LILLY e il vampiro di Atlas

Fuori dalla finestra è spuntata l’alba, il vampiro si è dissolto, Lilly è morta. Il corpo della donna giace sul sofà, sotto la carta da parati cascante e i quadretti ornamentali alle pareti, un preservativo tra le gambe e giù botte alla testa fino a farla morire. Nessun mistero, dunque. Mercoledì 4 maggio 1932 Lilly Lindeström ha rimesso l’anima a Dio. Il corpo no, non le apparteneva più. La domanda è: può un vampiro abdicare a se stesso? Può un discepolo del male risparmiare la più sciagurata delle creature? No, non può. Non nella più maledetta delle storie vampiresche.
L’ULTIMO CLIENTE
È la notte di un quasi mercoledì e siamo al centro del quartiere industriale Atlas – un agglomerato di palazzine tirate su alla svelta nel cuore di Stoccolma –, a cento metri da un bilocale che dà su Sankt Eriksplan, la casa di Lilly. Il cielo è nero. Lei se ne sta affacciata alla finestra della camera da letto immersa nell’albeggiare elettrico. Sulle labbra un filo di rossetto, le gote stinte e una vestaglia di organza lasciata cadere sui seni; insolente e svuotata come una modella di Egon Schiele. Aspetta un cliente, Lilly, l’ultimo della giornata. Le rose a centro tavolo, i cuscini damascati sul talamo e una passata di lisoformio sulle piastrelle: la casa è pronta per riceverlo. Una manciata di minuti e lui salirà nell’alcova. Ma prima c’è un androne, la rampa di scale e una porta da attraversare. Ma prima c’è stata la vita. Lilly Elisabeth Maria
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