Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
LA PAROLA E IL GESTO
Lutto e memoria religiosa di Civitella in Val di Chiana
RELATORI CANDIDATO
prof. Pierangiolo Berrettoni Federico Melosi
dott. Alessandro Grilli
INTRODUZIONE
“Renzino”
«Hande hoch!»
Rappresaglia?
L’apocalisse
Un silenzio documentario
La teoria freudiana del lutto e il lutto di Civitella in Val di Chiana a confronto: un rap-
porto inverso
I partigiani della formazione “Renzino” nel racconto collettivo dei sopravvissuti: un «ca-
pro espiatorio»
La funzione dei tempi verbali nel racconto del massacro: un’analisi testuale
Mito e rito come fondamenti del pensiero religioso di Civitella in Val di Chiana
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
RINGRAZIAMENTI
INTRODUZIONE
4 Cfr. PEZZINO, Paolo, (a cura di), “Guerra ai civili. Per un atlante delle stragi naziste in Italia”, in
http://www.stm.unipi.it/stragi/Guerra_ai_Civili.htm, 2005. La documentazione ivi riportata
testimonia quasi quattromilacinquecento uccisioni avvenute in Toscana su un totale di oltre die-
cimila morti causate in tutta Italia a séguito di stragi nazi-fasciste.
5 Sulle difficoltà, a tutt’oggi sussistenti, nello stabilire un computo definitivo delle vittime di Ci-
8 Cfr. PASQUINELLI, Carla, “Memoria versus ricordo”, in PAGGI 1996, pp. 111-129.
9 Si fa riferimento ad un progetto di ricerca storica e antropologica – denominato “Progetto
Memoria” – istituito nel 1999 dalla Regione Toscana congiuntamente all’approvazione della
Legge Regionale n. 59, dedicata a promuovere “Interventi finalizzati a salvare la memoria delle
stragi nazifasciste in Toscana”. Il coordinamento del “Progetto Memoria” è stato affidato dalle
istituzioni regionali all’associazione culturale I.D.A.S.T. (Iniziative Demo-Antropologiche e di
Storia orale in Toscana), rappresentata da Pietro Clemente (Università degli Studî di Firenze) e
Fabio Dei (Università di Pisa e Università degli Studî di Roma “La Sapienza”). La fase iniziale e
preparatoria del progetto ha potuto avvalersi della collaborazione e della consulenza metodolo-
DAL LUTTO ALLA MEMORIA RELIGIOSA, PASSANDO PER IL MITO E IL RITO
Una considerazione analitica del linguaggio mediante il quale la memoria
collettiva dell’eccidio di Civitella in Val di Chiana si esprime deve necessaria-
mente prendere le mosse da un esame psicologico e antropologico del lutto pro-
vocato dalla strage. La memoria del massacro, infatti, si configura nel ricordo
dei sopravvissuti tanto come socialmente condivisa, almeno quanto collettivo e
totale appare il lutto esperito dai superstiti: una condizione luttuosa che non
concede alcuna possibilità di elaborazione individuale.
In un paese come Civitella – in cui l’incidenza del numero delle vittime su
una popolazione di già esigue dimensioni è altissima – il ricordo della morte di
un parente è per chiunque sempre intimamente legato al ricordo di qualche co-
noscente; in questo senso, ogni lutto individuale contribuisce drammaticamente
al delinearsi di un cordoglio collettivo infinito, uroborico, costretto entro un cir-
colo vizioso di ardua risoluzione; un lutto – come si vedrà in séguito – che rap-
presenta uno scandalo sia per l’ermeneutica freudiana, sia per le tradizionali ca-
tegorie interpretative del sapere antropologico.
Alle donne di Civitella, dunque, uniche sopravvissute all’eccidio, è de-
mandato fin da sùbito il difficile e doloroso còmpito della conservazione e della
trasmissione della memoria della strage, evento originato da un lutto di immane
portata; e, in consonanza con quanto evidenziato dall’antropologa Nicole Lo-
raux a proposito delle «madri in lutto» della Grecia antica 10 , anche le vedove di
Civitella scelgono di affidare i proprî ricordi ad una narrazione collettiva degli
eventi che conducono al massacro del 29 giugno 1944. Contrapposta alla fram-
mentaria e spesso contraddittoria memoria partigiana, la memoria delle donne
di Civitella si mostra invece in tutta la sua coerenza e razionalità, nella sua e-
strema compattezza e condivisione all’interno della comunità.
gica di Giovanni Contini (Soprintendenza archivistica per la Toscana), Luciano Li Causi (Uni-
versità degli Studî di Siena) e Francesco Apergi (Comune di Scarperìa). Il lavoro di ricerca ha
preso avvio nei primi mesi del 2002, grazie alla partecipazione di un gruppo di ricercatori – lau-
reati e laureandi – provenienti in prevalenza dagli atenei di Pisa e Roma. La ricerca si è quindi
articolata e sviluppata, nell’arco di due anni, entro due distinti momenti: 1) un intenso fieldwork
antropologico, effettuato in varie riprese dai ricercatori fra il 2002 e il 2003, in cinque diverse
aree della Toscana interessate da stragi nazi-fasciste: Fivizzano, Sant’Anna di Stazzema, San
Miniato, Mugello e Civitella in Val di Chiana; 2) una consistente rilevazione etnografica com-
prendente la descrizione (mediante la produzione di documenti audiovisivi) di tredici comme-
morazioni pubbliche svoltesi in località colpite da eccidî nazi-fascisti (nel dettaglio, si tratta delle
celebrazioni ufficiali di Campo di Marte, Cavriglia, Crespino, Empoli, Filéttole, Le Matole, Nòdi-
ca, Padùle di Fucecchio, San Giuliano, San Miniato, San Terenzo Monti, Sant’Anna di Stazzema
e Vicchio). Tutta la documentazione raccolta e prodotta – comprendente un cospicuo quantitati-
vo di testimonianze audio- e videoregistrate su supporto analogico e digitale – è stata, al termine
della ricerca, catalogata e depositata presso la sede fiorentina dell’Istituto Storico della Resisten-
za in Toscana, dove è a tutt’ora conservata e disponibile per la consultazione. La schedatura ca-
talografica del materiale è consultabile sul sito Internet della Regione Toscana, all’indirizzo
http://www.cultura.toscana.it/eccidi/doc_fonti/censimento_fonti/index.shtml.
10 Cfr. LORAUX 1990.
Come in una tragedia classica di aristotelica concezione, il racconto col-
lettivo di Civitella cerca di condurre i sopravvissuti ad una sublimazione emotiva
del lutto ordinando i caotici eventi che precedono il massacro, individuando,
cioè, un principio, un logico sviluppo e una conclusione, coincidente –
quest’ultima – con l’arrivo dei tedeschi in paese; e, nella costruzione narrativa
dei sopravvissuti, sono indubbiamente le figure dei partigiani a determinare il
“punto zero” del racconto: infatti, l’intervento armato operato nel circolo ricrea-
tivo di Civitella, nel quale rimangono vittime tre soldati tedeschi, rappresenta
quasi invariabilmente il prologo della narrazione.
Ciò che, in effetti, sembra suggerire alla comunità dei superstiti
l’individuazione dei partigiani locali come unica e inoppugnabile causa del mas-
sacro tedesco è, prima di tutto, l’impellenza di trovare un capro espiatorio che
abbia i requisiti per portare lo stigma della colpa: i tedeschi sono a tutti gli effet-
ti i reali esecutori del massacro, ma – nell’ermeneutica popolare di Civitella – gli
uomini della «Hermann Göring», paradossalmente, di “umano” non hanno al-
cunché; piuttosto, sono spesso narrativamente caratterizzati dalla loro bestialità
e ferina crudeltà, persino da una demoniaca malvagità.
Inoltre, la figura del partigiano ben si presta a ricoprire il ruolo di capro
espiatorio anche per lo status sociale e culturale rivestito: dal punto di vista dei
sopravvissuti, il partigiano rappresenta infatti una figura liminale, una presenza
che, per certi versi, ha il diritto di ritenersi appartenente alla comunità ma, per
certi altri, non può assolutamente farvi parte; a Civitella, i partigiani sono indi-
vidui di giovane età ben conosciuti da tutti ma, contemporaneamente, sono da
tutti temuti e tenuti a distanza in quanto “ribelli”; il partigiano è, in sintesi, uno
«straniero interno» 11 , ossia un ossimorico elemento comunitario al contempo
accettato e rifiutato dalla società.
La memoria sociale del massacro può essere indagata anche da un punto
di vista testuale, attraverso l’analisi di alcuni segni linguistici dalla particolare
funzione pragmatica: i tempi verbali. Nel passaggio dall’oralità alla scrittura –
avvenuto, per così dire, “ufficialmente” nel 1994 con la pubblicazione di Giugno
1944. Civitella racconta, un’opera di storia locale curata da Ida Balò, figlia di
una delle vittime dell’eccidio – i tragici momenti del massacro di Civitella ven-
gono costantemente riattualizzati e vivificati mediante un uso strategico di for-
me verbali al tempo presente – o tempo «commentativo», secondo la definizio-
ne datane dal linguista Harald Weinrich 12 – suscitando così tensione e pathos
narrativi in chi riceve la comunicazione. Ma, al di là di ogni ipotetica velleità let-
teraria, si può certamente credere che il raccontare al presente un drammatico
evento trascorso ormai da mezzo secolo lasci trasparire il fatto che, nel ricordo
dei sopravvissuti, i cinquanta anni che separano l’oggi da quel lontano 1944 so-
no di fatto annullati.
Il racconto collettivo del massacro di Civitella ruota infine, sia nella di-
mensione orale che in quella scritta, attorno ad una serie di elementi “mitici”
che ne evidenziano la funzione simbolica. Si tratta di alcuni episodî esemplari –
l’eroica figura del parroco di Civitella ucciso dai tedeschi, un giovane soldato
“buono” che rifiuta di uccidere gli abitanti, un reduce di guerra che torna a Civi-
tella quaranta anni dopo l’eccidio per chiedere il perdono della popolazione e,
Dino Tiezzi
CAPITOLO PRIMO
L’APOCALISSE
1«Nel corso delle “veglie” qualcuno leggeva da un libro ad alta voce (il libro poteva essere I Reali
di Francia, ma anche la Gerusalemme liberata) oppure si raccontavano “storie di paura” o no-
velle; talvolta si “cantava di poesia”» (cfr. CONTINI 1997, p. 24).
Nel 1944, il borgo di Civitella in Val di Chiana accoglie circa trecento abi-
tanti 2 ed appare – per coloro che abitano entro le sue mura, ma soprattutto agli
occhi di chi risiede nella campagna circostante – una piccola città: un aggregato
urbano dalle ridotte dimensioni ma del tutto autosufficiente, ben organizzato e
in grado di offrire un buon numero di servizî.
Nonostante la massiccia presenza di braccianti al suo interno, il paese, ol-
tre ad alcuni proprietarî terrieri, ospita infatti anche molti artigiani che lavorano
presso la propria bottega. Così, all’occorrenza, si possono trovare il falegname, il
fabbro, il muratore, il calzolaio; e ancora, il meccanico, l’orologiaio, il barbiere e
il sarto 3 .
Inoltre, una vera e propria dimensione “urbana” di Civitella è data dalla
presenza di una casa di accoglienza per anziani dotata di attrezzature ospedalie-
re – il “Ricovero Becattini” – dove esercitano la professione un medico, alcune
infermiere e una levatrice; un asilo infantile; una scuola elementare (frequenta-
ta anche dai bambini delle vicine frazioni) in cui insegnano due maestri; un lo-
cale adibito a luogo di ritrovo e circolo ricreativo, il “Dopolavoro dei Combatten-
ti”; infine, una locanda con funzioni alberghiere, due negozî di generi alimentari
ed una macelleria che non soltanto rifornisce di carni tutta la zona circostante,
ma si occupa anche dello smistamento della celebre carne “chianina”, destinata
ad una vasta piazza che include popolose città quali Arezzo e Montevarchi.
Se nei primi anni del secolo XX il «piccolo mondo antico» 4 di Civitella in
Val di Chiana rappresenta una sorta di centro gravitazionale – sia economico
che politico – per l’area che la circonda (caratteristica, questa, generalmente in-
trinseca ad ogni centro abitato rispetto alla campagna, di solito più dispersiva e
disomogenea), la situazione si mostra notevolmente cambiata negli anni Qua-
ranta: a cominciare dall’episodio che vede il trasferimento della sede municipa-
le 5 da Civitella a Badia al Pino, ricca e densamente abitata frazione della pianura
sottostante, (episodio, questo, avvenuto nel primo dopoguerra e per lungo tem-
po mal digerito dalla popolazione 6 ), l’antico borgo “cittadino” viene vieppiù per-
dendo la sua originale e prestigiosa posizione di predominio sul territorio.
2 I dati contenuti nel censimento della popolazione effettuato nel 1931 riportano un totale di tre-
centotre persone residenti nel centro abitato (di cui centosessanta femmine e centoquarantatre
maschi). La documentazione relativa al censimento è conservata e disponibile per la consulta-
zione presso l’Archivio del Comune di Civitella in Val di Chiana.
3 «Tra questi si distinguevano tipi geniali che operavano con uno spiccato senso artistico. Come
non ricordare gli imbianchini-pittori e i fabbri Caldelli, i calzolai Marsili, i falegnami Scaletti e
Giovannetti, l’arguto “Memmino” tuttofare e i muratori Bonichi con il simpatico “Ballino”, scal-
pellino abile e creativo?» (cfr. BALÒ VALLI 1994, p. 12).
