentivo aprirsi la ferita e allargarsi il graffio doloroso.

    Sentivo lo stesso tormento nell’altro fulcro di amore gemellato con il mio.

    L’angoscia era pregnante, stordente.

    Le parole recitate in latino, litanie cattive alle mie orecchie che, avrebbero voluto assordarsi all’istante, non sentire più niente.

    La voce era di mia madre Domitilla, la preghiera bisbigliata: le parole di un sortilegio di una fata potente, giusta, saggia: più di me che a duecento anni ero sempre la stessa ragazza di vent’anni che aveva visto, aveva trovato, la sua luce.

    La luce accecante della leggenda.

    Quella che risolve tutto, ti riempie, ti completa.

    Quella che ti restituisce la vita che sentivi a metà fino a un minuto prima; la certezza dell’appagamento, della forza della fusione.

    Saettai lo sguardo su chi mi definiva, creava: Augusto Meridi.

    Sentivo la sua mente gridare e contorcersi quanto la mia.

    Augusto

    Ero impotente.

    Io, una delle colonne della nostra civiltà.

    Io, il difensore dei nostri fratelli più deboli.

    Io, l’essere sovrannaturale più potente del nostro mondo.

    Sentivo e vedevo colei che rendeva tutto quel che ero possibile: Lavinia, mia moglie.

    Sentivo e vedevo il frutto di questo.

    Sentivo e vedevo il frammento di anima e carne staccarsi e sanguinare; mentre dopo la gioia della nascita, dovevo condividere e sopportare la seconda: quella del pericolo.

    Strinsi la sua mano fino a che le nocche di tutte e due non divennero bianche; le trasmettevo la mia forza e lei mi dava la sua. Era il nostro destino.

    Ecco.

    Un minuto ancora e sarebbe stata finita.

    Un minuto ancora e li avremmo persi, per permettere al fato di farceli ritrovare, forse.

    Un minuto ancora e con l’uno veniva il due.

    Un bagliore d’oro, fili di seta, capelli di bimbo che scintillavano sotto la luce delle lampade a petrolio.

    Lo stesso sorriso.

    Lo stesso sguardo luminoso.

    Era stupendo.

    Erano stupendi tutti e due: ebano e grano maturo, terra fertile e mari profondi, questa l’unica differenza.

    Strinsi lei a me un attimo prima di andare ad abbracciare la parte di noi che forse non avremmo rivisto mai più, ma che almeno sarebbe vissuta.

    Ecco.

    I nostri cuori si erano definitivamente crepati di una faglia profonda e gemella, la sentimmo scricchiolare e allargarsi, non ci sarebbe stato modo di sanarla, non ora, non in questo tempo.

    Scacciammo il dolore profondo, un minuto c’era dato e dovevamo sorridere ai nostri figli nel dirgli addio.

    Lavinia

    Mentre ero stretta al suo fianco e aspettavo l’attimo per correre a sentire il contatto con la mia carne ancora una volta, spostai lo sguardo sul gemito sommesso della mia migliore amica, Claudia Valeri. La mia gemella in questa e gioia e in questo dolore.

    Augusto fece lo stesso con Giulio -marito di Claudia- in questo istante il suo compagno di tormento, suo fedele fratello, non di sangue ma di cuore.

    Erano simili nell’imponenza, nella saggezza, ma soprattutto erano due padri.

    Solo e semplicemente due padri... e l’altro era ipnotizzato a scrutare, struggersi per la sua adorata, stupenda progenie, a vederla risplendere dello stesso caldo raggio d’oro nei capelli lunghissimi e lisci come preziosissima seta, che si contrapponevano a gli altri gonfi di ebano nero, a scrutare il fascio di cielo irradiato dal suo sguardo, che era anche caldo e profondo come un cuore di girasole; ad amarle profondamente entrambe.

    Era vinto quanto la moglie che stringeva, anche lui era sconfitto come noi.

