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Onislayer
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About this ebook

A Fairport, stato di Washington, gli Eredi degli antichi clan giapponesi combattono da centinaia di anni una guerra silenziosa contro i demoni Oni. Braccati da una terribile maledizione, l'unico ostacolo al ritorno del feroce Oda Nobunaga dagli Inferi è il vincolo della Coppia Eletta che gli Eredi proteggono a costo della vita.
Jin e Asami sono i prescelti per creare la nuova Coppia Eletta, ma tutto cambia quando Asami sparisce senza lasciare tracce, mettendo in pericolo gli Eredi e spezzando il cuore a Jin.
Sullo sfondo di una guerra senza fine, Jin e Asami si ritroveranno di nuovo insieme, ma nulla sarà più uguale a prima. Animata da una fredda e letale sete di vendetta Asami coinvolgerà Jin nella sua battaglia personale, e in un mondo dove nulla è ciò che sembra, fra travolgenti passioni, tradimenti, e oscure profezie, scopriranno che nonostante tutto il dolore che li ha divisi, l'amore che un tempo li legava non è andato completamente perduto.

Recensito positivamente su oltre 30 blog:

«Onislayer è uno dei libri che ho apprezzato di più in assoluto. Chi segue il blog sa bene che ne leggo almeno un paio alla settimana, quindi giudicate voi il valore di questa affermazione. In definitiva un libro che tiene con il fiato sospeso, che fa emozionare e anche contorcere lo stomaco. Consigliatissimo.»
Ispirazione - il blog di Ilaria Goffredo

«Questa storia mi ha davvero colpita, c'è tutto, passione, azione, romanticismo, mistero. È un mix perfetto che rende il libro intrigante e piacevole. Complimenti a Barbara Schaer che ha dimostrato ancora una volta di essere una scrittrice di vero talento, autrice di un altro libro che mi ha lasciata senza parole.»
Innamorata dei Libri

«Onislayer l'ho divorato e l'ho amato profondamente, grazie alla sua trama originale e mai noiosa, ai suoi personaggi perfetti... Barbara Schaer ha creato un mondo che è un piccolo capolavoro, ha dato vita a dei personaggi che, vi renderete conto, sarà impossibile non amare. Questo romanzo merita assolutamente di essere annoverato tra le mie migliori letture di quest'anno.»
Coffee & Books

LanguageItaliano
Release dateJun 6, 2013
ISBN9781301587681
Onislayer
Author

Barbara Schaer

Ho ventinove anni, vivo a Genova con mio marito e lavoro ormai da qualche anno nel settore informatico. Sono un’appassionata lettrice, divoro tutti i generi anche se in questi ultimi tempi sono diventata una fan accanita dell’urban fantasy, e adoro scrivere fin da quando ero piccola.Alis Grave Nil è il mio primo romanzo, un piccolo grande sogno che si è avverato :)

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    Onislayer - Barbara Schaer

    Capitolo 1

    Jin McDowell trangugiò il quinto saké della serata, colpì il ripiano del bancone con la tazzina e ne ordinò prontamente un altro.

    Per essere un venerdì sera lo Shooter non era granché affollato, colpa dei tavoli da biliardo e dei jukebox che facevano tanto anni ottanta, e sicuramente delle spogliarelliste che in quel preciso istante stavano ballando al Blue Hell.

    Da quando avevano riaperto quel locale Jin era stato testimone del costante defluire della clientela che alla buona musica dello Shooter preferiva il ritmo della techno su cui si dimenavano donne seminude, ma per quel che poteva contare, lui al Blue Hell non ci avrebbe rimesso piede. Poteva giurarlo. A costo di rimanere l’unico a quel bancone a bere come una spugna.

    Ben lo salutò con una poderosa pacca sulla spalla e si appollaiò sullo sgabello accanto al suo. «Ehi, fratello, vacci piano. Non lo sai che i giapponesi l’alcol non lo reggono?»

    «È una sfortuna allora che io sia giapponese solo per un quarto» bofonchiò Jin senza guardarlo. «Perché come obiettivo per le prossime ore ho una sbronza colossale... vuoi farmi compagnia?»

    «Oh, Jin... in questo caso sarà meglio fare gli occidentali questa sera, ti va?» Allontanò con un certo disgusto la tazzina colma di liquore giapponese e picchiettò con le nocche sul ripiano lucido per attirare l’attenzione della cameriera.

    «Due scotch lisci, per cominciare.» Le rivolse un sorriso mozzafiato del tutto inconsapevole, poi tornò a occuparsi del fratello. «Onestamente Jin, che cosa ti aspettavi?»

    Jin grugnì qualcosa che assomigliava tanto a un vaffanculo e ingollò il liquido ambrato tutto d’un fiato.

    «Fai sul serio allora... eh?»

    «Senti, se vuoi stare qui parla di meno e bevi di più.» Spostò gli occhi verdi dal fondo del bicchiere al viso esotico del fratello sperando di avere già la vista appannata e poi, deluso, scrollò il bicchiere vuoto in direzione della cameriera.

    «Devi lasciar perdere questa storia, Jin. Finirà per ammazzarti.»

    «Non sei tu quello incastrato in un matrimonio combinato, quindi piantala di dar fiato alla bocca.»

    «Oh, no. Non cercare di fregarmi, so benissimo cosa hai. Non è il matrimonio con Beth il problema, né il fatto di essere stato costretto a ripudiare Asami.»

    «Hai ragione. È proprio fantastico non aver libertà di scelta. Lo consiglierei a tutti.»

    «Se non ricordo male non hai fatto scenate quando ti hanno detto che eri obbligato a sposare Asami.»

    «Vedi di darci un taglio, Ben.»