4 Ivi, p. 3.
5 «Non era ancora finita la guerra […] che alcuni consiglieri con a capo il Podestà Lippi Alfredo
riuscirono a far mettere all’ordine del giorno nella seduta del 7 maggio 1917 il trasferimento del-
la sede comunale a Badia al Pino […]. Questa deliberazione fu ratificata dal Consiglio provinciale
il 2 luglio successivo ed il decreto governativo fu emanato il 5 gennaio 1918» (cfr. BIAGINI 1981,
p. 139).
6 «Fu veramente un tiro birbone, soprattutto per il momento in cui fu perpetrato […]. Natural-
mente il malcontento in paese fu grande. Vi furono delle proteste, ma gli uomini più validi erano
alla guerra ed i carabinieri non ebbero a faticare molto per riportare la calma» (ibidem); e, inol-
tre: «Civitella rimaneva nominalmente capoluogo di Comune, anche se la sede, con un tiro man-
cino mai dimenticato dai fieri abitanti, era stata trasferita, durante la prima guerra mondiale, a
Badia al Pino» (cfr. BALÒ VALLI 1994, p. 11).
Dopo la caduta del regime mussoliniano, nel settembre del 1943,
l’entusiasmo nei confronti del fascismo e l’adesione alla neonata Repubblica So-
ciale Italiana sono a Civitella pressoché inesistenti. La stessa carica pubblica di
segretario locale del Partito Nazionale Fascista viene assunta con scarsa convin-
zione nei primi anni Quaranta da Luciano Gambassini, medico della condotta di
Civitella in Val di Chiana, per di più vero e proprio punto di riferimento per
l’organizzazione della Resistenza locale fra il 1943 e il 1944, e successivamente
da Eliseo Bonichi, anch’egli simpatizzante per i movimenti di liberazione nazio-
nale.
Una tale mancanza di interesse e di partecipazione – da parte di coloro
che assumono incarichi ufficiali quanto da parte della popolazione tutta – alla
vita politica intesa come «manifestazione di una nuova società di cittadini, e-
mancipata dai rapporti sociali tradizionali, familiari, di clan, e dalla deferenza
verso i potenti» 7 è certamente da mettere in relazione ad almeno due importanti
fattori: primo fra tutti, il decentramento geografico (e, di conseguenza, psicolo-
gico e sociale) di Civitella in Val di Chiana rispetto ad Arezzo, capoluogo di pro-
vincia e centro irradiatore di informazione e attività politica; in secondo luogo,
si deve considerare il fatto che gli abitanti del paese vivono ormai nella certezza
di un imminente arrivo dell’esercito inglese alleato e ripongono fiducia e spe-
ranza in una sempre più vicina liberazione dalla forza occupante tedesca.
“RENZINO”
Come in molte altre province d’Italia, anche intorno ad Arezzo, a partire
dagli ultimi mesi del 1943, prende avvio l’organizzazione di quel movimento di
liberazione nazionale che segnerà la nascita di grandi e piccole formazioni pa-
ramilitari costituite da giovani resistenti di varia estrazione sociale e apparte-
nenza politica.
Nonostante l’esercito della Wehrmacht in ritirata abbia un’immagine di-
storta e ingigantita della Resistenza italiana (e ciò è dovuto sia al carattere clan-
destino delle bande partigiane sia al metodo di guerriglia da esse adottato per
respingere il nemico, basato su azioni a sorpresa rapide e frequenti, tese a diso-
rientare il nemico), pur tuttavia uno sviluppo progressivo ed unitario della Resi-
stenza aretina appare ostacolato fin da sùbito da una serie di difficoltà.
Sul finire del 1943, Arezzo viene ripetutamente bombardata
dall’aviazione inglese (alla conclusione del secondo conflitto mondiale, sarà
questa infatti la città toscana a riportare le distruzioni maggiori) e quasi tutta la
popolazione è costretta allo sfollamento verso le campagne o verso i vicini paesi
collinari; ed è proprio a causa del generale spopolamento e della inservibilità
funzionale del capoluogo che i comandi partigiani della zona non riescono a
svolgere una attività pianificata ed estesa sul territorio.
Si delinea, per tanto, una situazione locale in cui, assieme a formazioni
partigiane ben organizzate ed estremamente attive – come, ad esempio, la XXIII
RAPPRESAGLIA?
La mattina seguente all’uccisione dei tedeschi al circolo “Dopolavoro”, il
19 giugno, quasi tutti gli abitanti di Civitella, raccolte le poche cose necessarie
alla loro sopravvivenza, fuggono dal paese impauriti dall’eventualità di una rap-
presaglia tedesca alla quale credono ormai di non potersi più sottrarre. Intere
famiglie si allontanano verso la campagna o verso qualche borgo delle vicinanze
dove molti sono i parenti o gli amici che possono offrire loro ospitalità e riparo.
A Civitella, intanto, i cadaveri dei due tedeschi giacciono ancora
all’interno del circolo. Nessuno è entrato nel locale dalla sera precedente. Il par-
roco di Civitella, don Alcide Lazzeri, uno dei pochi rimasti in paese, si fa carico
insieme ad alcune infermiere del “Ricovero Becattini” della sistemazione e della
pulizia dei corpi, affinché possano esser predisposti a ricevere una degna sepol-
tura, secondo il rito cristiano.
Il giorno seguente, alle dieci del mattino, sulla piazza di Civitella compare
un’automobile a bordo della quale siede un ufficiale medico tedesco, giunto per
esaminare ed identificare i corpi dei giovani militari. In accordo con il desiderio
del parroco e della popolazione, l’ufficiale dispone che i due tedeschi vengano
sepolti nel cimitero del paese, situato pochi chilometri a valle.
La cerimonia funebre, officiata da don Alcide, si svolge il giorno stesso,
alle quattro del pomeriggio, in presenza di pochi paesani ed altrettanti militari
tedeschi.
Al termine del rito, un ufficiale tedesco avvicina Luigi Lammioni – un
funzionario municipale che si era preoccupato di raccogliere le generalità ana-
grafiche dei soldati uccisi – e gli ordina di riferire entro ventiquattro ore al co-
mando tedesco i nomi dei partigiani che hanno compiuto l’azione al “Dopolavo-
ro” e il luogo in cui si nascondono. Lammioni, temendo ritorsioni sia da parte
dei resistenti sia da parte dei tedeschi, deciderà di raccontare agli ufficiali del
comando che nessuno a Civitella conosce gli individui che hanno sparato al cir-
colo e che probabilmente si tratta di prigionieri di guerra evasi.
La giornata del 20 giugno, così drammaticamente densa di eventi per i
pochi abitanti che vi hanno partecipato, sembra finalmente volgere al termine,
quando, al tramonto, una nutrita schiera di tedeschi in uniforme sale a Civitella
in assetto da guerra: dopo aver perlustrato strade ed abitazioni, circa trenta per-
sone – per la maggior parte donne e ragazzi – vengono raccolte e raggruppate
sulla piazza del paese sotto la minaccia delle armi. Qualcuno pensa ad una de-
portazione alla volta della Germania, qualcuno crede invece che sia giunta la
tanto temuta rappresaglia tedesca. Tuttavia, nell’arco di una mezz’ora, tutti gli
ostaggi vengono rilasciati e i tedeschi, dopo aver concluso un’accurata perlustra-
zione del paese, ripartono da Civitella con i loro mezzi.
Il pericolo della vendetta tedesca sembra definitivamente scongiurato ed i
giorni che seguono questi intensi momenti di inquietudine e paura rappresenta-
no un lento ma progressivo ritorno alla normalità; fra il 25 e il 26 giugno, quasi
tutti coloro che erano precedentemente fuggiti da Civitella per timore di una
rappresaglia fanno finalmente rientro alle proprie abitazioni, riprendendo ogni
quotidiana attività.
L’APOCALISSE
Giunge così il 29 giugno, che da sempre rappresenta per la gente di Civi-
tella in Val di Chiana una ricorrenza di particolare importanza: in questo giorno
si celebrano infatti i santi Pietro e Paolo, patroni del paese.
I molti abitanti che dopo l’uccisione dei tedeschi al “Dopolavoro dei
Combattenti” erano fuggiti cercando rifugio da parenti o conoscenti in aperta
campagna per timore di una rappresaglia, hanno ormai quasi completamente
fatto ritorno alle proprie abitazioni.
Per di più, il podestà Guido Mammoli e il parroco don Alcide Lazzeri han-
no fatto sapere alla popolazione che il comando tedesco ha emesso un comuni-
cato in cui si ritengono gli abitanti del paese estranei all’azione partigiana del 18
giugno e che non si intende procedere ad alcuna rappresaglia nei loro confronti.
Tuttavia, poco dopo l’alba, fra le sei e mezza e le sette del mattino, mentre
una fitta foschia copre ancora la pianura, in paese comincia a correr voce che un
gran numero di tedeschi sta salendo a Civitella. Poi il terribile rumore degli spa-
ri, ed è l’inizio dell’apocalisse…
Le prime uccisioni avvengono per strada, all’esterno delle mura del paese.
Nonostante siano le prime ore del mattino, già molte famiglie sono uscite di ca-
sa e si stanno recando in chiesa per assistere alla prima funzione religiosa del
giorno, quella che ha inizio alle sette. Adele Falsetti e suo marito Giovanni stan-
no percorrendo insieme la strada che porta a Civitella quando vengono improv-
visamente affiancati da due soldati che intimano loro di seguirli proseguendo fi-
no al paese. Appena pochi passi e Adele si blocca impietrita sentendo un colpo
di arma da fuoco esploso dietro di lei: Giovanni è stato colpito alla nuca e giace
immobile al suolo. Sua moglie si affretta immediatamente a soccorrerlo, ma non
c’è più niente da fare.
Mentre decine di soldati armati di fucili e mitraglie stanno giungendo a
Civitella a bordo di camionette e motocicli, molti abitanti sono ancora nelle pro-
prie case: alcuni di essi sono prossimi ad uscire per andare in chiesa mentre altri
hanno deciso di dormire ancora un po’ e di partecipare alla funzione delle undi-
ci.
Elda Morfini e Gastone Paggi, due giovani e agiati coniugi, genitori di tre
figli, stanno ancora dormendo quando vengono svegliati da alcuni forti colpi
battuti alla porta di casa. Gastone scende le scale seguìto dalla moglie. Alcuni
tedeschi sono nel mentre già entrati in casa e stanno appiccando il fuoco
all’abitazione. Sopra l’ultima rampa di scale, Gastone si imbatte in un soldato
che prima lo ferisce gravemente all’addome con un moschetto e poi scarica al-
cuni colpi di mitragliatrice all’altezza della sua nuca, facendolo crollare mori-
bondo fra le braccia della moglie Elda che nel frattempo era accorsa in suo aiu-
to.
Intorno alle sette del mattino, Pilade Tiezzi è nella stanza da letto dei figli
Dino e Bruno (quest’ultimo infermo e bisognoso di particolari cure e attenzioni).
La moglie di Pilade, Giuseppa, è quasi giunta in chiesa per la messa quando sen-
te gridare da alcuni vicini che i tedeschi stanno arrivando in paese. Inutile è la
sua corsa verso casa per invitare il marito e i figli a fuggire da Civitella: Pilade
decide fermamente di restare in casa. Due tedeschi armati di fucile hanno intan-
to abbattuto la porta d’ingresso e stanno salendo le scale. Queste sono le parole
con cui Dino – sopravvissuto all’eccidio insieme alla madre – ricorda, a distanza
di oltre cinquanta anni, quei drammatici momenti: «[…] si stava lì, nell’attesa
che qualche d’uno entrasse e la prima cosa che vidi, vidi l’elmetto, di un tedesco,
che si affacciò, logicamente un po’ circospetto perché forse aveva paura di qual-
che sorpresa… dietro di lui ne venne un altro… quando si accorsero che eravamo
tre inermi, praticamente, alzarono il fucile… e io in quel mentre mi alzai dal let-
to… nell’alzarmi dal letto arrivai quasi a prendere qualche pallottola, sentii pro-
prio lo spostamento d’aria sui miei capelli delle pallottole che andarono a colpi-
re una mio padre, e era una pallottola esplosiva… lo devastò completamente… e
l’altra colpì alla fronte mio fratello… mio fratello cadde senza fare il minimo
cenno. Mio padre invece… rantolava. E allora venne mia madre per cercare di
rimettere a posto questa faccia devastata, proprio… dall’esplosione […]» 10 .
10Intervista di Silvia Paggi a Dino Tiezzi contenuta in La memoria divisa. Civitella della Chia-
na, 29 giugno 1944-1994, videoregistrazione allegata in supplemento a PAGGI 1996.
Intanto, nella chiesa di santa Maria Assunta, don Alcide ha da poco dato
inizio al rito religioso quando all’esterno si avverte il suono degli spari e si odo-
no le prime grida ed i primi lamenti. D’improvviso, la grande porta centrale del-
la chiesa viene spalancata con violenza da un gruppo di soldati che minacciano
con le armi il parroco e i presenti, intimando loro di uscire all’aperto. Qualcuno,
infilandosi rapidamente senza esser visto nella canonica, in sagrestia o passando
per una finestra sul cortile retrostante la chiesa, riuscirà a nascondersi e salvar-
si. Tutti coloro che sono invece costretti ad uscire sulla piazza – fra cui don Alci-
de, il quale chiede ai tedeschi di poter benedire ed assolvere dai peccati i suoi
paesani – assistono ad un macabro rituale: intorno alla piazza sono state predi-
sposte circa dieci mitragliatrici montate su cavalletti; una trentina di tedeschi
procede intanto nel contare gli uomini che sono stati trovati in chiesa e nel ra-
dunarli nei pressi della antica cisterna medioevale in gruppi di cinque. Quindi,
con scrupoloso e agghiacciante ordine, cinque uomini per volta vengono allinea-
ti sul selciato e uccisi singolarmente con un colpo alla nuca oppure tutti insieme
con una scarica di mitragliatrice. Gli ultimi ad essere disposti in fila, prima di
essere uccisi, dovranno attendere circa due ore.