    I loro sguardi erano gemelli dei nostri.

    La stessa morte era nel loro cuore, come lo stesso destino.

    Un destino di gioia che ci dava una speranza.

    Un destino di dolore che ci toglieva un pezzo di carne, di anima e di cuore.

    Era giunto l’attimo, mia madre, aveva terminato.

    Sessanta secondi ci erano stati concessi e non li avremmo sprecati in lacrime che già pungevano gli occhi di tutti e quattro, i nostri bambini ne sarebbero rimasti sconvolti.

    Era un addio, ma non lo doveva sembrare, sentivo il profumo dei nostri alleati dietro la porta, coloro che li avrebbero protetti, era solo questo che contava.

    Noi potevamo morire, vivere o perderci per sempre, ma loro sarebbero vissuti per l’eternità, questo era il nostro sacrificio al fato, in questo momento estremamente crudele.

    Augusto serrò le palpebre abbracciando un ultima volta quella parte di se.

    Augusto

    Oscurità dentro i miei occhi chiusi, solo tenere manine a stringere il mio collo, respirai contando gli ultimi secondi residui, poi Il gelo scese e liberò per un istante la mia mente dal tormento, adesso dovevo essere forte per tutti e quattro. Ero la guida, il mentore e questo dovevo essere.

    Chiusi quel pezzo di cuore morto e putrido di sofferenza in uno scrigno, lo seppellii profondamente per non farlo leggere neanche a colei che mi completava.

    Adesso ero un sostegno che non doveva crollare.

    Intrecciammo le nostre mani abbandonando lo straziante abbraccio.

    Pregni di dolore corremmo via seguiti dai nostri compagni di tormento.

    Capitolo 1

    La lettera

    Alex

    Non comprendevo cosa mi stesse accadendo, gli occhi si affilavano, la mente girava come l’ingranaggio di un orologio che stentava a far combaciare il movimento.

    Leggevo le parole vergate con inchiostro nero, denso: quel fluido che aveva impresso la carta era opaco, vecchio, e, nello stesso tempo, brillava stranamente se inclinavo la pergamena ingiallita e logora.

    Erano state scritte con una particolare e anacronistica scrittura svolazzante, come impresse da una punta di piuma d’oca.

    Piuma d’oca! Ma dai! Quanti anni può avere questo foglio?!

    Mi distraevo, raccontando a me stesso queste cose, per non pensare a cosa mi dicevano quelle sillabe legate insieme da code sinuose.

    Se stai leggendo la verità che sta dentro le tue viscere, stai diventando l’uomo che sei.

    Stai diventando la guida che devi essere, figlio mio!

    Ma, soprattutto, stai iniziando la ricerca, che ti porterà nell’unico luogo che è la tua vera casa, la tua vera essenza, la tua sola verità. E’ un posto in cui ti sentirai sempre al sicuro, e nello stesso tempo proteggerai con feroce determinazione e incrollabile rabbia, cattiveria e fede.

    E’ la sua anima fusa con la tua, la sola che può farlo in questo mondo che adesso si sta aprendo ai tuoi occhi, come oscuro e pericoloso, ma intriso di quella luce calda del giorno che sarà tua sorella per l’eternità.

    Io e tua madre, possiamo lasciarti solo questo: poche e misteriose righe, tante e aperte lacrime, quante hanno bagnato questo foglio mentre lo vergavamo per te.

    Ti amiamo, ma questo lo sai, lo senti, è in te.

    Augusto e Lavinia Meridi

    Mi rigiravo fra le mani quell’unico foglio dai contorni sfilacciati.

    Non aveva senso ciò che avevo letto.

    Non riuscivo a capire cosa centrasse quello scherzo di cattivo gusto, con la smania e, lo stordimento, che sentivo crescere da giorni.

    Albert, mio zio e tutore, era sempre stato un tipo goliardico, fra le righe; un vero padre per certi versi e un fratello più grande per altri.