    Ben decise di ignorare il suo consiglio. «Quello che non ti sei ancora messo nella zucca è che non puoi farci niente. Asami ti ha piantato in asso un secondo dopo la cerimonia per il vostro fidanzamento e non ne hai saputo più nulla. Sono passati tre anni Jin, per quel che ne sai potrebbe essere già sposata con un altro. Non era quello che ti aveva detto suo fratello, in fondo? Se ne è andata perché era innamorata di qualcuno che non eri tu, mentre tu sei rimasto ad aspettarla e non sei più riuscito a liberartene. Pensi non sappia che non sei più stato in grado di toccare una donna che non sia una prostituta? O di non bere alcol per un giorno intero? Sia come sia, direi che è abbastanza per lasciarsi tutto alle spalle e andare avanti con la vita che il Monaco ha scelto per te.»

    Jin strinse il bicchiere fino a farsi sbiancare le nocche. Fortuna che era fatto di vetraccio spesso e non di un materiale più delicato, altrimenti lo avrebbe mandato in frantumi. «Vedi, è in momenti come questi che vorrei poter uscire a fare strage di demoni.»

    Ben gli lanciò un’occhiata obliqua, uno sguardo assorto indecifrabile, poi fece spallucce. «Finiresti in gattabuia e mi toccherebbe fare di tutto per tirarti fuori. Una seccatura inutile, come cercare di convincere il Monaco a sollevarti dal tuo incarico.»

    Jin mise giù il bicchiere e cominciò a massaggiarsi le tempie con le dita.

    Dio, che vita infernale.

    Se avesse dovuto fare il conto di tutte le cose che erano andate storte negli ultimi anni non avrebbe saputo da che parte cominciare. E aveva appena ventitré anni.

    Sarebbe diventato un re senza una patria su cui governare e senza un esercito da comandare mentre là fuori, per le strade di Fairport, il male respirava e si rafforzava di giorno in giorno senza che lui potesse muovere un dito per fermarlo.

    Presto i demoni oni che li perseguitavano sarebbero tornati a dar loro la caccia, forse si stavano già organizzando per sferrare un micidiale attacco. E poco importava se il sangue degli antichi clan giapponesi si fosse ormai diluito a causa dei numerosi e continui incroci con le razze autoctone. Ognuno di loro, pur con nomi, cognomi e tratti somatici occidentalizzanti, rimaneva pur sempre un erede di Oda Nobunaga e questo bastava a renderlo il primo bersaglio su cui si sarebbe sfogata la furia omicida dei suoi seguaci.

    «Alla democrazia» propose Ben, sollevando il bicchiere. «E alle società evolute che danno una seconda possibilità anche ai portatori.»

    «Alla nostra seconda stupida vita» mormorò Jin, assecondando il brindisi e ingoiando bile.

    Ben trattenne una risata. «Mi stavo dimenticando, questo è il tuo primo mese da Weston’s & Sons. Giusto? Brindo anche a questo.»

    Jin gli lanciò un’occhiata torva. «E cosa ci sarebbe da brindare?»

    «Fratello» iniziò Ben con la voce che trasudava condiscendenza. «Hai accettato di sposare Beth, no? Questo vuol dire che tra, diciamo, due o tre settimane diventerai il nostro nuovo comandante, ti insedierai a palazzo fra tutti gli agi e i comfort possibili e sarai pieno di soldi.» Sollevò il bicchiere ancora più in alto, ammiccando. «Non dovrai essere un impiegato ancora per molto. Nessuno di noi dovrà più esserlo.»

    «Non vedo l’ora» brontolò, scolandosi lo scotch. Poi rimase a guardare il fondo del bicchiere. «Non si tratta solo di me e Beth. Anche se dividere la vita con una donna che mi è indifferente mi fa desiderare il coma etilico non si tratta solo di questo. Che razza di Shogun potrò mai essere? Come difenderò la mia gente? La legge mi vieta qualunque azione violenta, e non ci sono abbastanza fondi per essere indipendenti.» Crollò il capo affranto. «Mi hanno detto che alcuni dei nostri sono spariti. Cosa pensi che significhi? Stanno iniziando a usarci come cavie da laboratorio.»

    Ben si spazientì. «Se non ti spiace preferisco non credere a queste voci di corridoio... la nostra vita mi piace proprio come è ora. Siamo normali adesso, Jin. Persone normali con una vita normale. Per ora dobbiamo solo pensare ad andare al lavoro al mattino e a tornare a casa la sera. E quando sarai Shogun la vita sarà uno spasso.» Strofinò il fondo del bicchiere sul bancone lasciando impronte circolari di condensa. «So che può suonare egoista perché tu sei l’unico che deve sacrificarsi, ma in fondo non posso farci niente... siamo stati maledetti tanto tempo fa, e a te tocca pagarne le spese. Non è stata una scelta mia.»

    Jin fece schioccare la lingua. «Persone normali, dici?» Tirò fuori dalla maglietta il suo omamori, un amuleto di stoffa rossa ricamato in oro. «Per questo dobbiamo indossarlo? Perché siamo normali?» La parola normali sembrava disgustarlo. «Là fuori ci sono centinaia di persone che sono portatori inconsapevoli di altrettanti oni. E questo amuleto non ci nasconderà ancora per molto, Ben. Anche se sposerò Beth, il vincolo potrebbe non reggere questa volta.»

    Ben lo guardò sgomento. «Cosa diavolo stai cercando di dirmi?»

    «Avanti, Ben... lo sai come funziona. Il Monaco sceglie un Nobunaga e una Mitsuhide sulla base del potere che verrà generato dal loro vincolo. Lui aveva scelto me e Asami, non me e Beth. Non può essere la stessa cosa e nessuno può prevedere quello che accadrà, visto che è la prima volta che la futura sposa se la dà a gambe.»

    Ben strinse gli occhi sospettoso. «È questo il tuo gioco, la tua prossima mossa?» Jin rimise a posto l’omamori, improvvisamente depresso. Per essere uno che solitamente usava tutt’altro organo per pensare, quella sera Ben era piuttosto perspicace. «Cercherai di convincere tutti che il tuo legame con Beth non sarebbe abbastanza forte da tenere Oda negli inferi? Farai questo? Non ti basta aver chiesto al Monaco di sostituirti come futuro Shogun?»

    Jin non rispose.

    «Maledizione, Jin.» Si colpì la fronte con la mano, in preda a una folgorazione. «Per questo hai accettato di ripudiare Asami... perché non hai la minima intenzione di sposare Beth.»