Durante le esecuzioni che avvengono in piazza, vicino alla cisterna, alcuni
soldati stanno altrove provvedendo a dare alle fiamme le abitazioni con ordigni
incendiarî dopo avervi gettato dentro i corpi degli uomini uccisi per strada. Altri
soldati hanno invece il còmpito di allontanare tutte le donne e i bambini dal pa-
ese. Gli ordini ricevuti sono stati precisi ed i tedeschi obbediscono rigidamente:
uccidere tutti gli uomini. Tutti. Per tanto, anziani, infermi, spesso ragazzi, ven-
gono uccisi senza la minima esitazione.
Dunque, tutte quelle donne e quei bambini che erano per strada, in chie-
sa, nella propria casa, vengono cacciati con la forza dal paese, strappati ai loro
mariti, ai loro padri, ai loro fratelli, ed avviati fuori da Civitella in una «proces-
sione dolorosa» 11 verso la campagna o verso i boschi.
Soltanto diverse ore dopo il massacro le donne potranno ritornare in pae-
se e quello che si profilerà ai loro occhi sarà un orribile spettacolo fatto di fumo,
sangue e morte. Uno scenario apocalittico.
LE FONTI
UN SILENZIO DOCUMENTARIO
In occasione del Convegno internazionale di studî In memory: per una
memoria europea dei crimini nazisti 12 , lo storico Michael Geyer poneva
all’attenzione dell’uditorio quello che, a tutt’oggi, risulta essere un tratto storio-
grafico peculiare dell’eccidio di Civitella in Val di Chiana: la quasi totale assenza
di carte e documenti di parte tedesca inerenti il massacro del 29 giugno 1944.
Nel corso del suo intervento al convegno, Geyer sosteneva che «l’eccidio
di Civitella […] resta un enigma. Dai documenti tedeschi non si ricavano indica-
zioni dirette né sui suoi artefici né sulle precise ragioni che li spinsero a
tanto» 13 ; pur tuttavia, lo studioso avanzava alcune ipotesi per spiegare una tale
scarsità documentaria, individuandone la contingenza in alcune cause principa-
li.
In primo luogo, dal punto di vista logistico e militare dell’esercito tedesco
occupante, la collocazione geografica di Civitella in Val di Chiana e dei suoi din-
torni si situava in una zona giurisdizionale di confine, una sorta di “terra di nes-
suno” in cui operavano in sovrapposizione sia la Decima che la Quattordicesima
armata della Wehrmacht: di conseguenza, le informazioni che da questa area
giungevano al comando tedesco erano scarse e frammentarie, giacché prove-
nienti da quella che per entrambe le divisioni militari in causa rappresentava
una zona periferica.
Secondariamente, per spiegare la mancanza di documenti tedeschi sulla
strage di Civitella è necessario prendere in considerazione – sostiene Geyer – il
tipo di formazione militare che operò il massacro del 29 giugno 1944: la Divi-
sione Corazzata Paracadutisti «Hermann Göring».
Si trattava di un corpo armato particolarmente militarizzato e ben equi-
paggiato materialmente, la cui «base di reclutamento era caratterizzata ideolo-
12 Il Convegno, tenutosi ad Arezzo nei giorni 22, 23 e 24 giugno 1994 e svoltosi presso la Biblio-
teca Comunale “Città di Arezzo”, ha costituito parte integrante delle celebrazioni organizzate in
occasione del cinquantesimo anniversario dell’eccidio di Civitella in Val di Chiana. Una selezio-
ne degli Atti del Convegno è stata pubblicata qualche anno più tardi in PAGGI 1997. La maggior
parte dei dattiloscritti originali degli interventi presentati al Convegno In memory sono deposi-
tati presso l’Archivio della Biblioteca Comunale “Città di Arezzo”.
13 Cfr. GEYER, Michael, “Civitella in Val di Chiana, 29 giugno 1944. Ricostruzione di un «inter-
14 Ivi, p. 31.
15 Ivi, p. 34.
16 Ibidem.
È forse opportuno aggiungere che il Convegno aretino In memory ha co-
stituito, per altro, una feconda occasione per discutere ed – entro certi limiti –
rileggere e riformulare il conflittuale rapporto che alcuni studiosi hanno contri-
buito ad istituire tra fonti scritte e fonti orali, ovvero tra quella che una ormai
consolidata tradizione di cultura occidentale ha da tempo stabilito essere una
contrapposizione fra «storia» e «memoria»: tendente all’oggettività ed elitaria
la prima; popolare e scaturente dalla soggettività la seconda.
A proposito di un avvicinamento – in parte già avvenuto ed in parte au-
spicato per il futuro – fra storici dell’archivio e storici dell’oralità, scrive
l’antropologo John Gillis che «in questi ultimi anni del nostro secolo, vi è […]
motivo di ripensare al rapporto fra storia e memoria. Da un lato, i cultori di sto-
ria orale hanno mostrato che la memoria popolare è molto più dipendente dalla
storia scritta di quanto ci si potrebbe attendere. E hanno mostrato, insieme agli
studiosi di storia sociale, i vari modi in cui le memorie popolari possono arric-
chire le conoscenze storiografiche. Inoltre, è ormai chiaro che la memoria non è
un fatto spontaneo, una diretta espressione dell’esperienza vissuta, come si cre-
deva una volta. D’altro lato, la storiografia risulta essere molto meno oggettiva e
unitaria di quanto si immaginava una volta. Dal nostro attuale punto di vista,
sembra che la storia e la memoria non siano, dopo tutto, così lontane l’una
dall’altra, ma siano, in realtà, modi diversi ma interdipendenti di comprendere
il passato e di utilizzarlo per i nostri fini attuali. Esse non sono in competizione
fra loro, ma collaborano in un mondo moderno che difficilmente potrebbe fare a
meno dell’una o dell’altra» 17 .
Appare dunque còmpito imprescindibile, tanto per lo storico quanto per
l’antropologo, il prendere coscienza del richiamo che storia e memoria si lancia-
no continuamente, della sottile ma sempre presente commistione fra queste due
dimensioni del sapere. E se, da un lato, si continua a sostenere con forza la su-
periorità della storia scritta (poiché fondata su una disamina scientifica dei fatti)
su quella orale (che rischierebbe di consegnare allo studioso una visione sogget-
tivamente ricostruita e, dunque, “distorta” del passato), dall’altro si deve certa-
mente convenire sul fatto che, nel caso specifico di Civitella in Val di Chiana, «la
memoria comunitaria […] non si erge come interpretazione contrapposta rispet-
to a quella storiografica, ma di quest’ultima costituisce la fonte più importan-
te» 18 .
Dunque, un confronto sempre vivo fra le (scarse) fonti d’archivio e la
memoria orale dell’eccidio conservata dalla comunità di Civitella in Val di Chia-
na consentirà – allo storico come all’antropologo – di ricostruire sia i fatti della
storia locale sia l’interpretazione che di quei fatti hanno dato nel tempo i so-
pravvissuti alla strage, poiché «scopo della storia non è stabilire vuote serie di
fatti, ma decifrare il significato che i contemporanei vi lessero, per comprendere
non solo cosa avvenne nel passato, ma chi furono gli uomini, le donne e i bam-
bini che nel passato si trovarono a vivere, come interpretarono la loro esperien-
za, e perché» 19 .
17 Cfr. GILLIS, John, “Le famiglie ricordano. La pratica della memoria nella cultura contempora-
20 Il fascicolo reca il titolo Atrocities committed by German troops at Civitella, Cornia and San
Pancrazio. Public Record Office, London, W0204/11479. Una copia del documento originale
(conservato negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra) è disponibile per la consultazio-
ne presso la Biblioteca Comunale di Civitella in Val di Chiana.
21 La medesima raccolta di testimonianze è stata poi pubblicata nuovamente in BILENCHI 1984,
pp. 251-289.
22 La traduzione inglese delle testimonianze è inoltre preceduta nella pubblicazione da un saggio
introduttivo di Victoria de Grazia e Leonardo Paggi dal titolo “Story of an Ordinary Massacre:
Civitella della Chiana 29 June, 1944”.
La strage di Civitella, la differenza appare più di carattere stilistico: si possono
notare, in effetti, un certo rimaneggiamento e una sorta di editing, per così dire,
letterarî, rispetto a quanto – con tutta probabilità – è stato in origine raccolto
oralmente da Elda Morfini 23 .
La produzione di memoria – quanto meno nella sua dimensione scritta –
sembra tacere fino alla fine degli anni Settanta, quando vengono pubblicati, a
breve distanza l’uno dall’altro, tre volumi di storia locale ad opera di Edoardo
Succhielli 24 (ex comandante della formazione partigiana “Renzino”), Enrico
Biagini 25 (parroco di Civitella negli anni Ottanta) e Luciano Gambassini 26 (me-
dico condotto di Civitella negli anni Quaranta e collaboratore della “Renzino”
durante la guerra di liberazione).
Il libro di Succhielli, dal titolo La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la
Chiana, è suddiviso in sette parti e si costituisce interamente intorno alla raccol-
ta di testimonianze e racconti dei componenti della “Renzino”, attraverso le qua-
li vengono ricostruiti – ad onor del vero, in maniera cronologicamente disordi-
nata e, a tratti, estremamente confusa – la nascita, lo sviluppo e le azioni di
guerriglia della banda partigiana, fino ad arrivare a quella sorta di “atto finale”
della storia del gruppo armato che è rappresentato dall’intervento presso il cir-
colo ricreativo di Civitella, episodio in cui rimasero uccisi due soldati tedeschi e
gravemente ferito un terzo.
Da questo punto di vista, alcuni specifici paragrafi del libro, in cui si nar-
rano la vicenda dello scontro a fuoco con i tedeschi, la strage del 29 giugno ed
infine la reazione della gente di Civitella nei confronti dei partigiani, rappresen-
tano certamente i momenti più interessanti del testo 27 .
Il volume di Enrico Biagini – Civitella. Un castello, un paese, un martirio
– si presenta inizialmente come una sorta di cronistoria del territorio e della
popolazione locali, dalle remote origini al tragico evento del 29 giugno 1944. A
partire dalla nascita della Civitula medioevale, passando per il racconto di epi-
sodî in cui compaiono caratteristiche figure e celebrità del luogo, la narrazione si
dipana attraverso una serie di più o meno brevi capitoli che conducono al rac-
conto dell’eccidio del 29 giugno, vero e proprio nucleo narrativo del testo 28 .
Sebbene alla base dello scritto di Biagini non vi sia alcun intento scientifi-
co nell’analisi degli eventi riportati, l’autore dedica comunque un ampio spazio
alla strage di Civitella in Val di Chiana, alle brutali modalità in cui essa fu perpe-
trata dai soldati tedeschi e alle conseguenze che ne derivarono.
23 Pare difficile, infatti, credere che espressioni riportate nel testo del tipo «Quale spettacolo rac-
capricciante mi si presentò agli occhi» (cfr. BILENCHI 1984, p. 254. Testimonianza di Anna Ceto-
loni), «Mi sentii agghiacciare il sangue» (ivi, p. 256. Testimonianza di Rina Caldelli), «Quello
che vedemmo ci ghiacciò: che strazio al cuore!» (ibidem) possano mantenere un seppur minimo
grado di fedeltà alle originali dichiarazioni orali dei testimoni.
24 Cfr. SUCCHIELLI 1979.
25 Cfr. BIAGINI 1981.
26 Cfr. GAMBASSINI 1981.
27 I paragrafi cui si fa particolare riferimento sono “Lo scontro nel Dopolavoro di Civitella” (cfr.
SUCCHIELLI 1979, pp. 148-153), “29 giugno 1944” (ivi, pp. 195-198) e “Atteggiamenti delle popo-
lazioni dopo gli eccidi” (ivi, pp. 304-308).
28 Il racconto dell’eccidio di Civitella in Val di Chiana e delle drammatiche conseguenze che que-
sto evento comportò per la popolazione locale occupa infatti quasi un terzo dell’intera pubblica-
zione.
Il libro di Gambassini, dal titolo Medico fra la gente, ha sostanzialmente
la forma di un memoriale in cui l’autore ripercorre le tappe salienti della propria
vita, dall’attività professionale di medico, esercitata presso il “Ricovero Becatti-
ni” di Civitella, ai tragici giorni precedenti e successivi alla strage del 29 giugno
1944.
Una menzione particolare merita, infine, una pubblicazione apparsa nel
1994 – cinquantesimo anniversario dell’eccidio – a cura di Ida Balò 29 , figlia di
una delle vittime della strage: Giugno 1994. Civitella racconta.
Questo volume, frutto di un lungo e paziente lavoro che per circa dieci
anni ha visto impegnata la scrittrice nella raccolta e nella trascrizione di intervi-
ste da ella stessa effettuate a molti testimoni del massacro di Civitella, si confi-
gura come assoluto testo di riferimento per un dettagliato resoconto dei fatti ac-
caduti nel giugno del 1944.
Il libro è, da un punto di vista generale, suddivisibile in due parti: la pri-
ma è costituita dalla narrazione – assai minuziosa e particolareggiata –
dell’eccidio di Civitella (dall’uccisione dei tedeschi al “Dopolavoro dei Combat-
tenti” fino ai terribili giorni successivi alla strage), mentre la seconda riporta
una serie di testimonianze di sopravvissuti che narrano singoli episodî, ognuno
costituente un frammento della memoria collettiva della strage di Civitella in
Val di Chiana.