    Se avevo bisogno di lui come sostegno, sapevo che in "qualche modo" c’era.

    Come c’era, se volevo tirare due lanci a canestro.

    Ma questo?

    Dirmi di rovistare nella cassapanca in cantina: l’unico mobile ereditato dai miei.

    Un pezzo antico di radica lucida stranamente ben conservato, che, non aveva neanche un granello di polvere sopra, in una stanza dai muri grezzi in cui tutto era ammantato dall’incuria sporca del tempo impietoso.

    Albert, era più disordinato di me, eppure spolverava quel vecchio cimelio ogni giorno, perché?

    L’avevo fatto, avevo cercato, e, in mezzo a carte ingiallite, cartellette di cuoio annerite, fermacarte d’argento, guanti di pelle dal sapore retrò, persino un cappello a cilindro e un bastone d’ebano dal manico d’argento con un aquila sopra, avevo trovato una scatola intarsiata.

    Il legno era macchiato e offuscato, e, il coperchio aveva cigolato sinistramente, quando l’avevo aperto.

    Ed eccola lì: una busta che un tempo doveva essere bianca macchiata dalle sfumature ocra dell’eredità lasciata dai decenni.

    Sigillata con ceralacca rossa come avevo visto fare solo in qualche film in costume.

    Ma la cosa più strana, non era la lettera in se, ma il destinatario il cui nome avevo letto rigirandomela fra le dita.

    Alexander A. Meridi

    Non era il mio nome, ma ci somigliava.

    La sinistra sensazione che Albert mi stesse prendendo in giro, avanzava sempre di più.

    Forse era un mio antenato italiano.

    Meridi.

    Sì, poteva essere l’italianizzazione di Merid, il mio cognome.

    Alexander era indubbiamente il mio nome esteso, anche se nessuno mi ci aveva mai chiamato. Per tutti ero Alex: corto, chiaro, diretto.

    Aperta con, un certo timore reverenziale, quella curiosa busta, mi ero ritrovato a leggerne il contenuto criptico riflettendo su queste strane analogie.

    E’ uno scherzo, brutto, e di cattivo gusto. Conclusi.

    Rimbustai la missiva con l’impulso di accartocciarla, mi fermai, ma non seppi perché.

    Augusto e Lavinia.

    August e Lavine: mio padre e mia madre.

    Troppo simile.

    Che i miei genitori amassero l’Europa e in particolare l’Italia: era un dato di fatto.

    Erano stati archeologi, famosi esperti di Civiltà Romana, ed erano scomparsi per questo, quando io ancora non potevo ricordarli.

    Conoscevo la lingua italiana molto bene: era stato un volere dei miei.

    Ma eravamo di origine statunitense: ero nato a New York, sebbene fossi sempre vissuto in Canada.

    Che un insospettabile antenato italico avesse il mio nome, e perfino i genitori con un nome simile, non aveva alcun senso.

    E, soprattutto, cosa centrava questo fatto con le mie ossessioni, i miei dubbi?

    Era un falso ben confezionato: l’ennesima goliardica trovata di mio zio Albert.

    Ma tutto questo non mi divertiva nemmeno un po’. Ero furioso.

    I miei mi mancavano tremendamente.

    Lo nascondevo, lo seppellivo quel sentimento assurdo per chi non ricordavo nemmeno.

    Inesorabilmente, e, comunque, mi mancavano.

    E, adesso, quando mi sarebbe servito il sostegno di un padre, di un tutore.

    Proprio adesso. Uno scherzo stupido e crudele riapriva le vecchie ferite.

    Non era giusto. Non era maturo. Non me lo meritavo.

    Dopo aver rimesso la lettera al suo posto chiusi con uno scatto la scatola che la conteneva, gettandola rabbioso sopra il resto della paccottiglia antica e sbattendo il coperchio della cassapanca con foga.