    «Complimenti Sherlock. Hai capacità deduttive inimmaginabili.»

    «Accidenti, non puoi farlo. Questa notte ci sarà la cerimonia di fidanzamento... e Asami ti ha lasciato. La regola dice che se succede qualcosa alla futura sposa il futuro Shogun deve stringere il vincolo con la sorella di lei o le parenti più prossime in base all’età e alla discendenza. Sottrarti a quest’obbligo non la farà tornare... non la riavrai, Jin.»

    Jin lo fulminò con un’occhiata omicida. «Continua così e questa sera finiremo con l’azzuffarci.»

    «Lascia che ti dica una cosa, fratellone.» Ben si sporse verso di lui, pigiando il polpastrello dell’indice sul ripiano lucido del bancone. «Puoi minacciare e imprecare quanto vuoi, ma la sostanza non cambierà mai. Asami se ne è andata, e tu sei rimasto bloccato. Ti stai lasciando influenzare a tal punto da non avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e assumerti le tue dannate responsabilità...»

    Era solo a metà del suo sermone quando Jin balzò giù dallo sgabello veloce come un cobra, lo afferrò per il colletto della camicia, e lo sollevò rovesciandolo sulla schiena fino a farlo aderire completamente al bancone.

    I bicchieri si rovesciarono schizzando liquore da tutte le parti, mentre la cameriera cominciava a urlare e i clienti più vicini a imprecare.

    «Qual è il tuo problema, eh?» ruggì. «Ti brucia il fatto che per la seconda volta il Monaco abbia scelto me invece che te?»

    Uno dei ragazzi che aveva rimediato una vistosa macchia di scotch sui pantaloni si avvicinò all’insolito quadretto famigliare con tutta l’intenzione di attaccar briga, ma Jin lo bloccò con un unico sguardo di fuoco. «Non lo farei se fossi in te, amico. Questa non è la serata giusta per giocare a Karate Kid. Avvicinati di un altro passo e invece che in tintoria ti ritroverai all’ospedale.»

    Poi, come se nulla fosse, tornò a dedicarsi al fratello. «Sai, mi è venuta un’idea. Che ne dici di farmi fuori per prendere il mio posto e sposare Beth?»

    Ben gli piantò i palmi sul petto, furioso. «Va’ al diavolo, Jin!» grugnì, dandogli una spinta poderosa. «Questo è un colpo basso.»

    Con uno strattone riuscì a liberarsi, e di nuovo in piedi si mise in guardia, i pugni chiusi davanti al viso e una gamba leggermente più indietro dell’altra.

    Intorno a loro si era creato il vuoto, e anche se nessuno capiva un accidente di quello che si stavano dicendo ormai li stavano guardando tutti.

    «Vuoi davvero fare a botte per lei?» domandò, incredulo. «Perché ti consiglio di dimenticarla? Maledizione! So che saresti uno Shogun migliore di me, ecco perché il Monaco ti ha scelto di nuovo. Pensi davvero che non lo capisca? Sarai un guerriero di valore, puoi credermi sulla parola. Anche se il governo si è messo in mezzo con le sue solite leggi del cazzo tu proteggerai gli Eredi meglio di chiunque altro, troverai il modo di farlo. Che tu non riesca a sentirti così, però, mi fa davvero imbestialire. Solo perché ti ha lasciato non vuol dire che non la meritassi o che tu valga di meno...»

    «Interrompo qualcosa, ragazzi?» Jess comparve come al solito all’improvviso.

    Se ne stava con il gomito puntellato sul piano del bar, le gambe incrociate all’altezza delle caviglie neanche stesse pigramente contemplando un paesaggio onirico e la lunga coda di cavallo arancione, il tipico colore degli orientali che tentano di diventare biondi, le dondolava pigramente lungo la schiena. Lanciò un’occhiata eloquente al pubblico che li circondava e sollevò il mento. «Spettacolo finito, gente. Tornate a farvi gli affari vostri, questo non è uno stupido reality.»

    Ci fu un rapido strusciare di sedie e scarpe, mentre Ben si tranquillizzava senza staccare gli occhi da quelli del fratello.

    «No...» sospirò Jin, alla fine. «Ben mi stava solo dando una lezione di autostima.»

    «Prevedeva un sopracciglio spaccato o un labbro gonfio?»

    «Può darsi...»

    «Eddai, Jin!» Ben abbassò le braccia lungo i fianchi, ancora teso nonostante cercasse di recuperare il buon umore. «Almeno almeno avresti rimediato una commozione cerebrale!»

    Jin sorrise e provò a rilassarsi. Se Jess non fosse intervenuta molto probabilmente non sarebbe stato in grado di fermarsi in tempo, e l’idea di perdere il controllo proprio con suo fratello gli sembrava un campanello d’allarme fin troppo evidente.

    Stava andando fuori di testa. Lentamente e inesorabilmente. Quei tre anni di attesa lo avevano logorato, portando via un pezzo alla volta della sua dannata esistenza, e soltanto un miracolo ormai lo avrebbe fatto sentire di nuovo tutto intero.

    Si sentiva isolato come uno scoglio in mezzo al mare, definitivamente esposto all’erosione.

    Era cresciuto come un guerriero e le sue armi erano inutilizzate nel suo monolocale polveroso. Si era innamorato della donna che avrebbe dovuto sposare e lei se n’era andata via.

    Non era più nessuno, ma un’ombra in un mondo che detestava.

    Peggio di così...

    «Merda» imprecò all’improvviso.

    Ben seguì il suo sguardo e sulla soglia del locale vide comparire una donna bellissima, una di quelle che sembrano fatte apposta per interpretare le sventole da capogiro dei film.

    «Porca miseria, fratello! La conosci?»

    Jin si irrigidì. Evidentemente al peggio non c’era limite. «Sì, lavora nel mio ufficio.»

    Appena lo vide lei agitò una mano in segno di saluto e gli rivolse un sorriso più che radioso.