Le ultime pubblicazioni descritte, quelle cioè apparse a partire dalla fine
degli anni Settanta, rappresentano in sostanza ciò che Giovanni Contini ha defi-
nito «testi di riconferma» 30 , ossia «libri il cui intento principale [è] quello di fis-
sare il ricordo e impedire che [svanisca] del tutto con la morte dei testimoni,
opera di storici locali che si [riferiscono] a un pubblico in larga misura già in-
formato sui fatti, scritti con intento celebrativo» 31 .
Questi tipi di testo sono quasi sempre destinati ad avere una ridotta cir-
colazione, ma soprattutto – essendo stati scritti o compilati da persone diretta-
mente coinvolte negli eventi narrati – non contribuiscono, da un punto di vista
storiografico, ad un ripensamento interpretativo né ad una analisi oggettiva de-
gli avvenimenti di cui si tratta.
Il 1994 costituisce a tutti gli effetti, per la memoria della strage di Civitel-
la in Val di Chiana, un momento di notevole importanza, non soltanto per
l’organizzazione e lo svolgimento del già citato Convegno di studi In memory, il
cui nucleo di discussione e dibattito è stato proprio l’eccidio di Civitella.
Fra il 1993 e il 1994, gli abitanti di Civitella ed il ricordo che del terribile
massacro hanno conservato per cinquanta lunghi anni, hanno inoltre costituito
oggetto di interesse e di studio per lo storico Giovanni Contini e per un gruppo
di ricercatori – in prevalenza storici e antropologi – coordinato dall’antropologo
Pietro Clemente.
Il lavoro svolto sul campo da questi studiosi ha portato ad una nuova e
cospicua raccolta di interviste e testimonianze prodotte su moderni supporti
auditivi e visivi, alla produzione di letteratura 32 storica e antropologica mono-
graficamente dedicata alla strage di Civitella in Val di Chiana e, specialmente, ad
LA MEMORIA
Negli stessi anni in cui Bartlett attende alla compilazione dei dati di labo-
ratorio che andranno a costituire il materiale pubblicato nel suo Remembering,
nasce in Francia una vera e propria sociologia della memoria, particolarmente
in riferimento alle riflessioni di Maurice Halbwachs, uno dei più prolifici e inno-
vativi continuatori della scuola sociologica di Émile Durkheim.
Al tema della memoria, ai rapporti tra memoria individuale e memoria
collettiva, e ai meccanismi che presiedono al funzionamento della memoria col-
Halbwachs, scrivendo che «vi è una certa ironia del destino nel fatto che il teorizzatore della
memoria sociale sia stato quasi completamente dimenticato» (cfr. ASSMANN J. 1992, p. 20).
Assmann ritiene che ogni cultura tenda autonomamente a generare una
coerente «struttura connettiva», ossia una complessa interrelazione di elementi
che agisce istituendo collegamenti e vincoli fra una dimensione sociale ed una
temporale. La dimensione sociale consiste nella creazione culturale di un appa-
rato normativo, cioè di «uno spazio comune di esperienze, di attese e di azioni, il
quale conferisce fiducia e orientamento grazie alla sua forza legante e vincolan-
te» 44 . La dimensione temporale risulta invece dalla facoltà che una società ha di
collegare «lo ieri all’oggi, modellando e mantenendo attuali le esperienze e i ri-
cordi fondanti, e includendo le immagini e le storie di un altro tempo entro
l’orizzonte sempre avanzante del presente» 45 .
Ogni struttura connettiva si basa inoltre sul rapporto fra i due fondamen-
tali principî della «ripetizione» (o «coerenza rituale») e della «attualizzazione»
(o «coerenza testuale»): il primo principio concerne la conservazione e
l’ordinamento dell’esperienza di un gruppo sociale entro schemi riconoscibili e
ripetibili, cioè ritualizzabili; il secondo principio fa invece riferimento alla capa-
cità che ogni gruppo sociale possiede di interpretare e sottoporre ad analisi la
propria esperienza e tradizione culturale.
È a questo punto che – nella riflessione di Assmann – entra in gioco il po-
tere che la scrittura esercita sulla tradizione di una società: «in concomitanza
con la fissazione per iscritto delle tradizioni, si compie un passaggio graduale
dal prevalere della ripetizione al prevalere dell’attualizzazione, dalla “coerenza
rituale” a quella “testuale”. In tal modo si crea una struttura connettiva di nuovo
tipo: le sue forze leganti non sono l’imitazione e la conservazione, bensì l’esegesi
e il ricordo. Alla liturgia subentra l’ermeneutica» 46 .
La «memoria culturale» è per Assmann un modello concettuale che ri-
guarda la dimensione esterna e collettiva della memoria, ossia la conservazione
e la gestione di contenuti culturali soggetti a controllo e condizionamento socia-
li. Si tratta di un tipo specifico di memoria sociale che svolge – attraverso le isti-
tuzioni e gli artificî proprî di ogni cultura – la funzione di imprimere un senso
culturale all’agire («memoria mimetica»), agli oggetti («memoria delle cose») e
al linguaggio («memoria comunicativa»).
La nozione di «memoria culturale» sorge, nella teoria della cultura di As-
smann, da una rilettura del rapporto che Halbwachs istituisce fra «storia» e
«memoria collettiva». Per Halbwachs, la storia non può in alcun senso rappre-
sentare una forma di memoria 47 , dal momento che, prima di tutto, non esiste
una memoria “universale” e, in secondo luogo, poiché ogni memoria collettiva
ha senso soltanto in quanto identitaria e specifica di un gruppo sociale. Dunque,
il rapporto che sussiste tra storia e memoria può solamente raffigurarsi come un
rapporto di successione: la storia, manifestazione oggettiva e impersonale di un
44 Ivi, p. XII.
45 Ibidem.
46 Ivi, pp. XIII-XIV.
47 È opportuno specificare che Halbwachs sostiene un concetto positivistico di «storia» che la
storiografia ha abbandonato da tempo. Ormai diffusa è la consapevolezza del fatto che non esi-
ste una «storia» e che ogni storia è il diretto riflesso dell’epoca in cui viene scritta e degli interes-
si di coloro che la scrivono o la commissionano. Tuttavia, seguendo la terminologia di Hal-
bwachs, ha forse più senso affermare che ogni storia rappresenta un particolare tipo di memoria
sociale.
sapere, ha inizio là dove la memoria collettiva cessa di esistere; in pratica, quan-
do il passato non viene più ricordato (né, dunque, vissuto).
Una tale concezione della memoria collettiva – esclusivo appannaggio di
un gruppo sociale vivente, attivo e ricordante – contempla al suo interno, se-
condo Assmann, una dimensione «comunicativa» ed una «culturale»: memoria
comunicativa e memoria culturale si riferiscono rispettivamente ad un passato
prossimo e ad uno remoto.
Più approfonditamente, «la memoria comunicativa comprende i ricordi
che si riferiscono al passato recente. Sono ricordi, questi, che un essere umano
condivide con i suoi contemporanei […]. Tale memoria si innesta e cresce stori-
camente nel gruppo: essa nasce nel tempo e passa con il suo passare o, più pre-
cisamente, con quello dei suoi detentori; quando coloro che la incarnano
muoiono, essa lascia il posto ad una memoria nuova» 48 .
Questa «memoria nuova» di cui parla Assmann è in effetti rappresentata
dalla memoria culturale, una peculiare modalità di ricordo istituzionalizzato di
una fase remota del passato che differisce dal ricordo del passato prossimo, tipi-
co della memoria comunicativa, soprattutto per contenuti e forme.
In altri termini, per quanto riguarda i contenuti, all’esperienza storica,
all’autobiografia e alla storia di vita della memoria comunicativa (in sintesi, al
«ricordo biografico»), la memoria culturale preferisce il mito, la storia delle ori-
gini e il racconto di un passato assoluto (un «ricordo fondante»); inoltre, infor-
malità, spontaneità e quotidianità che contraddistinguono la memoria comuni-
cativa, si contrappongono ad una memoria culturale caratterizzata da istituzio-
nalità, formalizzazione e ritualità cerimoniale.
50 Alcuni fra i più importanti lavori ad opera di storici europei sul tema della breve ma intensa
stagione delle stragi operate dalla Wehrmacht in Italia in cui l’eccidio di Civitella in Val di Chia-
na appare almeno citato sono KLINKHAMMER 1993; ANDRAE 1995; SCHREIBER 1996; KLINKHAM-
accademico in occasione del già citato Convegno internazionale In memory: per
una memoria europea dei crimini nazisti, per poi essere trattato tematicamente
con la pubblicazione di una raccolta di scritti a cura di Leonardo Paggi 51 e, suc-
cessivamente, da una approfondita monografia di Giovanni Contini 52 .
Entrambe le pubblicazioni di Paggi e Contini, mettono in evidenza un in-
teressante dato culturale che caratterizza fortemente il tipo di memoria conser-
vato, gestito e sviluppato dai sopravvissuti alla strage di Civitella nel corso degli
anni seguenti all’eccidio: Paggi parla di «memoria anti-partigiana», mentre
Contini – mutuando un’espressione coniata dal filosofo Remo Bodei – parla di
«memoria divisa».
In pratica, nel ricordo – sia individuale che collettivo – della popolazione
superstite, si assiste, fin dall’immediato dopoguerra, ad una sorta di spostamen-
to di responsabilità per quanto riguarda l’eccidio del 29 giugno 1944: i tedeschi,
sebbene riconosciuti come gli esecutori materiali del massacro, non sono ritenu-
ti tanto responsabili per l’accaduto quanto i partigiani che, con il loro intenzio-
nale e sconsiderato intervento armato del 18 giugno all’interno del circolo ricre-
ativo, avrebbero scatenato la furia cieca e violenta della rappresaglia nazista.
Di conseguenza, «gli abitanti, conservando la memoria della strage e la-
vorando sull’interpretazione delle cause, non solo hanno rifiutato
l’assimilazione dei morti uccisi quel giorno ai caduti della guerra partigiana, ma
hanno progressivamente potenziato quell’ostilità contro i partigiani» 53 .
Si tratta di una netta contrapposizione di giudizî sugli eventi che coinvol-
ge, da un lato, i sopravvissuti all’eccidio, latori di una memoria locale compatta
e socialmente condivisa che individua nell’azione partigiana al “Dopolavoro”
l’unica e inconfutabile causa del massacro e, dall’altro, una memoria pubblica e
filoresistenziale – portatori della quale sono le istituzioni locali (ovvero, il Co-
mune e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani di Arezzo) e statali (i partiti
di Governo) – che intende ricondurre l’«eccezione» 54 della memoria di Civitella
in Val di Chiana ad uno dei tanti tasselli che costituiscono la grande retorica re-
sistenziale e repubblicana della rivincita popolare sul nemico tedesco e della ri-
costruzione nazionale.
Il risentimento dei sopravvissuti nei confronti dei partigiani della “Renzi-
no” ha radici profonde. Scrive infatti Edoardo Succhielli, nelle sue memorie, che
già «dopo il passaggio del fronte nacque a Civitella un mormorio incredibile, da
quanto era assurdo […]. Nella cittadina, in conseguenza dell’eccidio perpetrato
dai nazi-fascisti, il rancore fu riversato sui partigiani» 55 . Anche Luciano Gam-
bassini nota che a Civitella, sin dai primi mesi del 1945, un lento ma deciso
cambiamento era in atto: «cominciarono a giungermi delle voci, e sentii anche
MER 1997. In particolare, sulle stragi nazi–fasciste compiute in Toscana, sono stati pubblicati
JONA 1992; BATTINI – PEZZINO 1997; TOGNARINI 2002.
51 Cfr. PAGGI 1996.
52 Cfr. CONTINI 1997.
53 Ivi, p. 8.
54 Di «eccezione» rispetto ad un contesto generale – quello aretino – in cui appoggio e solidarie-
tà incondizionati sarebbero stati assicurati al movimento di lotta partigiana durante e dopo la
guerra, parla Amedeo Sereni (presidente della Associazione Nazionale Partigiani Italiani di A-
rezzo) durante un’intervista rilasciata in data 11 gennaio 2002 ad Arezzo (intervistatori: Ulderi-
co Daniele e Federico Melosi).
55 Cfr. SUCCHIELLI 1979, p. 305.
dei discorsi nei quali si giudicavano molto male i partigiani; giudizi che finivano
a volte per coinvolgere tutta la Resistenza» 56 .
Ed è proprio su «voci», «discorsi» e «giudizi» che si fonda la memoria
sociale dei sopravvissuti all’eccidio di Civitella in Val di Chiana. Il ricordo collet-
tivo del massacro si conforma, cioè, come «racconto/riflessione/giudizio» 57 sul-
la concatenazione di eventi che al massacro conducono, traendo origine
dall’episodio della sparatoria al circolo ricreativo, evento che rappresenta il pun-
to di maggior attrito fra la memoria locale e la memoria partigiana.
Quest’ultima, lungi dall’aver saputo contrapporre alla coesa e coerente costru-
zione narrativa di Civitella un unico racconto altrettanto logico e compatto, si è
invece composta di molti racconti diversi, spesso contraddittorî; talvolta addirit-
tura parossistici.