    Troppa, foga.

    I cardini di ottone del baule scricchiolarono uscendo dalla loro sede.

    Accidenti!

    Da qualche tempo non controllavo la mia forza: era aumentata e non ne capivo il motivo.

    E’ la crescita ragazzino! Hai quasi diciannove anni.

    Quello stupido del mio tutore, la faceva facile e felice, invece io mi sentivo perso come non mai.

    ...Se stai leggendo la verità che sta dentro le tue viscere, stai diventando l’uomo che sei.

    Quelle strane frasi mi balenarono in mente come impresse a fuoco nei neuroni.

    Stai calmo Alex! Non significa niente! Quelle parole non parlano di te, e se lo fanno, è solo un inganno di tuo zio per buttarla sul ridere.

    Adesso odiai Al e la sua goliardia.

    Sistemai stancamente il coperchio che avevo sbattuto: fortunatamente avevo solo sganciato le cerniere, non le avevo rotte.

    Mi assalì una stupida tristezza al pensiero che avrei potuto.

    Improvvisamente quel vecchio mobile, e, il suo contenuto, era caro anche a me.

    Sto impazzendo più di quel che credo.

    Tutto questo non è d’aiuto. Per niente.

    Strinsi i denti e li feci stridere: sembravano lame che sfregavano.

    Mi girai e corsi fuori da quella polverosa cantina, cercando di scrollarmi da dentro la testa le ragnatele fetide che sembravano essersi trasferite in me dall’ambiente circostante, confondendo di più le mie idee già smarrite.

    Facevo i gradini due a due, senza sforzo, sentivo l’adrenalina della rabbia crescere.

    Mi fermai un attimo davanti al lungo specchio dell’ingresso, cercando di ritrovare me stesso in quell’immagine che mi sembrava estranea senza ragione.

    Miei erano i capelli biondo dorato.

    Miei erano gli occhi nocciola chiari.

    Miei gli arti slanciati e muscolosi da giocatore di hockey.

    Mio il gusto nel vestire sportivo, ma elegante, diversamente dalla maggior parte dei miei amici.

    Ma estranei erano i dubbi, il tormento del mio sguardo: solitamente limpido e sereno.

    Pacifico come la mia vita fino a questo momento.

    Che mi succede?

    Sferrai un pugno allo specchio, il vetro andò in frantumi, la mano iniziò a sanguinare.

    Maledizione! Brutto imbecille, calmati! Non è da te! Non è da te, non è da te!

    Avevo un disco rotto nella testa: e nessuno che mi aiutasse a spostare la stramaledetta puntina da quel solco che mi logorava il cervello.

    Entrai in bagno a passo di carica, grugnendo.

    Mentre il dorso della mano era sotto il getto ghiacciato del rubinetto del lavabo, non riuscivo ancora a capire perché avessi quegli scoppi d’ira violenta.

    Ero distratto, e non badavo al fatto che il profondo e slabbrato taglio sulle nocche, non mi bruciasse affatto, pensai che fosse perché ero furente.

    Tirai via la mano di scatto per avvolgerla nell’asciugamano fin tanto che recuperavo il necessario per medicarla.

    L’avvolsi immediatamente molto stretta, per limitare l’emorragia, conscio lo stesso che presto la spugna bianca sarebbe assomigliata a quella che detergeva il sangue ai pugili durante il break.

    Cazzo Alex! Tu non devi gettarla quella spugna!

    Non puoi essere impazzito! Esserti ammalato di botto! Sei un atleta, l’ultimo check-up l’hai fatto un mese fa!

    Ci stavo provando, però, mi sentivo perso mentalmente e fisicamente: non che fossi debole, l’esatto opposto, ma era strano questo aumento delle mie prestazioni mentali e fisiche, e poi ero insoddisfatto, nervoso; stavo cambiando senza una logica che me ne spiegasse le ragioni.