    «La inviti a bere una cosa?» Ben strabuzzò gli occhi, prendendole le misure. Viso d’angelo un po’ perverso, corpo mozzafiato, capelli da fare invidia a Raperonzolo.

    «Non c’è pericolo.» Jin tornò a sedersi al bancone. Non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi lì di umore ancora peggiore di quando era arrivato.

    «Sai, dovresti essere un po’ più generoso. La sua compagnia mi farebbe davvero felice.»

    «Pure a me» gli fece eco Jess, osservandola avanzare ancheggiando come una top model.

    «Non è di quel genere, Jess. Fatti da parte.»

    «E tu come lo sai?»

    «Si sta mangiando Jin con gli occhi... anzi, direi che sta proprio sbavando.» Sbuffò annoiato. «È proprio vero, chi ha il pane non ha i denti. Vieni Jess, lasciamoli soli... se fai la brava ti insegno come spaccano i veri uomini.»

    Jess si stiracchiò e abbandonò il sostegno del bancone. «L’ultima volta che abbiamo giocato a biliardo ti ho fatto nero, Ben. Io non mi sfiderei fossi in te.»

    Jin provò a trattenerli con un’occhiata implorante, ma Ben scosse la testa imperturbabile. «Ti farà bene, Jin. Asami non è l’unica donna di questo pianeta e il tuo matrimonio non sarà comunque esclusivo... vedi di ricordartelo.»

    Loretta avanzava verso di lui e aveva il tipico sguardo delle donne quando trovano una borsetta di marca in saldo a metà prezzo.

    Spiacente bellezza, pensò con amarezza. Non sono per niente quello che vorresti.

    Caine Thompson era sempre stato convinto che il pericolo fosse il suo mestiere.

    Era sopravvissuto all’adolescenza trascorsa nei sobborghi di Fairport ed era diventato il proprietario del club più in voga di tutto il quartiere, imponendosi sulla mala senza dover pagare il pizzo. Fiuto per gli affari e passione per l’adrenalina, non c’era bisogno d’altro dopotutto. E lui si sentiva bene solo quando il cuore gli batteva a mille, e il sangue pompato a litri nelle vene gli irrorava le cellule cerebrali rendendolo lucido e attento, pronto a tutto.

    Per questo stava così comodo in quel letto, nudo e ammanettato alla testiera di metallo: aveva appena gettato un osso alla belva che era il suo vero io. Aveva appena finito di lottare con una pantera.

    Quando sentì zittirsi lo scroscio d’acqua della doccia non poté fare a meno di agitarsi, mentre una fitta d’eccitazione lo pervadeva fino a farlo contorcere fra le lenzuola.

    Per darsi una calmata si spostò sul bordo del materasso e allungò la mano libera verso il comodino per recuperare il pacchetto di sigarette e l’accendino. Dura cavarsela con una mano sola, pensò saggiando la morsa delle manette che gli imprigionavano un polso. Anche se, in certi casi, poteva valerne davvero la pena.

    Sorrise e si mise comodo, aspirando profonde boccate di fumo e godendosi l’attesa e il senso di impotenza.

    Il fatto era che Alex non assomigliava a nessuna delle ragazze che aveva frequentato nel corso della sua vita, e non soltanto perché era nata da un miscuglio di razze non ben identificato o perché mettesse in mostra muscoli tonici e movenze da pugile. Caine aveva la netta sensazione di assomigliarle, quasi fossero anime gemelle, e per questo la trovava davvero attraente. Fin da quando si era presentata al suo locale in cerca di un lavoro.

    Se la ricordava perfettamente: jeans strappati, stivali, giubbotto di pelle, zero trucco e uno sguardo impenetrabile. Con quell’abbigliamento si sarebbe aspettato pesanti righe di kajal nero a sottolinearle gli occhi vagamente a mandorla e piercings sparsi un po’ ovunque, invece l’aspetto acqua e sapone faceva allegramente a pugni con l’aria da dura e i capelli rasati solo da un lato.

    Quindi non era il genere di ragazza mansueta tutta peluches e smancerie, né la tipica sociopatica tutta cuoio e trucco insolito. E non aveva neppure l’aria avvilita delle ballerine fallite che nel suo locale accettavano a malincuore la promozione a spogliarelliste, sebbene fosse in grado di eseguire alla perfezione una piroetta o una spaccata. Per quanto si sforzasse di interpretarle, le intenzioni di Alex rimanevano un enigma. Voleva semplicemente un lavoro e lo voleva al Blue Hell. Chissà poi perché.

    Alex emerse dal bagno avvolta in un accappatoio color prugna, raggiunse il centro della stanza e si chinò per raccogliere gli indumenti sparpagliati sul pavimento.

    «Hmm... che bella vista, dolcezza!»

    «Ci tieni tanto a non essere liberato?»

    «Eddai... è solo un nomignolo affettuoso.»

    Si fermò a fissarlo, appoggiandosi pigramente alla parete tappezzata a motivi floreali. «Avvisami quando starai per farmi una dichiarazione d’amore, così cerco un po’ di cicuta.»

    «E questo come lo chiami se non amore?» Caine fece tintinnare il metallo delle manette contro la spalliera del letto, strizzandole l’occhio. «Non dirmi che puoi farlo con chiunque.»

    «Non voglio rovinare la poesia del momento, ma mi hai semplicemente fatto incazzare. E lo sai.»

    Caine rise di gusto, schiacciando il mozzicone sul fondo del portacenere di plastica dura. Sì, eccome se lo sapeva. L’aveva toccata dove non avrebbe dovuto e lei aveva reagito come c’era d’aspettarsi, stendendolo con un pugno alla mascella e immobilizzandogli la mano colpevole dell’intrusione con quelle manette. Poi avevano continuato e concluso alla grande, il massimo della libidine per la sua vena da lottatore.

    «Questa roba va forte in questo periodo.» Sorrise sornione, flettendo il bicipite nel tentativo di liberarsi. «Sai, dominatori, dominatrici... è la moda.»

    Alex dondolò il capo sul collo sottile, i capelli più lunghi da un lato sgocciolavano acqua inzuppando la spugna dell’accappatoio. «Ti sembro il tipo che segue le mode?»