La «memoria divisa» di Civitella in Val di Chiana nasce così, intra moe-
nia, in un contesto orale, ma fa ben presto la sua comparsa anche all’esterno
delle mura cittadine per mezzo della scrittura e di manifestazioni pubbliche: nel
1950, l’«Avanti!» pubblica un articolo 58 di Edoardo Succhielli in cui l’ex coman-
dante della “Renzino” accusa più o meno apertamente la popolazione di collabo-
razionismo filonazista: secondo Succhielli, il 18 giugno 1944, qualche imprecisa-
to avventore del “Dopolavoro” avrebbe protetto e favorito la fuga di uno dei te-
deschi mediante un travestimento 59 ; un «gruppo di abitanti di Civitella» ri-
sponde circa un mese più tardi all’articolo di Succhielli sul quotidiano «Il Matti-
no dell’Italia Centrale» 60 confutando punto per punto le accuse mosse dal co-
mandante alla popolazione e sostenendo che colpevoli sono da ritenersi «coloro
che per un atto compiuto senza riflessione, pur consapevoli di tutte le conse-
guenze, furono la causa voluta della rovina di una intera popolazione» 61 .
La prima metà degli anni Sessanta rappresenta un altro momento crucia-
le per la «memoria divisa» di Civitella. In questo periodo, infatti, il Parlamento
della Repubblica Italiana propone alle istituzioni locali di insignire il gonfalone
del Comune di Civitella in Val di Chiana con la medaglia d’oro al valore militare.
Quella che si verifica in seguito a tale proposta è una vera e propria insurrezione
popolare: la gente di Civitella si oppone con forza all’idea di dare un’immagine
pubblica delle sue vittime che richiami la figura dell’eroe belligerante.
La vigorosa protesta degli abitanti sarà placata solamente dal compro-
messo cui il Governo nazionale dovrà scendere per assecondare la precisa ri-
chiesta della popolazione: l’assegnazione della medaglia d’oro al valore civile,
decretata il 4 febbraio 1963 dall’allora presidente della Repubblica Italiana An-
tonio Segni.
Fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, lo scontro fra gli ex
partigiani della “Renzino” e la popolazione di Civitella continua, con toni sem-
chielli”, in l’«Avanti!», 28 aprile 1950 (cit. in BALÒ VALLI 1994, pp. 168-170).
59 «I civili presenti si erano ritirati in una stanza attigua assieme al soldato superstite; uno si
premurò di mettergli addosso la propria giacca, un altro gli infilò il cappello. Un travestimento
improvvisato ma riuscito, perché, entrato anche io in quella stanza e chiesto del tedesco, non lo
riconobbi e credetti vero che non lo sapessero neppure loro» (ivi, p. 169).
60 Cfr. “Sui fatti di Civitella. Replica di testimoni oculari”, in «Il Mattino dell’Italia Centrale”, 24
IL LUTTO
82 Ibidem.
83 Cfr. BALÒ VALLI 1994, p. 143.
84 Ivi, p. 142.
85 Ivi, p. 143.
in cui ciò che conta è trovare comunque un corpo su cui piangere la propria per-
dita: «una donna si aggira disperata tra le bare, alza i lenzuoli, cerca in chiesa,
non trova il suo uomo. Alla fine prende uno di quei corpi irriconoscibili che an-
cora si trovano a terra e lo compone con amore nella cassa. “Forse è mio mari-
to!”» 86 .
L’altissima incidenza del numero dei morti rispetto ad una comunità di
piccole dimensioni e le afose condizioni climatiche proprie dell’entroterra to-
scano in estate rendono necessarî una rapida raccolta dei corpi, il loro trasporto
con mezzi di fortuna al cimitero del paese (che dista circa un chilometro dal cen-
tro abitato) e l’immediato seppellimento, cui le vedove provvedono secondo le
possibilità della situazione. «Lungo la via serpeggiante ed assolata è un via vai di
mezzi e di persone […]. Bisogna ora fare le fosse e seppellire. Alcuni morti ven-
gono tumulati nei loculi, anche senza cassa zincata, altri nei così detti posti di-
stinti, dove si rimuove e si accatasta ciò che rimane delle bare esistenti; la mag-
gior parte trova posto nella nuda terra. Si scava anche una fossa comune dove
trovano posto sette bare. Alcuni cadaveri sono senza cassa, bisogna tumularli in
una fossa comune […]» 87 .
Le numerose vittime urgentemente sepolte all’interno di anonime fosse
comuni e, soprattutto, l’impossibilità di rinvenire molti altri corpi, giacché
sommersi dalle macerie o consumati dalle fiamme, pongono drasticamente le
donne di Civitella di fronte ad un nuovo trauma: i loro morti non saranno in
grado di ricevere né riti né cerimonie funebri.
Per di più, la morte di don Alcide Lazzeri rappresenta per la comunità la
scomparsa dell’unica figura istituzionalmente preposta ad officiare tali funzioni
religiose. Di conseguenza, il lutto collettivo dei sopravvissuti sarà privato del
conforto e del beneficio che la dimensione sociale e culturale del rito sarebbe
capace di offrire.
Ad aggravare il trauma di un lutto già difficilmente elaborabile in virtù di
quanto detto fino ad ora, sopraggiunge anche la ferma decisione, da parte della
popolazione di Civitella, di non ammettere e di rifiutare categoricamente – in
occasione dei primi anniversarî dell’eccidio – qualsiasi cerimonia o commemo-
razione pubblica dell’evento, causa il timore di una strumentalizzazione della
memoria locale delle vittime da parte di una sinistra italiana desiderosa di cele-
brare il valore dei partigiani e del movimento di Resistenza nazionale.
Con l’assenza – o, spesso, la diserzione totale – da parte degli abitanti di
Civitella durante le annuali commemorazioni pubbliche della strage, viene a
mancare, per i sopravvissuti, un altro fondamentale istituto di elaborazione del
lutto.
Ad una lettura effettuata in termini freudiani, la cerimonia funebre prima
e la ricorrenza commemorativa poi, consistono in una tradizionale forma di ela-
borazione del lutto che ha la funzione di facilitare al soggetto il distacco emozio-
nale dalla persona defunta attraverso la creazione di uno spazio e di un tempo
rituali (si potrebbe aggiungere, di uno spazio e di un tempo de-contestualizzati e
de-storificati), in cui il soggetto può far convergere tutto il proprio dolore e la
propria sofferenza senza restare vittima di conseguenze infauste.
86 Ivi, p. 145.
87 Ivi, p. 146.
In altre parole, si può convenire con Contini nell’affermare che i riti di
commemorazione consistono in «zone sottratte al normale tempo storico dove è
possibile ripristinare, per breve periodo, il rapporto esclusivo con lo scomparso,
e dove si può tornare a immergersi senza rischi nel dolore» 88 .
Aggiunge in proposito l’antropologa Carla Pasquinelli che «i riti funebri e
ancor più le cerimonie di commemorazione presentano il singolare vantaggio
per chi li celebra di potersi abbandonare al dolore e al ricordo delle persone
scomparse, senza incorrere in alcuno di quei rischi che sono invece in agguato se
questo avviene nella vita di tutti i giorni […]. Essi ci introducono infatti in un re-
gime temporale protetto, che sospende il tempo storico […] proiettandoci in una
dimensione metastorica al cui interno è possibile rivivere ciclicamente il passato
e abbandonarsi a un reinvestimento temporaneo della libido sull’oggetto perdu-
to» 89 .
Come per il lutto individuale, anche nel caso del lutto collettivo di Civitel-
la il rapporto libidico fra sopravvissuti e defunti funziona, dunque, in modo di-
storto: se, da una parte, il dolore di ogni individuo non riesce a trovare una via
di fuga verso l’esterno perché la memoria del lutto riaffora continuamente e re-
ciprocamente all’interno della comunità, dall’altra, anche il lutto collettivo appa-
re bloccato in una sorta di aporìa, a causa della assenza di due fondamentali isti-
tuzioni culturali che potrebbero consentire, almeno in parte, ai sopravvissuti
una corretta elaborazione del lutto: un rito funebre per la sepoltura dei morti e
la ricorrenza annuale di commemorazioni pubbliche dell’eccidio.
92 Ivi, p. 209.
93 Ibidem.
94 Cfr. LORAUX 1990.
95 Ivi, pp. 12-13.
lienti che Contini individua come antropologicamente fondanti nell’analisi che
egli stesso fa della «memoria divisa» di Civitella in Val di Chiana: lutto femmini-
le e narrazione.
Se da una parte il lutto delle antiche madri greche descritto da Loraux
viene relegato alla rappresentazione teatrale, dall’altra il lutto delle vedove di
Civitella in Val di Chiana trova la sua compiuta formalizzazione nella veste del
racconto.
Ma pur sempre di logos si tratta: in entrambi i casi, un discorso egual-
mente destinato al riscatto emotivo da un lutto eccessivo e alla contrapposizione
nei confronti di un contesto esterno sentito come alieno ed ostile.
CAPITOLO QUINTO
IL RACCONTO
Fin dalle prime pagine della sua monografia sul caso di Civitella in Val di
Chiana, Contini osserva che «nel racconto degli abitanti la tragedia inizia con
l’uccisione nell’unico locale pubblico di Civitella di tre soldati tedeschi da parte
dei partigiani, per proseguire con gli abitanti che fuggono e per alcuni giorni re-
stano nascosti in campagna finché, rassicurati, tornano in paese. Il culmine del-
la narrazione è raggiunto con l’arrivo dei tedeschi, in un giorno di festa, quando
tutti sono in chiesa o stanno per andarci. I soldati massacrano tutti gli uomini
mentre i partigiani non intervengono in loro difesa» 102 .
La narrazione collettiva creata dai sopravvissuti, logico e compatto sus-
seguirsi di eventi che conducono alla strage del 29 giugno, necessita, prima di
tutto, di una situazione iniziale, di un esordio, un punto di avvio del racconto
che fornisca chiaramente una netta cesura fra un “prima” e un “dopo” relativi al
massacro.
Gli abitanti di Civitella avvertono così il bisogno di ricercare ed indivi-
duare, all’interno del caos di eventi che fa da sfondo al giugno del 1944, un epi-
sodio specifico da tramutare in elemento narrativo performante – qualcosa di
103 Cfr. PROPP 1928. In questo fondamentale studio, Propp procede alla scomposizione struttura-
le del racconto fiabesco alla ricerca di un universale modello logico della narratività. Secondo il
folklorista russo, l’andamento della narrazione è retto e gestito da una serie di «funzioni», defi-
nite come «l’operato d’un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo
svolgimento della vicenda» (ivi, p. 27; corsivo nel testo originale). In particolare, glossando la
descrizione della funzione «danneggiamento», una delle trentuno funzioni che nella teoria
proppiana compongono la struttura del racconto, Propp sottolinea: «questa funzione è di stra-
ordinaria importanza, poiché è con essa che ha inizio l’azione narrativa vera e propria. […] col
danneggiamento si apre l’esordio» (ivi, p. 37; corsivo nel testo originale).
104 Cfr. PORTELLI, Alessandro, “Lutto, senso comune, mito e politica nella memoria della strage
ramo d’oro), magia, credenze popolari e superstizioni sono tutti elementi che concorrono a ren-
dere debole e fragile qualsiasi processo di civilizzazione. In proposito, scrive Fabio Dei, interpre-
tando il pensiero dell’antropologo inglese, che proprio tale processo di civilizzazione «è rappre-
sentato come la superficie del mare in continuo movimento, sotto la quale si estende l’immota
profondità degli abissi; come una striscia sottile di terra sotto la quale romba un vulcano; o co-
me un pallido cerchio di luce circondato dalle tenebre della notte. Il vulcano, le tenebre, gli abis-
si sono le strutture invarianti del pensiero magico–religioso e delle connesse pratiche di sacrifi-
cio cruento: dalla lettura de Il ramo d’oro, esse appaiono come una sorta di essenza originaria e
autentica della cultura umana, che nessun progresso e nessuna scienza riescono in definitiva a
scalfire, e che anzi si ripresentano nella modernità sotto nuove vesti» (cfr. DEI, Fabio, “Interpre-
tazioni antropologiche della violenza, tra natura e cultura”, in
http://www.antropologie.it/apocalissi/dei_apocalissi01.html, 2005).
121 L’ambivalenza di un’originaria situazione edipica – atavica realtà ipotizzata da Freud (ma mai
122 Cfr. DEI, Fabio, “Interpretazioni antropologiche della violenza, tra natura e cultura”, in
http://www.antropologie.it/apocalissi/dei_apocalissi01.html, 2005.
123 Cfr. GIRARD 1982, p. 29 (corsivo nel testo originale).
124 Cfr. CLEMENTE, Pietro, “Ritorno dall’apocalisse”, dattiloscritto. Il testo, originariamente pre-
sentato come intervento orale al già citato Convegno In memory e, fino ad oggi, disponibile sol-
tanto in formato digitale all’indirizzo
http://www.antropologie.it/apocalissi/clemente_apocalissi01.html, è stato da poco pubblicato
in CLEMENTE – DEI 2005.
non sparirono dal paese, ma rimasero negli anni e nei decenni successivi alla
strage» 125 .
In ultima analisi, si può osservare un’ulteriore caratteristica che contrad-
distingue i partigiani nel racconto della collettività di Civitella, rendendoli i soli
a poter essere reputati la causa del massacro. Gli uomini della “Renzino” rap-
presentano infatti una particolare figura di confine che mostra di avere molti e-
lementi in comune con il concetto girardiano di «capro espiatorio»: per i so-
pravvissuti di Civitella, i partigiani equivalgono alla figura dello «straniero in-
terno» 126 , ovvero un tipo di soggetto che paradossalmente appartiene alla co-
munità ma, al tempo stesso, vi è estraneo.
«Lo straniero interno è il membro di una comunità che se ne distingue
per almeno un aspetto costitutivo della identità propria e della comunità stessa.
Al tempo stesso esso a) appartiene inequivocabilmente alla comunità per molti
dei suoi tratti significativi, b) altrettanto inequivocabilmente non le appartiene
per altri suoi tratti significativi. La forza euristica del concetto sta nel suo ossi-
moro. Lo straniero interno è contemporaneamente straniero e interno» 127 .
