
Se mai avesse conosciuto Kafka – come scrittore intendo – il commissario di polizia Louis Sadosky avrebbe forse rivalutato i da lui tanto deprecati ebrei: sarebbe stato magari costretto dalle pagine dell’autore praghese a empatizzare addirittura con essi, lui che aveva la capacità d’immedesimarsi negli altri pari a quella di un frigorifero.
Ne Il processo, infatti, appare dipinta in forma neppur troppo allegorica la terribile disavventura che non si conclude rà tanto con una tragedia privata come l’esecuzione insensata di un singolo individuo, ma come è legittimo dedurre proprio dalla morte del protagonista del romanzo, con una tragedia che coinvolge perennemente un numero imprecisato di esseri umani… Forse tutti o quasi, se si escludono gli addetti, poliziotti o magistrati che siano, al funzionamento del terribile meccanismo giudiziario chiamato esistenza.
Le cose, come si comprenderà meglio più avanti, non vanno in modo tanto diverso nel mondo quotidiano di Sadosky (salvo il fatto, e non è cosa da poco, che lui reciterà due parti in commedia: imputato prima e poliziotto dopo). Detto in altri termini, quanto subisce Josef K. è quanto accade all’umanità passata, presente e futura descritto nei termini della letteratura, ma quel che capitò nella realtà a Louis S. purtroppo ne è la traduzione realizzata nella storia sanguinosa della Seconda Guerra Mondiale.
Sia questioni fondamentali, come la mancanza di un preciso capo d’imputazione tanto per Josef quanto per Sadosky, che le regole a partire dalle quali si svolge il processo, non vengono mai del tutto chiarite; persino certi particolari come la durata precisa del dibattimento o la mancata detenzione dell’uno e quella soltanto parziale, a sprazzi, dell’altro sono rispettati.