    Perso nelle mie elucubrazioni reperii la garza, il disinfettante, e sfasciai il cumolo di spugna per medicarmi; subito sentii i miei occhi spalancarsi increduli per ciò che vedevano: del profondo taglio rimaneva solo una traccia rosata leggermente escoriata.

    Niente sangue. Niente carne viva. Niente lesione.

    Niente!

    Sconvolto mollai in terra l’asciugamano quasi fosse rovente, e mi precipitai fuori di casa.

    Due minuti ed ero in sella alla mia Ducati diretto al negozio di Albert, aperto di domenica a causa delle feste natalizie di fine mese.

    Poi, un pensiero netto come un lampo, squarciò lo stato di allarme in cui mi trovavo.

    Mattino di apertura straordinaria Barbara sarà con Al e potrei incontrare Miranda...

    Scossi violentemente la testa, ancor più confuso, mentre già sfrecciavo via.

    La realtà era impazzita, forse ero un allucinato. Eppure in un angolino della mente riuscivo ancora a pensare a lei!

    Una fitta dolorosa e conosciuta mi trafisse il petto, e, stranamente, provai un guizzo di sollievo.

    Bene, ero pazzo e visionario, ma almeno ero ancora me stesso, forse.

    Soffrivo ancora maledettamente per Mira Vale. La mia ex migliore amica.

    Capitolo 2

    Muro di Gomma

    Mira

    Il sole filtrava dalle tende di merletto bianche, il disegno che le impreziosiva era a ghirigori fioriti e farfalle delicate, quindi il raggio luminoso attraversandole si spezzettava e colpiva il copriletto formando ombre buffe che danzavano sul mio piumino.

    Rimasi qualche minuto a fissare quello scintillante balletto, affilai gli occhi e pensai che sarebbe stato un bello scorcio per un disegno.

    Poi li spalancai di nuovo con un sospiro.

    Un disegno che non avrei mai fatto, per mancanza di tempo.

    Tirai giù le gambe dal letto, pesantemente, rabbrividendo.

    Odiavo lasciare le coltri morbide e calde, specialmente la domenica mattina.

    Ero una pigrona.

    Pensando questo stavo infilando le ciabatte per dirigermi in bagno, le sfilai di nuovo e mi rituffai sotto le coperte.

    Due minuti netti dopo -ero certa che fossero solo due- mentre stavo scivolando di nuovo nell’incoscienza, la voce di Barbara trillò:

    «Mira, dai! Se ti sbrighi, andiamo a fare colazione insieme al caffè di fronte alla Ferramenta! Ho promesso ad Albert di fargli compagnia: oggi sta aperto tutto il giorno!».

    Fine dell’ammutinamento.

    Scossi la testa per riordinare le idee, non era da me innervosirmi così, ero la classica persona mite, ma a volte, segretamente, il mio lato polemico faceva capolino d’istinto, e, ultimamente, un po’ più spesso di prima.

    «Barbara, dammi dieci minuti che riemergo!» Urlai concitata verso la porta aperta.

    «Okay, tesoro, fai con calma!» La mia tutrice mi conosceva bene, più di quel che immaginavo, probabilmente.

    Mi trascinai in bagno.

    Rientrata in camera afferrai i jeans, il golfino, gli stivali col tacco basso e comodo, e in pochi minuti ero pronta davanti allo specchio che mi spazzolavo i capelli.

    Mi scrutai le palpebre ancora un po’ gonfie di sonno, cercando di focalizzare l’attenzione sull’insieme.

    L’insieme era confortante, forse parecchio soddisfacente, date le occhiate dei miei compagni di classe, eppure io non facevo che disinteressarmene, non ero un tipo che amasse particolarmente apparire.

    Non notavo le proporzioni aggraziate, l’aspetto sinuoso, i lunghi capelli che tenevo sempre tirati da un singolo fermaglio dietro l’orecchio destro, che -per la gioia della mia pigrizia- erano naturalmente lisci e setosi come appena passati dalle cure di un buona piastra per capelli.