    «E chi lo sa?» Fece spallucce, eccitandosi all’idea di farla arrabbiare. «Però, francamente, non capisco che genere di problema hai con la parte destra del tuo corpo.»

    Fu Alex a stringersi nelle spalle a quel punto, piegando la bocca in un sorriso sinistro. «La parte destra... morde.»

    Con un movimento deliberato e lascivo lasciò cadere a terra i vestiti e si sfilò l’accappatoio mettendo in mostra il gigantesco tatuaggio che le ricopriva interamente la parte destra del torace, dalla gola all’inguine, seno e braccio compreso. Un disegno complicato che rappresentava il volto di una scimmia con la bocca aperta su zanne acuminate e corna ricurve sulla testa, il tutto avvolto da quelle che sembravano le fiamme dell’inferno.

    Caine emise un fischio sommesso.

    «Solo guardarti mi manda su di giri... che ne dici di tornare qui e liberarmi? Prometto di fare il bravo questa volta. Sul mio onore.»

    Alex scoppiò a ridere e cominciò a rivestirsi, sollevando le braccia per infilarsi la canotta e costringerlo a fischiare ancora. «Caine, se vuoi far colpo su di me lascia perdere l’onore. È nettamente sopravvalutato.»

    «Suggeriscimi come, allora, pendo dalle tue labbra» replicò, con un sorrisetto che lasciava intendere e non solo in senso metaforico.

    «Oh, Caine, non saprei proprio.» Gli strizzò l’occhio. «Però potresti darmi una promozione, non è per questo che le ragazze come me vanno a letto con il capo?»

    Lui sogghignò, mentre i suoi lineamenti da rapace si inasprivano raccogliendo la sfida. «Dunque è così, vieni a letto con me per diventare prima ballerina?»

    «Certo. Non si vede che è la mia massima aspirazione?»

    Si allacciò i jeans, strinse la cintura fino all’ultimo foro e tirò fuori da sotto la canotta la sua collana, lisciandola e sistemandola quasi con devozione.

    Quel delizioso sacchetto di stoffa annodata che portava al collo era l’unico vezzo che le avesse mai visto indossare, l’unica cosa che tenesse addosso durante i loro incontri movimentati o le sue esibizioni al Blue Hell.

    «Sai è singolare che una come te che non ha pudori a rimanere nuda sia tanto affezionata a quel rettangolino di stoffa. Perché non te lo togli mai?»

    Alex stirò le labbra in un sorriso cattivo, e lo fissò con i suoi occhi scuri e freddi. «Non lo tolgo perché non voglio correre il rischio di doverti ammazzare.» Frugò nelle tasche, poi gli lanciò la chiave delle manette. «A più tardi, Caine. Come sempre è stato un piacere.»

    Loretta colpì la palla bianca con la stecca, e per la ventesima volta riuscì a mandarla direttamente in buca, avvalorando la teoria di Jin che le donne, etero e per di più belle, avessero una mira terribile.

    «Oh Jin, mi spiace... sono davvero una frana!»

    Jin le sorrise disinvolto. «Tranquilla, Lor. Stai migliorando.»

    Jess e Ben sorridevano sotto i baffi, e non solo per la vittoria in pugno. Tutta quella serata era stata un susseguirsi di situazioni imbarazzanti, non ultima l’idea di sfidarsi a biliardo.

    Loretta non aveva mancato un’occasione per strusciarglisi addosso, lanciandogli segnali inequivocabili su quali fossero le sue vere intenzioni, e aveva bevuto talmente tanto che adesso stava iniziando a barcollare su gambe malferme e a strascicare un po’ troppo le parole.

    In pratica Jin avrebbe dovuto fare miracoli per vincere quella partita, e per non doverla riaccompagnare a casa.

    Jess strofinò la punta della sua stecca con il gessetto azzurro, poi si piegò agilmente sul tavolo e prese la mira. Con un colpetto da maestra fece rimbalzare la palla contro due sponde e spinse la nera nella buca annunciata.

    «Touché» ridacchiò Ben, tendendo la mano alla sua compagna di squadra per battere un cinque. «Volete la rivincita?»

    Loretta si accoccolò contro Jin, prendendolo alla sprovvista. «No, ragazzi. Sono davvero stanca...» trattenne un singulto, «e un po’ brilla.»

    «Già, lo vedo.»

    Jin cercò di allontanarla, ma lei gli rimase ancorata addosso come una ventosa. «Okay, be’, immagino sia arrivato il momento di andare a casa. Che ne dite?»

    «Naaa...» Ben declinò l’offerta con un gesto della mano. «Io devo aspettare Dread, poi ho una cosa da fare più tardi. E anche tu, Jin.» Controllò l’orologio che portava al polso. «Diciamo che hai un paio d’ore. Approfittane, fratello.» Gli strizzò l’occhio. «Arriverai bello rilassato.»

    Jin gli lanciò un’occhiataccia e si voltò verso Jess, ma anche lei scosse il capo in segno negativo. «Non faccio da babysitter a nessuno, spiacente.»

    A quel punto trasse un respiro profondo. «E va bene. Visto che non ci sono alternative... andiamo.»

    Loretta sghignazzò appoggiandosi al suo corpo saldo e forte e incespicando nei suoi stessi passi.

    Considerando lo scarso equilibrio con cui si reggeva in piedi non aveva possibilità di riaccompagnarla sana e salva a casa su due ruote, quindi decise di prendere in prestito la sua piccola utilitaria ultimo modello pianificando di tornare più tardi a recuperare la sua adorata motocicletta.

    «Coraggio piccola. Tira fuori le chiavi dalla borsa di Mary Poppins.»

    Loretta ridacchiò, e con un po’ di fatica riuscì a consegnargli il mazzo.

    «Okay... attenzione alla testa...» L’aiutò a prendere posto sul sedile del passeggero, poi girò attorno alla monovolume e sedette al volante.

