funghi, oltre tante colline, magari tra aghi di pino e sovrumani silenzi, a sancire che la cosiddetta “operazione speciale” è finita. È la stagione più jazz di tutte, rain or/and shine: il battere di ciò che pende ci sorprende (però dipende), il levare quanto si cela e poi si svela sotto al terriccio è improvvisazione provvisoria, una provvida primizia prevista alla volta. Sullo sfondo e tra i legni incalza – pieno, pienissimo – il fòliage cui farà eco il vintàge, col perlage dei fiati pronto agli assoli dei sabrage. Come, standard degli standard – e pietra miliare, anzi Miles’ tone (però di József Kozma) – ogni. E quei sandwich mi sono piaciuti quasi di più delle aringhe locali e di certe bacche. Quasi. Il pollo, dunque. Fino a diversi anni fa il pasto in volo non era un frill – gli anglismi sono necessari, our apologies – ma un’amenity ritenuta sacrosanta. Da garantire a tutti, senza distinzione di classe (di prenotazione). Niente nostalgia, era un lusso senza senso ma anche un rito e se ne officiava la liturgia con una litania che saliva di row in row: “fish or chicken?” Chissà, a ripensarci oggi, come facevano vegani & co: magari si buttavano sul Bloody Mary, il più internazionale e trasversale dei cocktail a trentamila piedi. Un generico pesce e uno specifico tipo di carne: food for thought, suppongo (anche se c’entrano ovviamente prassi e dettami religiosi). Il volatile all-season e per tutti i seasoning restituisce comunque la pariglia se in buona parte del pianeta si dice “it tastes like chicken” per rappresentare un gusto indifferenziato. Ricalibrata così la dualità pesce/carne – non simmetrica ma perlomeno reciproca – le frontiere del foodscape globale si schiudono a nuove esplorazioni chicken-driven. Pure quelle dopo un po’ – nemesi indigesta del troppo viaggiare – rischiano di avvitarsi in iper-osservazione. Sarebbe meglio lasciare fare al caso? Come in certe ricette che si dà pigramente per sicuro che siano il frutto di errori, alea, imprevisti fortuiti, etc. Il walhalla culinario mondiale è denso di capisaldi – totem indiscussi e indefessi – figli di presunti accidenti in cucina. Idem per le scoperte frutto di abbagli di sestante, miraggi di land ahoy e rotte sbagliate, etc. Le storie di campi e fornelli si saldano così, pericolosamente, a quelle dei viaggi e il turismo incontra – deragliando sull’etimo binario di inventio (invenzione e scoperta) – la gastronomia nei meandri della serendipità. A quella però ancora non mi piego, non del tutto: una mitologia eccessiva, buona per qualche dramedy e per le scorciatoie da cui i viaggiatori dovrebbero prendere le distanze. O forse no, a ognuno la propria quota di imprevisto. A quel termine catchy preferisco tuttavia Serendip, uno dei primi nomi dello Sri Lanka. E al controverso Colombo l’omonima capitale di uno straordinario paese imbandito, saturo di storie e con ottimi piatti a base di pollo. Ultima nota, sui typos (in inglese): i genitori di József Kozma pare l’abbiano cresciuto a pane, pianoforte e stenografia. I travelogue sono così: si cerca un carattere e se ne trovano migliaia, spazi inclusi: come nel jazz, come d’autunno.
Il pollo di Colombo
Oct 12, 2022
4 minutes
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