Nel caso di Civitella, il valore di appartenenza dei componenti della for-
mazione partigiana “Renzino” alla comunità è corroborato dal fatto che la mag-
gior parte di essi è per lo più costituita da persone di giovane età note a tutti in
paese, perché figli o parenti di qualche conoscente.
Così scrive Ida Balò a proposito di Vasco Caroti, uno dei partigiani mili-
tanti nella “Renzino” che, il 18 giugno, partecipò all’intervento armato nel “Do-
polavoro” del paese: «[…] anche Vasco era considerato un bravo ragazzo. Dive-
nuto “ribelle”, quando ormai il fronte di liberazione era imminente e quando la
caccia ai renitenti era notevolmente diminuita per il precipitare degli eventi, ve-
niva spesso in paese in visita alla famiglia e alla sua presenza saltuaria nessuno
faceva più caso» 128 .
Tuttavia, per i sopravvissuti di Civitella, il senso di estraneità dei parti-
giani della “Renzino” alla comunità è dato proprio dal loro status di partigiani,
ovvero dall’essere individui che hanno fatto una scelta diversa da quello del
quieto vivere degli abitanti del paese: adesso sono fuggiaschi perché renitenti al-
la leva o, peggio ancora, qualcuno li teme in quanto “ribelli”.
129 La linguistica testuale (o linguistica del testo) rappresenta una disciplina delle scienze del lin-
guaggio – principalmente sviluppatasi presso gli atenei del Nord d’Europa – la cui ipotesi di la-
voro è che «l’oggetto peculiare della linguistica sia non l’enunciato […], ma il testo […], che il te-
sto sia il segno linguistico originario […], che i testi siano la forma specifica d’esistenza del lin-
guaggio» (cfr. CONTE 1977, p. 11). Rifiutando di considerare la frase come la più ampia unità di
descrizione grammaticale, la linguistica testuale si pone come ulteriore fase di sviluppo della
linguistica strutturale, sostenendo, al contrario, che «la frase […] non è né la più grande né la
più piccola unità di un’espressione linguistica, bensì tutt’al più un’unità di lunghezza media
[…]» e che un testo è genericamente definibile come «una successione coerente e consistente di
segni linguistici, posta tra due interruzioni notevoli della comunicazione» (cfr. WEINRICH 1964,
pp. 18 e 20).
130 Cfr. WEINRICH 1964, pp. 7-8.
Weinrich la formulazione di una regola generale: «in un testo stampato il nume-
ro delle forme temporali corrisponde all’incirca al numero delle righe» 131 .
Tuttavia, entro il fenomeno più generale dell’ostinazione testuale delle
forme temporali, si affaccia il più specifico fenomeno della «dominanza». In al-
tri termini, il numeroso ricorrere dei tempi verbali all’interno di un testo com-
porta il riconoscimento della prevalenza di certe forme temporali su altre: «in
quasi tutti i testi, pur nella grande varietà delle situazioni o dei generi letterari
da cui essi traggono origine, domina chiaramente un determinato tempo verba-
le, o un determinato gruppo di tempi verbali, che costituisce la netta maggioran-
za di tutte quante le forme temporali ivi ricorrenti» 132 .
A questo punto, Weinrich può formulare, all’interno della sua teoria te-
stuale, l’ipotesi dell’esistenza di due fondamentali categorie di tempi verbali: si
tratta di quelli che egli chiama tempi «commentativi» e tempi «narrativi»; della
prima categoria (per quanto, ovviamente, inerisce la lingua italiana) fanno parte
il passato prossimo, il presente, il futuro e il futuro anteriore, mentre alla secon-
da appartengono il trapassato prossimo, il trapassato remoto, l’imperfetto, il
passato remoto, il condizionale presente ed il condizionale passato.
Dal momento che sia i tempi commentativi che quelli narrativi possono
far riferimento a qualsiasi campo semantico potenzialmente oggetto di comuni-
cazione – a qualsiasi «universo del possibile», dice Weinrich – essi potranno ri-
spettivamente dirsi «tempi del mondo commentato» e «tempi del mondo narra-
to», dove con il termine «mondo» è unicamente da intendersi «la somma di tut-
to ciò che può divenire oggetto di un atto comunicativo» 133 .
Prima di tentare un’analisi linguistica di alcuni testi che hanno per ogget-
to il racconto del massacro di Civitella in Val di Chiana, è opportuno rendere fi-
nalmente esplicito il significato che si deve attribuire alle nozioni del «commen-
tare» e del «narrare» caratteristiche dei tempi verbali. In primo luogo, si può
parlare di tempi «commentativi» e di tempi «narrativi» soltanto partendo dal
presupposto che le forme linguistiche temporali siano strumenti attraverso i
quali un parlante, uno scrivente o, comunque, un emittente persegue lo scopo
pragmatico di fornire una particolare segnalazione al ricevente della comunica-
zione. «Commento» e «narrazione» devono, perciò, essere intesi come valori in-
trinseci di un atteggiamento comunicativo mostrato da un emittente nei con-
fronti di un ricevente; valori, quindi, pragmaticamente capaci di mutare in mo-
do rilevante una situazione comunicativa.
Scrive Weinrich che «i valori segnaletici del commentare e del narrare,
inerenti, in qualità di caratteri strutturali, ai morfemi temporali con ricorrenza
ostinata, [offrono] a chi parla la possibilità di influire in maniera determinata
sull’ascoltatore, guidandolo nella ricezione di un testo. Il parlante, infatti, usan-
do i tempi commentativi dà a capire che per lui è opportuno che l’ascoltatore,
nel recepire quel tal testo, assuma un atteggiamento di tensione, mentre coi
tempi narrativi dà ad intendere, per opposizione, che il testo in questione deve
essere recepito in stato di distensione» 134 .
135 Ovvero, “Civitella della Chiana – Giugno 1944” (cfr. BALÒ VALLI 1994, pp. 3-15); “18 giugno
1944” (ivi, pp. 16-30); “Un agguato mortale – Ore 21,00” (ivi, pp. 31-45); “Paura, attesa e spe-
ranza” (ivi, pp. 46-64); “Fatti inquietanti” (ivi, pp. 65-80); “Giovedì 29 giugno – Festa dei Santi
Pietro e Paolo – La strage” (ivi, pp. 81-115); “Il ‘Triangolo della morte’” (ivi, pp. 116-141); “Dopo
la strage” (ivi, pp. 142-167); “Documenti relativi ai fatti” (ivi, pp. 168-185); “Un paese offeso” (i-
vi, pp. 186-197).
136 Ivi, pp. 5-6.
una rapida liberazione. In un’atmosfera ansiosa, dominata da una calma appa-
rente, che voleva ad ogni costo allontanare lo spettro della paura e del male, Ci-
vitella viveva quel giorno di festa. E si assaporava la gioia del riposo,
dell’incontro, della calda conversazione che riusciva, al di sopra di tutte le mise-
rie, a infondere speranza e desiderio di vita» 137 . La forma linguistica temporale
utilizzata in modo dominante – e sovente impersonale – è qui ancora
l’imperfetto (era, destava, si credeva, si sperava, voleva, viveva, si assaporava,
riusciva), almeno fino a quando non sopraggiunge la descrizione del locale pub-
blico – il “Dopolavoro dei Combattenti” – ove avviene l’assalto partigiano e, suc-
cessivamente, la descrizione dell’assalto stesso: «[…] nel dopolavoro il gioco era
ricominciato. L’antico palazzo, una volta sede municipale, ora ospitava […] al
pianterreno il circolo ricreativo. Dopo un ampio ingresso che si affacciava sotto
il cinquecentesco loggiato della piazza, c’era la sala da gioco: semplici tavoli a
quattro posti, sedie impagliate dozzinali, una massiccia radio in un angolo, il
tutto illuminato da un’unica lampada appesa ad un filo al centro del soffitto […].
Ed è proprio in questo luogo che […] si consuma un dramma sanguinoso e in-
quietante. Poco dopo le venti, quattro tedeschi […] entrano […] nel circolo […].
Nella sala da gioco prendono posto all’ultimo tavolo di destra vicino alla fine-
stra; depongono i cinturoni con le pistole sopra una sedia; appoggiano alla pare-
te vicina delle armi più pesanti […] e, dopo essersi riforniti al bar di vino e di
bicchieri, si mettono frettolosamente a bere» 138 . Il repentino cambio di registro
verbale, per cui la narrazione passa da un tempo imperfetto (era, ospitava, si
affacciava, era) ad un tempo presente (è, si consuma, entrano, prendono, de-
pongono, appoggiano, si mettono), caratteristico – quest’ultimo – del mondo
commentato, implica un innalzamento della soglia di attenzione che il lettore è
chiamato a prestare nei confronti degli eventi narrati. Da una semplice descri-
zione d’ambiente, il racconto si sposta su una serie di personaggi e di azioni da
essi compiute che richiedono un maggiore livello di tensione ricettiva.
La drammaticità del materiale narrativo raggiunge il suo culmine nel ca-
pitolo “Giovedì 29 giugno – Festa dei Santi Pietro e Paolo – La strage”, intera-
mente dedicato al racconto dei tragici momenti che vedono irrompere le truppe
tedesche in paese per compiere il massacro della popolazione: «Un’alba chiara,
un sole luminoso annunciano una splendida giornata di fine giugno. Una legge-
ra foschia ricopre il piano, ma in alto la luce splende. La campana comincia a
suonare il primo doppio; alle sette c’è la prima messa. È la festa d’intero precet-
to dei SS. Pietro e Paolo. Civitella si desta e la vita paesana prende il suo avvio.
[…] ad un tratto lungo la china dove risplende il sole, si intravede, sempre più
distintamente, un’animazione insolita. Ma sì, sono persone, anzi sono soldati.
Per la vecchia strada romana […] avanzano soldati tedeschi in gran numero. Dal
piano provengono rumori di automezzi. Sono quasi le sette […]. Tutti si sentono
innocenti e forse si sforzano di guardare con occhio benevolo, anche se velato di
terrore e di tristezza, il nemico che avanza con le armi puntate […]. Ed ecco sul
sagrato la straziante separazione: gli uomini da una parte, le donne e i bambini
da un’altra. Spinte, minacce e canne puntate fanno allentare le braccia che si
tengono strette con forza intensa e dolorosa. Le piccole mani dei figli cadono i-
nerti lungo il corpo mentre lasciano senza capire la mano del padre che li ab-
141 Cfr. PORTELLI, Alessandro, “Lutto, senso comune, mito e politica nella memoria della strage di
Civitella”, in PAGGI 1996, p. 97.
142 Cfr. BALÒ VALLI 1994, pp. 47-48.
143 Ivi, p. 211. Testimonianza di Lina Rossi.
144 Ibidem.
dete me e risparmiate loro!”» 145 . Luciano Giovannetti, nato a Civitella in Val di
Chiana e attuale vescovo di Fiesole, al tempo seminarista presso la diocesi di A-
rezzo, ricorda che don Alcide «diceva ad alta voce: “Sono io il responsabile di
quanto è accaduto, uccidete me!”» 146 .
Don Alcide Lazzeri sarà uno dei primi a morire sulla piazza principale di
Civitella, dopo aver denunziato la barbarie dei tedeschi davanti a Dio ed aver of-
ferto ai soldati il sacrificio della propria vita per aver salva quella della popola-
zione.
È tuttavia interessante notare come, nelle diverse testimonianze indivi-
duali, poi confluite nella narrazione collettiva del massacro, la figura del parroco
di Civitella equivalga a quella di un eroe e di un martire; ed altrettanto interes-
sante è il facile paragone che nel racconto della popolazione si istituisce fra due
immagini emblematiche: da un lato, Alcide Lazzeri, che con valore e coraggio
sceglie di non sottrarsi alla morte ma, anzi, di sacrificare la propria persona per
il suo popolo; dall’altro, i partigiani, che volontariamente causano la rovina del
paese uccidendo tre tedeschi all’interno delle sue mura e, durante la strage, spa-
riscono invece di accorrere per difendere la popolazione inerme.
Un altro elemento mitico che ricorre nella narrazione collettiva di Civitel-
la – estremamente diffuso anche nella memoria sociale di molti altri luoghi ove
sia stata compiuta una strage nazi-fascista – è quello del così detto “tedesco
buono”.
Si tratta, prevalentemente, della figura di un soldato, quasi sempre de-
scritto come molto giovane ed inesperto, che favorisce la fuga di qualche abitan-
te o si rifiuta di uccidere i civili; in alcuni racconti, questo giovane soldato viene
addirittura ucciso da un suo superiore per aver disobbedito agli ordini.
Un testimone della strage di Civitella ricorda un episodio avvenuto sulla
piazza del paese, durante le esecuzioni operate dai tedeschi su gruppi di cinque
uomini per volta: «[…] il sergente sembrò ordinare il fuoco ad un soldato che
impugnava un’arma. Ma accadde una cosa inconsueta: il soldato che aveva rice-
vuto l’ordine fissò i condannati e rimase immobile. Il comandante lo redarguì
[…] e nuovamente gli ordinò di sparare, ma quello rimase ancora indeciso. Allo-
ra il sergente lo spinse da un lato e con un’arma […] sparò personalmente sui
cinque uomini. […]. Intanto il sergente comandante […] si rivolse nuovamente
al soldato che si era rifiutato di sparare […] spinse quel soldato “traditore” da
una parte […], lo fece voltare di schiena e con un colpo secco alla testa lo atter-
rò» 147 .
Probabilmente, così come il gesto eroico di don Alcide Lazzeri, anche il ri-
fiuto da parte del soldato tedesco di uccidere civili innocenti appare – a distanza
di oltre cinquanta anni dagli eventi raccontati – una sorta di espediente narrati-
vo atto a rendere più tollerabile il trauma del massacro.