    E non notavo, volutamente, la cosa più ovvia: i miei occhi caldi, sorprendentemente scuri rispetto ai miei colori da bionda naturale.

    Infastidita da quel controsenso, li coprii con gli occhiali da sole e corsi giù per le scale.

    «Mira, vedrai che dopo un mega caffè ti sentirai meglio, è una bella giornata: cielo blu, sole, la neve è sottile, e non stiamo che a meno tre è il tropico, praticamente!».

    «Ah, certo, Barbara, il Tropico Del Cancro! Peccato che appena mi sono alzata le mie ciabatte fossero di ghiaccio!».

    «Che fine hanno fatto i tuoi super pesanti calzini?».

    Stavo scendendo l’ultimo gradino e, già avevo afferrato il piumino, gettato da mia zia sul corrimano delle scale.

    «Persi nelle lenzuola come sempre, un vero strazio!».

    Barbara ridacchiò.

    Le feci un sorriso anch’io, le mie proteste lagnose non la smontavano, mi conosceva.

    Avevo indossato il giaccone e stavo annodando la sciarpa al collo, la mia tutrice mi insaccò il berretto di lana in testa, con forza.

    «Così la brontolona non avrà freddo, e mi farà fare colazione in pace!».

    Scoppiai a ridere.

    «Credo che stavolta me lo sono meritato».

    «Sì, pentolona che bolle!».

    Barbara assunse un aria finta riflessiva, le belle labbra piene atteggiate a un piccolo broncio, gli occhi verde scuro coperti anch’essi dagli occhiali da sole.

    I capelli corvini le ricadevano a onde composte e ampie sulle spalle.

    La sua figura minuta, era scattante ma tuttavia sinuosa.

    A trentacinque anni non ne dimostrava più di ventotto, ed era una delle donne più affascinanti che conoscevo, Albert dopo vent’anni di fidanzamento poteva anche decidersi a sposarla.

    Non era solo affascinante ma anche intelligente: studiosa di storia antica, conosceva diverse lingue, specialmente l’italiano, ed era un’apprezzata consulente dell’Ente per il Turismo Canadese.

    Anni addietro aveva incontrato Albert durante una cerimonia di riconoscimento postumo conferito a suo cugino e alla moglie che erano stati famosi archeologi.

    Se solo lei avesse dato retta al codazzo discreto dei suoi corteggiatori, l’eterno compagno avrebbe avuto un cesto di lumache in testa.

    Era davvero ora che impalmasse eterna fidanzata!

    Ma, naturalmente, mia zia stravedeva per lui.

    E, ovvie ragioni estetiche a parte -era uno degli scapoli ultratrentenni più fascinosi della città- non ne comprendevo il motivo.

    Era anche un goliardico, fantasioso bambino troppo cresciuto!

    Sempre con il sorriso sulle labbra, sempre di buon umore, sempre sereno! Era insopportabile!

    Quasi quanto il suo figlioccio.

    Sì, perché, l’unica cosa che mi sembrava accumunare mia zia silenziosa e discreta, con il sempre strafatto di ecstasy Al, era il fatto che anche lui avesse un figlio adottivo a cui faceva da tutore, che aveva un anno più di me, con cui ero cresciuta, e, che adesso, se non odiavo semplicemente ignoravo.

    Alexander Merid, o Alex come si faceva chiamare da tutti, per me era trasparente da quando avevo quindici anni, e, quindi, da quasi tre anni.

    Prima, era sempre stato come il fratello che non avevo, ma non era mio parente in realtà, e, questo particolare, non volevo più ricordarlo, mi era bastata la prima e unica volta.

    Affilai lo sguardo mentre uscivo nel sole del vialetto e non riuscivo ad impedirmi di riflettere.

