ERA IL 1895 QUANDO IL TERMINE “ETNOBOTANICA” fu coniato da John W. Harshberger, botanico tassonomista dell’Università della Pennsylvania, per indicare lo studio delle piante nelle società primitive, preceduto nel 1874 – si era nel pieno del secolo delle grandi esplorazioni – dall’etnografo americano Stephen Powers che definì “botanica aborigena” lo studio di tutte le forme del mondo vegetale che le popolazioni di terre lontane o vicine, dall’Amazzonia alle tribù indiane native della California, usavano per vari scopi: nutrimento, medicina, ornamenti e così via. Se nel corso del Novecento questo genere di studi ha conosciuto una forma accademica più sistematica, è solo in anni recenti che l’etnobotanica è arrivata anche alle nostre orecchie, e sulle nostre tavole. Insieme a un altro termine insolito, fitoalimurgia, che indica la conoscenza dell’uso delle specie vegetali (soprattutto selvatiche) a scopo alimentare. Più noto è il “foraging”, recente tendenza della gastronomia scoperta (o meglio, riscoperta) anche da noi grazie a esperti come Valeria Mosca, fondatrice del Wooding Wild Food Lab di Monza, o da chef come Alessandro Miocchi del ristorante romano Retrobottega, che usa nei suoi piatti erbe, bacche e radici fermentate.
Ma, se è vero che in alcune regioni d’Italia la raccolta di erbe o frutti selvatici è parte