Per di più, la figura del “tedesco buono” ha forse la funzione di mitigare la
rigida efficienza del plotone di esecuzione tedesco, vera e propria macchina da
guerra, perfettamente coordinata. «Il “tedesco buono” rappresenta l’eccezione,
145 Ibidem.
146 Ivi, p. 285. Testimonianza di Luciano Giovannetti.
147 Ivi, p. 260. Testimonianza di Luigi Bigiarini.
pur se immaginaria, in quella struttura completamente coesa, e quindi il sogno
di un passato che avrebbe potuto essere diverso» 148 .
Una certa ambivalenza sembra esser propria del mito del “tedesco buo-
no”, tale da mostrare come questa tipologia di personaggio possa simboleggiare
tanto la profonda umanità che risiede in ognuno di noi, quanto la ferina disu-
manità degli altri, denunziata attraverso l’umanità del singolo.
Ulteriore – ed ultimo in ordine di creazione – elemento narrativo dal ca-
rattere mitico è quello rappresentato da un reduce di guerra che, circa quaranta
anni dopo l’eccidio, fa ritorno a Civitella in Val di Chiana, cercando il parroco e
domandando il perdono suo e quello di Dio per l’atto brutale che ha commesso,
partecipando al massacro della popolazione.
Don Enrico Biagini, parroco di Civitella durante gli anni Ottanta, così ri-
corda l’incontro con il reduce pentito: «[…] si presentarono a me nella canonica
di Civitella della Chiana due uomini piuttosto attempati. Chiedevano del parro-
co. Dissero subito di essere tedeschi, uno dei quali aveva fatto parte del reparto
armato che la mattina del 29 giugno 1944 salì a Civitella […]. Poche parole pro-
nunziate in uno stentato italiano mi fecero capire il travaglio di un uomo, vitti-
ma egli stesso di una tragedia senza dubbio più grande di lui. […] non nascondo
di aver provato un tuffo al cuore quando si presentò e mi disse chi era: “Io sono
un tedesco che era qui quel giorno a fare rappresaglia. Dite, padre, al popolo di
questo paese che io ho avuto molto travaglio nella mia vita, che eravamo molto
giovani e che Hitler aveva avvelenato la nostra giovinezza. Io chiedere perdono
per tutti, dire al popolo che sono venuto dalla Germania con questo amico”» 149 .
La veridicità di questi tre elementi mitici della narrazione non è sicura-
mente da mettere in dubbio; semmai è opportuno chiedersi per quale motivo
essi ricorrono così spesso nel racconto dei testimoni e quale significato simboli-
co assumono nella memoria collettiva di Civitella in Val di Chiana.
Il coraggio di don Alcide Lazzeri, il “tedesco buono” e il reduce pentito
rappresentano tutti elementi simbolicamente religiosi che esprimono valori cri-
stiani o, quanto meno, etici e morali. Una tale osservazione presuppone una se-
rie di ulteriori approfondimenti che troveranno degna collocazione proprio nel
tentativo di istituire un collegamento tra il lutto di Civitella e quella duplice ne-
cessità autoprotettiva che si compone di urgenza mitopoietica da una parte e di
ritualità dall’altra, entrambi tratti culturali fondamentalmente religiosi.
LA COMMEMORAZIONE
1791, anno di promulgazione della Costituzione francese) un concetto di “religione laica” «parti-
colarmente finalizzato alla costruzione di un’identità nazionale e del desiderio di educare le ge-
nerazioni future» (cfr. JEDLOWSKI 1996, p. 227).
157 Cfr. TOTA, Anna Lisa, “Memoria e dimenticanza sociale: verso una sociologia dei generi com-
162 Trad. cit. in WAGNER-PACIFICI – SCHWARTZ, “Il Vietnam Veterans Memorial: la commemora-
zione di un passato difficile”, in TOTA 2001, p. 118-119.
163 Ivi, p. 119.
164 Ibidem.
do si tratta di celebrare pubblicamente un evento bellico che si sia concluso con
una sconfitta, la nazione cerca di trovare un modo per riscattare i proprî caduti
in guerra e rendere, in qualche modo, la sconfitta degna di onore. Tali società i-
stituiscono, dunque, apparati commemorativi atti a onorare gli individui che va-
lorosamente hanno combattuto piuttosto che a celebrare una causa che il paese
ha perso.
Perciò, il 1978 coincide anche con l’istituzione, da parte del Governo ame-
ricano, di una “Settimana per i Veterani del Vietnam”: al posto di un tangibile
monumento commemorativo che renda per sempre onore ai militari caduti in
occasione di quella guerra, si opta ufficialmente per la celebrazione dei soprav-
vissuti, dedicando loro una settimana di festeggiamenti e di attenzione mediati-
ca. In altre parole, si commemorano i vivi anziché i morti. Per di più – scrivono
efficacemente Wagner-Pacifici e Schwartz – ciò che si dedica ai reduci del Viet-
nam è «tempo, piuttosto che granito» 165 .
Tuttavia, con la delibera governativa di una “Settimana per i Veterani del
Vietnam” si tenta di promuovere un processo di distinzione fra gli uomini com-
battenti e l’evento combattuto: si cerca, cioè, di trasformare la figura del soldato
americano da bad guy in un patriota che ha semplicemente eseguito una serie di
ordini impartiti dall’alto; tutto ciò al fine di rendere un’immagine del militare
statunitense che risulti accettabile per tutti gli Americani. Ma anche questo sco-
po è difficilmente perseguibile: l’attenzione rivolta ai reduci di guerra porta alla
luce una serie di dati statistici secondo i quali la maggior parte dei veterani del
Vietnam ha problemi con la legge, è vittima dell’alcolismo ed ha divorziato dalla
propria moglie appena qualche mese dopo il rientro in patria. «Se si considera-
no tutte le allusioni negative nei confronti dei veterani – i problemi di lavoro, fi-
sici, psicologici, il senso di alienazione, l’inclinazione all’uso di droghe e la pro-
pensione al crimine – diviene evidente che il dibattito [pubblico] è dominato da
modalità espressive più pertinenti a soggetti socialmente devianti piuttosto che
a soldati reduci» 166 .
Nonostante l’alto grado di tensione e conflittualità sociale che, sul finire
degli anni Settanta, continua a far da cornice ad ogni nuova proposta o delibera
governativa, nel 1979 prende forma un reale progetto di costruzione per il sito
commemorativo della guerra in Vietnam: la Commissione nazionale di Belle Ar-
ti sceglie un progetto – quello della artista Maya Ying Lin – che prevede la co-
struzione di una struttura modesta, disposta orizzontalmente, poco elevata ri-
spetto al terreno, comprendente due semplici muri neri ed una serie di pannelli;
un’idea progettuale, quindi, decisamente lontana – se non opposta – a quella
dei classici monumenti bellici, solitamente verticali, grandiosi ed eroici, caratte-
rizzati da statue di uomini che combattono, obelischi, archi trionfanti o monoli-
ti. Su indicazione di uno dei reduci, Jan Scruggs, divenuto nel frattempo un per-
sonaggio pubblico, i pannelli che andranno a costituire il monumento dovranno
ospitare una sola e semplice informazione: gli oltre cinquantasettemila nomi dei
caduti.
La struttura viene infine realizzata, ma non mancano nuove critiche ed
opposizioni ad un progetto che, per alcuni, rappresenta una monumentale tom-
165 Ibidem.
166 Ivi, p. 121.
ba priva di significato ed una’offesa a tutti coloro che in Vietnam combatterono
per la causa del proprio paese.
Negli anni Ottanta, il Governo americano cerca di rimediare all’assenza di
un palese riferimento bellico con due simboliche aggiunte: una bandiera degli
Stati Uniti d’America e una statua rappresentante tre soldati, identificabili come
un nero, un bianco ed un ispanico. Ma pur sempre, agli occhi di alcuni accorti
esponenti dell’opinione pubblica, «la combinazione di bandiera, statua e muro
con inscritti i nomi rifletteva un profondo disaccordo su come la guerra del
Vietnam avrebbe dovuto essere ricordata e comunicava questo disaccordo per
mezzo di una apparente opposizione binaria. Da una parte si pensò che il muro
celebrasse il partecipante ed ignorasse la causa; dall’altra si ritenne che la ban-
diera e la statua elevassero la nazione e la sua causa al di sopra del partecipan-
te» 167 .
Il lungo e partecipato dibattito nazionale che ha prima preceduto e poi
accompagnato il progetto e la costruzione del monumento americano alla guerra
del Vietnam mette così in luce il diretto legame che normalmente si istituisce fra
volontà di memoria pubblica e oggetti commemorativi. Nel caso del “Vietnam
Veterans Memorial”, controversie e contrasti hanno indubbiamente condotto ad
un monumento commemorativo ambivalente, giacché soggetto a continui ripen-
samenti ed aggiustamenti.
Quella stessa ambivalenza che, da un punto di vista politico e morale,
contraddistingue a tutt’oggi il conflitto in Vietnam nella coscienza collettiva del-
la nazione americana sembra dunque, in ogni suo aspetto, riflettersi struttural-
mente e simbolicamente nel sito commemorativo del “Vietnam Veterans Memo-
rial”, un monumento che sembra, al contempo, commemorare i caduti come i
reduci, e che sembra celebrare in egual modo il coraggio e l’onore di coloro che
hanno combattuto nonostante la causa discutibile e la sconfitta riportata.
168 Testimonianza di Ida Balò. Intervista rilasciata in data 20 dicembre 2003 a Civitella in Val di
l’allora Presidente della Repubblica Italiana, Antonio Segni, conferì l’onorificenza civile al Co-
parroco di Civitella ucciso dai tedeschi, don Alcide Lazzeri, «fulgido esempio di
coraggiosa dedizione e di sublime altruismo spinto fino all’estremo
sacrificio» 173 . Tuttavia, non fu un riconoscimento civile anziché militare a
placare tensioni e malcontenti: la gente di Civitella minacciò infatti di disertare
la cerimonia di conferimento dell’onorificenza qualora ad essa avessero
partecipato ex partigiani o comunque qualche rappresentante della Resistenza.
Nel 1969, in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, si
inaugurò sulla piazza principale del paese il monumento commemorativo
dell’eccidio: si tratta di una complessa effige collocata accanto all’entrata della
chiesa di santa Maria Assunta e costituita in parte da una scultura bronzea –
opera dell’artista Mario Moschi – raffigurante un gruppo di donne e bambini
che fuggono dal paese in fiamme, in parte da una targa in marmo che riporta
sobriamente un’epigrafe del senatore Franco Antonicelli, la quale recita PIETÀ
DEL GIUGNO 1944! / LA MATTINA DEL 29 ERA FESTA IN PARROCCHIA / PER I SANTI PIE-
TRO E PAOLO / MA IL GIORNO CHE SI APRIVA BELLISSIMO / DIVENTÒ NEBBIA FUMO
FUOCO SANGUE / FRAGORE DI MITRAGLIA GRIDA DI UCCISI / ESSERE UOMINI SIGNIFICÒ
MORIRE / E GLI UCCISORI NON ERANO UOMINI MA FIERE IMPAZZITE / CADDE IL PARRO-
CO SACRIFICATO / BENEDICENDO IL SUO POPOLO / BRUCIARONO NEL GUSCIO DELLE CA-
SE I VIVI E I MORTI / ADDIO CIVITELLA CHE COSA SARÀ DI NOI? / FU IL LAMENTO DELLE
DONNE RIMASTE SOLE / ORA CIVITELLA È RISORTA DA ROGHI E DA ORTICHE / I TUMOLI
SONO FIORITI LE LAGRIME SECCATE / I BAMBINI CHE VIDERO MUTI E PALLIDI SONO CRE-
SCIUTI / IL RICORDO È CENERE / CHE UN VENTO DI GIORNO IN GIORNO DISPERDE / MA
NON SIA DIMENTICATO IL DELITTO / CHE STRAZIA L’INERME / SIA FUGGITA LA COLPA /
CHE MACCHIA ANCHE L’INNOCENTE / DELITTO E COLPA CHE SONO L’INGIUSTO GUADA-
GNO E L’INTOLLERANZA / PADRE E MADRE DELLA GUERRA. La cerimonia di inaugura-
zione della lapide commemorativa comportò anche l’intervento in pubblico di
alcune autorità dell’epoca. Fu in questo frangente che la protesta della popola-
zione esplose nuovamente in forma pubblica: durante lo svolgimento della
commemorazione, uno degli oratori richiamò l’attenzione dell’uditorio sui valori
della Resistenza, paragonando la condizione di Civitella a quella del Vietnam: la
protesta degenerò rapidamente nel tumulto, tanto che Amintore Fanfani, il qua-
le nell’immediato dopoguerra si era molto adoperato per Civitella 174 e in quella
occasione era presente sul palco degli invitati d’onore, «declinerà dopo gli inci-
denti ogni invito a tornare in paese» 175 .
Tornando per un attimo alla cerimonia pubblica che si tenne a Civitella
nel 1963, in occasione del conferimento della medaglia d’oro al valor civile, ap-
pare significativo il fatto che la Prefettura locale, incaricata del mantenimento
dell’ordine pubblico durante la manifestazione, avesse richiesto l’intervento di
don Daniele Tiezzi – un seminarista molto noto e ben voluto in paese che il 29
giugno 1944 riuscì, dopo essere stato gravemente ferito, a fuggire dalla piazza in
mune di Civitella in Val di Chiana. Cit. in PAGGI, Leonardo, “Storia di una memoria anti-
partigiana”, in PAGGI 1996, p. 72.