    Loretta biascicò il suo indirizzo, poi finse di scivolare in un sonno profondo e ristoratore. Così, raggomitolata su un fianco, lo osservò a occhi socchiusi senza attirarne l’attenzione e per tutto il tragitto rimase incantata a guardare quei lineamenti scolpiti, quegli occhi verdissimi lievemente a mandorla e quei capelli biondi e lisci raccolti sulla nuca. Non aveva affatto lo stesso aspetto dei suoi colleghi, ma aveva un’aria selvaggia e pericolosa. Talmente affascinante che avrebbe volentieri urlato di gioia.

    Jin McDowell era caduto nella sua rete, finalmente.

    Non c’era una ragazza nel loro ufficio che non lo trovasse attraente e desiderabile, ma lui non sembrava interessato a nessuna di loro. Però era certa che non fosse né gay né impegnato ed era altrettanto sicura di piacergli. Quindi ecco la sua grande occasione, da soli a casa sua dopo qualche bicchierino di troppo.

    In uno dei quartieri più ricchi di Fairport, a un paio di chilometri dal Blue Hell e dall’appartamento di Caine, Alex tamburellava con le dita sul volante, acutamente consapevole del trascorrere lento e preciso del tempo. Oltre il parabrezza la luna si era staccata dal velo di fronde che la ricopriva, ansiosa di tuffarsi in uno stagno pieno di stelle.

    Lanciò l’ennesima occhiata all’orologio sul cruscotto. Erano le ventidue.

    Taro non rientrava mai così tardi, era una delle sue regole. Ogni sera, qualunque giorno della settimana fosse, faceva in modo di essere a casa in tempo per dare la buonanotte alla madre e per controllare che le sorelle non stessero facendo follie in centro città. Poi, se capitava, usciva di nuovo, per conto suo o con gli amici.

    Lei aveva piantonato quel dannato viale d’accesso per un mese di fila dalle venti a mezzanotte, si era preoccupata di fare sempre il giro della casa, di spiare tutte le finestre e ispezionare dall’esterno ogni stanza, ma di Taro non aveva mai trovato nessuna traccia.

    Dalla posizione in cui si appostava, invece, era riuscita a vedere Beth molto da vicino. Un paio di volte le era sfrecciata davanti alla guida della sua nuova auto fiammeggiante e le aveva dato l’idea di essere diventata la tipica donna in carriera: giacca elegante e sobria, capelli raccolti sulla nuca, una valigetta ventiquattrore sul sedile del passeggero.

    Sembrava felice. Soddisfatta.

    Aveva l’aria di essere uno di quegli avvocati freschi freschi di laurea che cercano di dare il massimo nello studio per cui fanno praticantato.

    Taro doveva essere molto orgoglioso di lei. E preoccupato da morire. Anche se, probabilmente, le sue apprensioni da fratello maggiore le riservava più che altro alla sorella più piccola.

    Piegò la bocca in una smorfia amara, poi girò la chiave nel quadro e il motore si accese con un rombo soffocato.

    Non c’era più niente da aspettare oltre quel cancello in ferro battuto. Taro non sarebbe arrivato come non era capitato la sera prima o quella prima ancora.

    Buffo. Era tornata a Fairport solo per incontrarlo, ma lui non c’era più. Almeno non nei posti dove sperava di trovarlo.

    Al Blue Hell non si era fatto vedere e, a quanto pareva, aveva cambiato residenza. Considerando le sue fissazioni in materia di sicurezza e privacy non poteva sperare di trovare il suo indirizzo sull’elenco o di poter battere palmo a palmo l’intera metropoli sperando di imbattersi prima o poi in un campanello con stampato in bella grafia Taro Williams.

    Doveva cambiare strategia. Mettersi in contatto con gli altri era fuori discussione, non ci teneva proprio a rivedere Jin, Ben, Dread e tutto il resto di quel gruppo di invasati, quindi rimanevano ben poche alternative.

    Aveva sperato di poterne fare a meno, ma a quel punto era diventato inevitabile. Per quanto l’idea non le piacesse, avrebbe chiesto udienza a una delle quattro streghe guardiane di Fairport, l’onibaba del nord.

    Jin accese la luce e davanti ai suoi occhi prese forma un piccolo soggiorno squisitamente arredato e incredibilmente ordinato.

    «Bel posticino, Lor. Complimenti.»

    «Non è niente di che...» gli sussurrò all’orecchio, aggrappandosi più forte al suo collo.

    La cucina a vista si affacciava su una piccola sala da pranzo separata dal salotto da un morbido tappeto persiano, e alle pareti erano appesi quadri a olio raffiguranti paesaggi campestri intervallati qui e là da buffi collage di fotografie.

    Jin si sciolse dal suo abbraccio e la depositò con molta delicatezza sul divano poi, acutamente consapevole della situazione imbarazzante che si stava per creare, indietreggiò di qualche passo.

    Non era stato così male tenerla fra le braccia, però. Pesava pochissimo, profumava di vaniglia e le onde morbide dei suoi capelli gli avevano solleticato il mento per tutto il tempo. Solo che non ce l’avrebbe mai fatta ad andare oltre quel rapido contatto, ne era dolorosamente consapevole.

    Ben glielo avrebbe rinfacciato a vita, c’era da scommetterci. Trovarsi nell’appartamento di una ragazza tanto bella quanto disponibile e non alzare un dito su di lei non era soltanto da stupidi, era un affronto a tutto il genere maschile. D’altra parte, però, emanare tanti estrogeni e poi non riuscire ad avere un’erezione tale da poter essere chiamata in quel modo era la peggiore delle condanne con cui potesse essere punito.

    Per tentare di darsi una svegliata provò a immaginare quello che le avrebbe fatto suo fratello fosse stato al suo posto e si ritrovò regista di un film a luci rosse. Le avrebbe sfilato le scarpe e si sarebbe cimentato in un perfetto massaggio ai piedi. Poi sarebbe risalito lungo i polpacci, oltre le ginocchia, sempre più in alto ed evitando accuratamente le zone più sensibili le avrebbe tolto le collant trasparenti e magari anche gli slip.

    L’idea di lasciarla senza biancheria sotto alla gonna stretta era estremamente eccitante e fu costretto a cambiare posizione per cercare di rilassarsi un po’.