    Purtroppo Alex: non aveva in comune con il suo tutore solo il fatto di essere irritante, ma anche quello inopportuno di rappresentare il ragazzo ideale per tutta la popolazione femminile adolescente, e non, della zona nord di Vancouver.

    Odioso.

    Mentre mi infilavo nella Citroen Picasso di mia zia, rividi come un film, l’estate di due anni prima: mi succedeva sempre se mi permettevo di pensare a quell’idiota del figlioccio di Albert! E ogni volta maledicevo la mia memoria fotografica e traditrice, che mi faceva ricordare persino i profumi di quella giornata strana.

    Eravamo in vacanza alle Niagara Falls lato Canadese.

    Una noia mortale per due adolescenti, anche per due, come me e lui, che erano sempre stati poco inclini a combinare guai o a fare baldoria.

    Ma all’epoca, almeno, eravamo contenti della reciproca compagnia.

    Avevamo gusti simili, le stesse aspirazioni, ci divertivamo insieme a giocare e scherzare come due fratelli, e, cosa non esattamente idilliaca, che prima di quell’estate ancora ignoravamo, non lo eravamo affatto, e stavamo passando dall’infanzia alla pubertà, il che tradotto significava: "pura e rutilante tempesta ormonale in atto" e guai sicuri in vista!

    La bomba non era scoppiata subito, aveva lavorato ai fianchi subdola, infame.

    Barbara e Al avevano affittato tre camere in un grazioso Bed and Breakfast che si chiamava

    A Night to Remember B & B nome adattissimo di una villetta vittoriana in stile casa delle fate con i tetti spioventi e le verande sormontate da cupole, le colonnine classiche che reggevano il portico e i mielosi colori pastello, tutto per dire: Romantica luna di miele..., e tutto per far supporre che ci avrebbero mollato al campeggio estivo, e invece no, eravamo la zavorra ingombrante che si erano trascinati dietro di loro spontanea volontà, una cosa da maniaci masochisti.

    Il Queen Victoria Park era a un quarto d’ora di strada dal nostro alloggio e la nostra meta preferita di ragazzini in libera uscita.

    Per prima cosa arrivati lì ci sedevamo su una delle panchine possibilmente all’ombra, poi, dato che le nostre passeggiate erano sempre post pranzo, finivo per appoggiare la testa alle gambe del mio amico e sdraiarmi a sonnecchiare una mezz’ora cullata dal rumore degli uccelli e delle cascate, invece di disegnare come volevo quando riempivo lo zaino che portavo con l’attrezzatura.

    Allora Alex mi sfilava di mano la matita e il blocco che abbandonavo sul mio grembo, e invariabilmente si metteva lui a schizzare il paesaggio, mentre io dormivo.

    Dopo un po’ mi svegliava dandomi un colpo in testa proprio con l’album, e mi sfidava in una corsa fino al chiosco dei caffè.

    Dopo la nostra dose di caffeina bighellonavamo per un po’, poi ci fermavamo a vedere le cascate parlando dei problemi a scuola, del rapporto con i nostri tutori, degli amici comuni.

    E spesso, troppo spesso, finivamo a parlare dei nostri genitori scomparsi.

    I suoi in una spedizione archeologica sulle Alpi Francesi.

    I miei scappati dalle responsabilità, con la labile scusa della giovane età e dei problemi economici, mollandomi come un pacchetto postale a mia zia Barbara.

    Non li avevo più rivisti dall’età di due anni, e Alex li aveva persi quando ne aveva tre.

    Ma quel primo pomeriggio assolato di agosto, il nostro programma pomeridiano aveva subito una variazione, non mi aveva svegliato, era rimasto lì con me: rannicchiata sul sedile della panchina con la testa appoggiata al suo fianco destro, che, magari, ronfavo poco elegantemente.

    Di solito, se lui disegnava si limitava a schizzare qualche tratto di paesaggio, era sempre

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