
Sabato sera sulla Bourbon, la via dei locali di New Orleans. Un gruppo eterogeneo – jazzisti locali, adolescenti con berretti da baseball, coppie di anziani in pantaloni no stiro – siè uno di loro da oltre vent’anni. Cullandosi il sax tra le braccia, inizia a parlare del suo amore per New Orleans e la musica che ha inventato: “Sono nato e ho trascorso l’infanzia in una piccola città al di là del fiume chiamata Algiers. È stata mia madre ad avviarmi alla musica. Passavo davanti alla sala della banda nella scuola elementare e vedevo queste ragazzine che avevano questi piccoli corni curvi. C’erano la tromba, il trombone e il clarinetto – quelli li conoscevo. Ma non sapevo cosa fosse il sax. Quando sono andato a parlare con il direttore della banda e lui mi ha chiesto che strumento volessi suonare, gli ho risposto: “Non lo so, devo chiedere a mia madre”. E la sua risposta è stata: “Tesoro, suona il sassofono. Quello va suonato in modo delicato e tranquillo”. Così ho detto al direttore che volevo suonare il sax. Ero felicissimo: sapevo suonare jazz, blues, rock and roll, tutta quella roba lì. Suonavo in Bourbon Street, in questo locale che si chiamava Congo Den. Erano i tempi della segregazione razziale. Ci era consentito suonare ma dovevamo entrare dall’ingresso secondario. Non potevamo entrare dalla porta principale né fare altro. Però la nostra musica piaceva a tutti. Allora le cose stavano così. La prima volta che ho suonato alla Preservation Hall è stato nel 1995. Ancora oggi è il posto in cui preferisco esibirmi”.