    «Perché non ti siedi?»

    La sua voce calda lo fece barcollare e per un riflesso incondizionato si lasciò cadere su una delle sedie attorno al tavolo da pranzo.

    «Non intendevo lì» ridacchiò, scostandosi i capelli dal viso. «Raggiungimi qui...»

    Accarezzò lievemente la stoffa damascata del divano indicandogli il posto accanto a lei.

    «Lor, non credo sia saggio...»

    «E perché? Perché siamo colleghi?» Si sollevò quel tanto da riuscire a togliersi la giacca del tailleur, poi scalciò via le scarpe e piegò le gambe sotto il sedere. «Se è quello che ti preoccupa... lavoriamo in dipartimenti diversi. Non abbiamo neppure lo stesso capo.»

    «No, cioè... sì... ma, credimi, non sarebbe una bella idea.»

    Si sporse verso di lui, spingendosi gli occhiali da vista sulla cima della testa. «Io penso sarebbe un’idea magnifica, invece.» Riprese ad accarezzare il cuscino del divano. «Avanti, non farti pregare...»

    Quella voce pareva miele e lo irretì a tal punto da costringerlo ad alzarsi per sedersi accanto a lei.

    Così vicino il suo profumo era inconfondibile, sofisticato nonostante la fragranza piuttosto comune, e sotto l’effetto della luce soffusa delle abat-jour i suoi lineamenti parevano ancora più belli.

    Certo che, tutto sommato, forse poteva farcela. Bastava pensare che lei lo desiderasse davvero.

    Era quello l’unico problema dopotutto, il nodo di tutta quella faccenda. Da quando Asami l’aveva lasciato gli sembrava di non meritare nessun’altra, e sul più bello si sgonfiava sempre. Come un palloncino infilzato con un ago appuntito.

    Allungò una mano e le accarezzò una guancia, indugiando sul profilo della mascella e sulla fossetta del mento. «Sei davvero bellissima, Lor.»

    Gli sorrise estasiata e passò velocemente al contrattacco. Le sue dita volarono sui bottoni della sua camicia, slacciandoli a uno a uno per rivelare pian piano lembi di pelle glabra con destrezza da vera professionista.

    Si irrigidì all’istante, mentre il cuore accelerava mettendogli una gran voglia di scappare via.

    Rilassati, razza di scemo.

    Si impose di respirare a fondo e lasciò che gli aprisse la camicia e gli passasse la punta delle dita sulla clavicola e poi sui pettorali.

    Era piacevole. Molto piacevole. Forse sarebbe stato diverso con lei, forse sarebbe riuscito a non cedere appena si fosse ritrovato senza pantaloni. Forse poteva guadagnare un po’ di autocontrollo in tempo per festeggiare il suo nuovo fidanzamento. Forse valeva la pena provare.

    «Ehi...» fece lei a un certo punto, in un ansito sommesso. «Che belli, sono ideogrammi giapponesi?»

    Stava osservando i due piccoli simboli che gli avevano disegnato sopra il cuore e per Jin fu come ricevere una secchiata d’acqua gelida in pieno viso. L’eccitazione scomparve, il calore che gli aveva scaldato il petto si solidificò all’istante in un blocco d’aria ghiacciata.

    «Sì» grugnì rude.

    Inconsapevole del suo repentino cambio d’umore lei fece scorrere l’indice sull’inchiostro rossastro. «Che cosa rappresenta?»

    Jin sobbalzò e le afferrò il polso in malo modo, scostandole la mano dal petto. «Ferma» le intimò senza la minima gentilezza. «Non voglio che lo tocchi.»

    Loretta sgranò gli occhi sorpresa, poi strattonò il braccio per liberarsi.

    «Che ti prende, eh?» farfugliò piccata, massaggiandosi il polso.

    «Niente, ma adesso me ne vado.»

    Saltò in piedi come se il divano stesse andando a fuoco e appena fu abbastanza lontano cominciò a riallacciarsi la camicia.

    Il volto pallido e confuso di Asami gli si era condensato nella mente. Così, all’improvviso. Come una lacerazione dell’anima, uno strappo fra passato e presente, un taglio mai rimarginato.

    Quel tatuaggio era per lei. Una patetica dichiarazione d’amore che ora avrebbe portato per sempre con sé.

    Sì, era proprio così. L’amava da prima che il Monaco la scegliesse come sua sposa, da prima che fossero costretti a formare la nuova coppia eletta. Ed era corso in quel negozio di tatuaggi la sera stessa del loro fidanzamento, probabilmente mentre lei stava progettando la fuga riempiendo alla rinfusa una valigia per scappare al più presto e non essere costretta a sposarlo.

    Quello era il suo cazzo di regalo per il loro cazzo di matrimonio che non c’era mai stato, ma sarebbe rimasto lì dov’era e nessuno poteva toccarlo. Perché, sì, Asami si era presa il suo cuore, ma nessun’altra doveva azzardarsi a riportarlo al suo posto. Mai.

    Capitolo 2

    Alex accostò la macchina al marciapiede e da lì proseguì a piedi. La strada diroccata e poco illuminata seguiva vecchi casermoni abbandonati e scheletri di magazzini ormai in disuso con i vetri delle finestre rotti dall’esterno e le porte sfondate.

    Il quartiere dove si trovava era situato all’estremità nord della periferia di Fairport e persino gli spacciatori e i delinquenti lo avevano ormai abbandonato. Erano rimasti solo i senzatetto e qualche balordo occasionale.

    Un gruppo di ragazzi con i capelli sollevati in creste colorate e i volti tempestati di anelli di metallo campeggiava su una panchina arrugginita, mentre uno spinello passava di mano in mano e lo stereo appoggiato a terra pompava musica punk a tutto volume.

    Alex li superò senza degnarli di uno sguardo, ma si limitò a sollevare la falda del giubbotto quel tanto da mostrare loro il calcio della pistola che teneva infilata nei pantaloni. Era un avvertimento inequivocabile nel caso si fossero messi in testa di fare gli stupidi e darle fastidio.