173 Ibidem.
174 Fra i provvedimenti ministeriali presi dal deputato della Camera (nonché esponente politico
del Collegio elettorale di Arezzo) Amintore Fanfani nei mesi successivi alla strage di Civitella ve
ne sono stati alcuni di notevole importanza, come l’assegnazione di una pensione di guerra per
le vedove, la riabilitazione dell’acquedotto pubblico e il rifacimento della pavimentazione urbana
e stradale.
175 Cfr. PAGGI, Leonardo, “Storia di una memoria anti–partigiana”, in ID. 1996, p. 74.
cui il plotone di esecuzione tedesco stava uccidendo gli abitanti a gruppi di cin-
que uomini per volta con l’ormai tristemente celebre colpo alla nuca.
Don Daniele Tiezzi intervenne pubblicamente, placando le proteste del
pubblico e portando sollievo con le sue parole: «Dobbiamo chiudere un passato
di odio e riaprire un avvenire di speranza e di fiducia. Ce lo chiedono i nostri
morti […]. Ciascuno di noi porta nel suo cuore uno spaventoso episodio da rac-
contare, ciascuno di noi rivive lo spasimo di quel giorno. Ma non vogliamo che il
passato ritorni a rinfocolare certi risentimenti, che vogliamo invece respingere
nel profondo del nostro animo. Sia invece questa l’occasione opportuna a stimo-
larci ad un cammino di pace e di riconciliazione, ad un futuro migliore, per una
vita più cristiana e più umile» 176 .
E saranno proprio gli anni Ottanta e poi gli anni Novanta ad inaugurare
quel «cammino di pace e di riconciliazione» auspicato da don Daniele Tiezzi, ma
non tanto nei termini di un avvicinamento reciproco fra la memoria di Civitella
e la memoria partigiana (si tenga presente, infatti, che gli anni Ottanta hanno
visto, fra l’altro, la pubblicazione dei libri di Edoardo Succhielli e di Luciano
Gambassini – entrambi detrattori della memoria dei sopravvissuti – che riacce-
sero la polemica fra le parti in causa), quanto nel mutuo riconoscimento e nel ri-
spetto dei diversi punti di vista che ancora oggi contraddistinguono la memoria
locale e quella istituzionale 177 .
Un vero e proprio «cammino di pace» è stato percorso dalla popolazione
grazie al conforto della religione cristiana, «fortemente radicata nel popolo» 178 ,
e per mezzo di una «fede profonda, pronta ad intevenire, là dove la ragione da
sola non sarebbe riuscita, a liberarsi dalla paura e dalla solitudine» 179 .
La popolazione di Civitella ha infatti corroborato negli ultimi anni la vi-
sione antieroica e martirologica delle proprie vittime mediante la costruzione di
un apparato commemorativo dalla simbologia preminentemente cristiana: oggi,
dalla piazza principale del paese, sono visibili una statua raffigurante san Fran-
cesco d’Assisi; una scultura in bronzo (palesemente dedicata alla figura di don
Daniele Tiezzi) che rappresenta un piccolo chierico nell’atto di fuggire dai solda-
ti tedeschi e di gettarsi dalle mura del paese, si direbbe “verso la libertà”; la
“Porta della Pace” della chiesa di santa Maria Assunta – opera dello scultore fio-
rentino Bino Bini – sulla quale è incisa la parola PACE in ventidue lingue diverse.
Dunque, abbiamo in queste ultime pagine descritto una memoria interio-
re (il racconto) e una memoria esteriore (la commemorazione) che a Civitella ri-
sultano assolutamente omogenee e congruenti, sia nei contenuti che nelle forme
espressive. Per di più, in ogni manifestazione della memoria locale, il fattore
maggiormente consolidante è rappresentato da una forte e diffusa simbologia
religiosa che permea racconti e cerimonie, miti e riti, voci e gesti.
180 Il testo che costituisce il presente paragrafo si compone di una serie di osservazioni etnogra-
fiche – rielaborate ed accresciute in questa sede – raccolte a San Pancrazio, Civitella in Val di
Chiana e Badia al Pino nei giorni 28, 29 e 30 giugno 2002 in occasione delle celebrazioni com-
memorative per il cinquantottesimo anniversario della strage nazi-fascista.
Pancrazio avessero, come dire, bisogno anche di un legame fisico… una cosa che
prima c’era, cioè c’era una strada che collegava questi tre paesi, e è stato dopo-
guerra che questo percorso è stato interrotto, perché c’è stata la spopolazione
delle campagne… ma questo ha permesso anche che ognuno, nel suo dolore, vi-
vesse la sua parte e non avesse un confronto… diciamo che questa strada inter-
rotta divideva le comunità… e allora l’anno scorso… […] mi convinsi che ci vole-
va un qualcosa di molto popolare, qualcosa che coinvolgesse direttamente la
gente […]. […] questa Marcia della Pace vuole ricordare questo momento ma in
modo anche… è un cammino per la pace, è qualcosa di simbolico che vuole raffi-
gurare il cammino che noi dobbiamo fare perché la pace trionfi… perché questo
messaggio di pace sia divulgato… perché ciò che è successo ci serva per non far
risuccedere un’altra volta questa cosa… […] non solo con la guerra, ma proprio
partendo dalla pace in famiglia, dalla pace tra vicini, dalla pace tra i popoli e
quindi dalla pace proprio più ampia intesa con tutti i conflitti che ci sono…
quindi una cultura di pace… […]» 181 .
Oltre che nei significati etici e culturali che intende esprimere,
l’importanza di questa iniziativa risiede indubbiamente in un allargamento dello
spazio celebrativo, nello spostamento delle frontiere simboliche che fino
all’anno precedente racchiudevano il sito commemorativo. A Civitella in Val di
Chiana, il centro urbano, con le sue strade, i suoi borghi, la piazza principale del
paese e il cimitero a valle, poco distante dalle abitazioni, hanno da sempre rap-
presentato il fulcro celebrativo della strage.
L’ampliamento dei luoghi adibiti al ricordo e la congiunzione – o, meglio,
la fusione – per mezzo di una marcia di più centri abitati, caricati della medesi-
ma funzione mnemonica, rende palese quello che potremmo dire il carattere a-
topico dell’evento commemorato: la strage operata dai soldati tedeschi a Civitel-
la, Cornia e San Pancrazio il 29 giugno 1944 equivale ad un massacro privo di un
luogo circoscritto, sconfinato, perché la morte colpisce ovunque, indiscrimina-
tamente, senza soluzione di continuità; ogni strada, ogni piazza, ogni angolo di
queste tre località ricorda un lutto violento, ma soprattutto, l’efferatezza della
«Hermann Göring» porta morte e distruzione anche in quelli che l’antropologo
Marc Augé chiamerebbe «nonluoghi» 182 : le polverose rotabili che collegano i
paesi fra loro, i campi incolti che circondano le abitazioni sparse nella campagna
e tutti quegli spazî in cui si è temporaneamente sprovvisti della propria identità
a causa del carattere neutro, a-sociale e spersonalizzante del luogo in cui ci si
trova. Nota infatti Augé che «se un luogo può definirsi come identitario, relazio-
nale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né
storico, definirà un nonluogo» 183 .
È in un contesto simile che la “Marcia per la Pace” da San Pancrazio a Ci-
vitella – una processione che unisce luoghi e nonluoghi della strage – acquista
un valore particolare e un preciso significato: percorrendo in gruppo sentieri di
campagna e strade boschive si dà simbolicamente forma ad una “geografia”
dell’eccidio altrimenti sfuggente, il cui oblio rischierebbe di far dimenticare
181 Testimonianza di Paolo Nannini. Intervista rilasciata in data 29 giugno 2002 a San Pancrazio
(intervistatore: Federico Melosi).
182 Cfr. AUGÉ 1992.
183 Ivi, p. 73 (cit. in TOTA 2003, p. 60).
l’altissimo numero di vittime uccise all’esterno dei centri abitati, nei campi e nei
boschi.
Commenta Ida Balò alla conclusione del percorso: «è stata un’esperienza
meravigliosa attraversare i luoghi della strage, abbiamo toccato tutti i luoghi
della strage, da San Pancrazio lungo la strada che hanno percorso… trovavo del-
le pietre e io dicevo: “Qui ci son passati”, per esempio… noi che l’abbiamo vissu-
ta, la vivevo in modo particolare […]» 184 .
La lunga processione termina infine sulla piazza principale di Civitella,
dove un semplice telo rosso steso sopra il sagrato della chiesa costituisce il palco
delle autorità invitate. I molti gonfalonieri presenti alla marcia si dispongono in
semicerchio dietro al palco e, con loro, i rappresentanti istituzionali presenti.
Dopo il saluto e il ringraziamento dei sindaci locali ai partecipanti alla
marcia, intervengono pubblicamente alcuni oratori, fra cui il vice presidente
della Regione Toscana, Angelo Passaleva, il quale domanda retoricamente
(quindi, sia a sé che all’uditorio) se una “Marcia per la Pace” abbia ancora un
senso: «[…] c’è da chiedersi perché abbiamo camminato insieme, in una dome-
nica di fine giugno, quando si ricorda un fine giugno… ventinove giugno di quasi
sessanta anni fa… ecco, davvero io lo chiedo a tutti voi e a me stesso… abbiamo
compiuto una liturgia inutile, forse una prova di, alta magari, ma inutile retori-
ca? […] pensiamo che abbia un valore reale questa manifestazione? O pensiamo
di essere velleitari? […]» 185 . La risposta di Passaleva è obbligata, ma perfetta-
mente in sintonia con i contenuti espressi dalla cinquantottesima commemora-
zione della strage di Civitella in Val di Chiana: «[…] l’unico valore che oggi, nella
società in cui viviamo, in questo mondo ormai globalizzato, l’unico valore im-
portante per cui occorre assolutamente spendersi, è il valore della pace» 186 .
184 Testimonianza di Ida Balò. Intervista rilasciata in data 30 giugno 2002 a Civitella in Val di
Sigmund Freud è stato il primo a mostrare, nel già citato Lutto e melan-
conia del 1915, come una mancata elaborazione del lutto possa condurre un
soggetto ad uno stato melanconico. La condizione melanconica è per Freud
«psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un ve-
nir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di a-
mare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del senti-
mento di sé» 187 .
Il corsivo qui aggiunto nel testo freudiano sta ad indicare quella che, nella
visione psicoanalitica del lutto, sembra essere la discriminante principale fra
una normale condizione luttuosa e lo stato propriamente melanconico:
quest’ultimo equivarrebbe in ogni sua caratteristica e conseguenza ad un nor-
male lutto, ad eccezione di una degradante percezione di sé e di un «enorme
impoverimento dell’Io» 188 .
Ne consegue che, là dove una corretta elaborazione della perdita di una
persona amata porta normalmente il soggetto in lutto a reinvestire la propria
«libido» – o sia la propria carica affettiva ed emozionale – su una possibile serie
di nuovi oggetti, la condizione melanconica comporta invece essenzialmente un
profondo disinteresse nei confronti del mondo esterno e il ripiegamento di tutto
il potenziale libidico sul proprio Io, poiché se la perdita di un soggetto in lutto è
un dato reale e tangibile, la perdita del soggetto melanconico riguarda esclusi-
vamente un livello coscienziale e immateriale: «nel lutto il mondo si è impoveri-
to e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso» 189 , conclude
in breve Freud.
In altre parole, il soggetto affètto da patologia melanconica, non riuscen-
do a dare un senso alla morte della persona amata o a farsi comunque una ra-
gione della dipartita del defunto, rischia di compromettere la propria esistenza
196 Ivi, p. 9.
197 Ivi, p. 20-21.
198 Ivi, p. 21.
199 Ivi, p. 16.
200 Ivi, p. 25.
201 Ibidem.
mondo» 202 racconta in una testimonianza del 1946 una donna sopravvissuta al
massacro di Civitella in Val di Chiana.
Sulla scorta di quanto esposto fino ad ora, si può senza dubbio affermare
che i superstiti di Civitella, nei giorni immediatamente successivi alla strage,
hanno effettivamente esperito una «fine del mondo» ed una conseguente crisi
del cordoglio.
Ciò è accaduto, in pratica, nel momento in cui una comunità di vedove si
è trovata ad affrontare il trauma di un lutto “inspiegabile” perché privo di una
dimensione individuale protetta entro cui potesse avvenire un’elaborazione per-
sonale e privo inoltre di cerimonie e rituali funebri che coadiuvassero cultural-
mente l’elaborazione collettiva della ingente perdita.
Può certamente definirsi critica, infatti, una condizione luttuosa tale da
comportare, per quasi ogni superstite, l’aver assistito alla barbara uccisione del
proprio padre, del proprio fratello, del proprio marito o del proprio figlio; la se-
poltura di decine e decine di corpi in fosse anonime 203 ; la mancanza di una ce-
rimonia funebre che avrebbe dovuto essere officiata dal parroco del paese
(anch’egli vittima del massacro); infine, la consapevole e drammatica ricostru-
zione delle abitazioni sopra gli irreperibili resti di qualche parente o conoscente.
Questi angoscianti dati di fatto hanno comportato per chi è rimasto in vi-
ta anche il pericolo di una crisi della presenza che, per la maggior parte dei so-
pravvissuti, è invece stato superato. È a questo punto che ci si può avvalere della
teoria demartiniana del lutto, nel momento in cui è necessario chiedersi quali
dinamiche e meccanismi psicosociali siano stati attivati ed utilizzati dai super-
stiti per aggirare una crisi della presenza incombente e derivante da una cata-
strofe culturale di tali dimensioni.
Si rende necessaria, cioè, un’interrogazione sulla natura degli strumenti
razionali ed emozionali che i sopravvissuti di Civitella in Val di Chiana hanno –
scientemente o meno – messo in pratica per affermare la loro presenza nel
mondo e nella storia.