    Svoltò l’angolo e si ritrovò davanti a un edificio completamente ricoperto di scritte e disegni realizzati con le bombolette spray. In mezzo a tutta quell’accozzaglia di segni casuali e artistici, fra insulti razzisti e dediche romantiche, il portale giapponese risultava perfettamente mimetizzato.

    Alex lasciò scorrere la mano sulla superficie ruvida del muro, seguendo i contorni del Torii con cupa meraviglia. Due linee verticali sormontate da una orizzontale con le estremità ricurve verso l’alto. Nulla di più.

    Quando da bambina le avevano rivelato che il Torii nord non era altro che un’incisione sul muro, una specie di disegno fatto con il gesso, si era sentita davvero delusa. Aveva sempre immaginato un portale imponente e glorioso, qualcosa che riportasse al fasto e all’importanza dei clan giapponesi, invece si trattava di un’illustrazione tanto semplice da risultare elementare. La stessa cosa valeva per i restanti punti cardinali della città, tutti protetti da Torii praticamente invisibili.

    Quello che importava però, era il potere che vi si celava.

    Quando Oda Nobunaga era tornato dal mondo dei morti per vendicarsi del tradimento subito, non c’erano andati di mezzo soltanto gli Eredi. A quell’epoca l’occulto e il soprannaturale facevano parte integrante della vita di ogni uomo e non erano semplicemente un’espressione del loro immaginario, quindi anche le streghe e gli spiriti erano stati coinvolti nella guerra contro il feroce condottiero. Nessuno escluso.

    Non tutti si erano schierati contro Oda, ovviamente, ma le quattro onibaba che vegliavano su Fairport erano state valide alleate degli Eredi. Le loro previsioni del futuro avevano permesso di scongiurare molte imboscate e di organizzare attacchi vittoriosi contro l’esercito di Oda. Ma soprattutto impedivano agli oni di penetrare dal mondo dei morti in quello reale. La loro forza creava una rete quasi sempre invalicabile e Alex era sicura che se non fossero state presenti a Fairport, la città sarebbe diventata presto una lugubre distesa di lapidi.

    Estrasse uno dei pugnali che aveva nascosto negli anfibi e si ferì il palmo, poi macchiò il muro con il sangue e attese.

    Prese a soffiare una brezza gentile che raccoglieva le cartacce e le foglie secche disseminate lungo la strada e le faceva danzare in aria in vortici e capriole.

    Rabbrividì, ma non si mosse.

    Un gatto emerse dall’ombra titubante. Aveva il pelo color carbone, fatta eccezione per una chiazza candida che gli ricopriva le orecchie e la cima della testa. Le si avvicinò a piccoli saltelli, poi si fermò, annusò l’aria socchiudendo gli occhi verdissimi e si lanciò di corsa verso la parete. Arrivato a meno di mezzo metro dal muro spiccò un balzo e passò attraverso il Torii scomparendo al di là della parete in un lampo di luce.

    Le linee che formavano il portale incominciarono a brillare, e lo strato di intonaco al loro interno vibrava come se fosse stato fatto di viscida gelatina. Si udì uno schiocco e un ansito e dallo stesso punto dove era sparito il gatto venne sbalzata fuori una figura femminile.

    Si accovacciò sull’asfalto respirando rumorosamente, poi si raddrizzò lentamente, quasi srotolandosi, in un movimento dinoccolato che non aveva nulla di umano.

    Alex la guardò soffocando sorpresa e ribrezzo. Era molto alta e altrettanto magra. Il corpo androgino era nudo, coperto in modo disordinato da lembi di tessuto nero. I capelli completamente bianchi le ricadevano sulle spalle in una massa incolta e gli occhi erano di un verde accecante, con tre pupille bianche ciascuno, piccole come capocchie di spillo.

    Quando quello sguardo freddo e penetrante incontrò il suo, Alex rimpianse le figure dei libri di fiabe che suo padre le leggeva quando era piccola. Lì le streghe giapponesi avevano un aspetto molto più orrendo, ma decisamente meno inquietante.

    «Onibaba.» Si inchinò deferente. «Perdonami se ti ho svegliata.»

    «Erede» sillabò lei, in una specie di sibilo rauco. «Fammi vedere il polso.»

    Alex allungò il braccio sinistro con il palmo della mano ancora sanguinante rivolto verso l’alto e le dita ossute della strega lo afferrarono attirandolo a pochi centimetri dal suo viso. Osservò con interesse morboso la cicatrice che rappresentava il clan a cui Alex apparteneva e solo quando si reputò soddisfatta lo lasciò andare.

    «Interessante» mormorò assorta, picchiettandosi il mento con l’indice nodoso. «Davvero interessante.» Poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «Sono trascorse molte stagioni da quando sono stata invocata l’ultima volta. La guerra è finita. Questi sono tempi di pace. Cosa ti ha portata fino a qui, Erede?»

    Non era possibile decifrare la sua espressione tanto era fissa e vacua, né quel tono di voce così assente e monocorde, ma Alex era pronta a scommettere che neppure lei credesse realmente a quanto stava dicendo.

    «Per noi non esiste la pace, onibaba» azzardò, sfruttando cauta quella sensazione. «Ognuno di noi è impegnato nella sua guerra e io sono qui per vincere la mia.»

    La strega le girò attorno, studiandola con gli occhi socchiusi. «Io non posso darti la vittoria, Erede. Tutto ciò che posseggo sono immagini frammentate di quello che sarà il futuro. Sono un oracolo e una guardiana, nulla di più.»

    Alex rimase immobile durante tutta l’ispezione senza dar segno di esserne infastidita e scelse con molta cura le sue parole. «E questo è abbastanza, onibaba. Voglio solo sapere dove posso trovare un uomo.»

    «È così allora, stai cercando qualcuno.» Si fermò per guardarla dritta negli occhi. «Da che vi conosco state sempre cercando qualcuno. O qualcosa.» Si interruppe, contemplando l’orizzonte che altro non era che il profilo confuso dell’asfalto racchiuso da edifici fatiscenti. «E mettete

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